LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PETITTI Stefano – Presidente –
Dott. ORILIA Lorenzo – rel. Consigliere –
Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –
Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –
Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 17085-2017 proposto da:
P.A., rappresentato e difeso dall’Avvocato FRANCESCO CELLAMMARE;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;
– controricorrente –
avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositato il 21/12/2016, R.G.n. 50626/2012 VG, Cron.n. 8986/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 22/05/2018 dal Consigliere Dott. LORENZO ORILIA.
RITENUTO IN FATTO
1 La Corte d’appello di Roma, con decreto 21.12.2016 ha quantificato in Euro 500,00 annui il danno non patrimoniale subito da P.A. per i dieci anni di irragionevole durata di un procedimento penale a cui era stato sottoposto in ordine al reato di omessa custodia di armi. Ha quindi condannato il Ministero della Giustizia al pagamento della somma di Euro 5.000,00 a titolo di equa riparazione ex lege n. 89 del 2001.
Secondo la Corte territoriale – per quanto ovviamente ancora interessa in questa sede – il modesto patema d’animo subito dal ritardo nella definizione del processo penale (tenuto conto della natura dell’imputazione) giustificava un discostamento dai parametri elaborati dalla giurisprudenza, apparendo equa la corresponsione di una somma annuale di Euro 500,00.
2 Per la cassazione di tale decreto il P. ha proposto ricorso sulla base di cinque motivi; il Ministero della giustizia resiste con controricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1 Con il primo motivo il ricorrente denunzia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione della L. n. 89 del 2001 art. 2,dell’art. 6 paragrafi 1, 13, 19 e 53 CEDU, nonchè dell’art. 116 c.p.c. in relazione agli artt. 2056,1223 e 1226 c.c. nonchè in relazione ai parametri di indennizzo stabiliti dalla Corte EDU e dalla Corte di Cassazione in casi analoghi, nonchè in relazione agli artt. 2,3,9,10,13,24,24,27,28,97 e 111 Cost. rimproverando alla Corte territoriale di essersi discostata dai parametri del giudice Europeo senza alcuna valutazione e richiama le pronunzie di questa Corte che hanno fissato in Euro 750,00 annui la misura dell’indennizzo per i primi tre anni e Euro 1.000,00 per i successivi. Si sofferma poi sulla vicenda penale che lo ha riguardato e sul fatto che il procedimento è stato archiviato ben dieci anni dopo la prescrizione del reato, evidenziando le ripercussioni negative in termini di reputazione per l’esistenza del procedimento penale e per la preclusione dell’esercizio dell’attività venatoria, trattandosi di appartenente ad antica e nobile famiglia di cacciatori ischitani.
Il motivo è infondato.
Premesso che la domanda di equa riparazione è stata proposta prima della novella del 2012 e che pertanto nel caso in esame non trova applicazione la L. n. 89 del 2012, art. 2 bis (che ha codificato la misura dell’indennizzo), osserva la Corte che secondo la costante giurisprudenza formatasi nel vigore della vecchia disciplina in tema di equa riparazione da irragionevole durata del processo ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale i parametri indicati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo non possono essere ignorati dal giudice nazionale, fermo restando che il valore di precedente delle statuizioni della Corte di Strasburgo opera per i casi simili e che da esse, comunque, il giudice nazionale può ragionevolmente discostarsi (tra le varie, Sez. 1, Sentenza n. 9692 del 27/04/2006 Rv. 589754; Sez. 1, Sentenza n. 19638 del 30/09/2004 Rv. 577454; Sez. E, Sentenza n. 1340 del 26/01/2004 Rv. 569678; Sez. 1, Sentenza n. 15268 del 12/07/2011 Rv. 619406; Sez. 2, Sentenza n. 12937 del 24/07/2012 Rv. 623380).
E’ stato altresì precisato che colui il quale si dolga della inadeguatezza del “quantum” rispetto alla giurisprudenza della Corte Europea ha comunque l’onere di addurre al giudice nazionale (ed alla Corte di Cassazione, nel quadro della allegazione dei fatti rilevanti per fondare la censura di malgoverno della valutazione equitativa) da un lato i profili di fatto della vicenda sottoposta e dall’altro lato i casi consimili risolti dalla Corte Europea con valutazioni adeguate (Sez. 1, Sentenza n. 19638/2004 cit.; Sez. 1, Sentenza n. 15750 del 11/07/2006 (Rv. 592491; Sez. 1, Sentenza n. 1742 del 27/01/2006 Rv. 589738).
Nel caso in esame, il ricorrente si limita ad invocare i parametri indicati dalla CEDU dilungandosi sui profili di fatto della vicenda, ma omette completamente di segnalare i casi consimili risolti dalla Corte Europea e quindi la censura si risolve in una critica sterile sulla motivazione adottata dalla Corte territoriale per giustificare lo scostamento in “peius”, critica che oggi non è più consentita stante la chiara formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
2 Col secondo motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4 e art. 111 Cost. per avere la Corte d’Appello reso una motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, avendo dapprima dato atto della semplicità del procedimento penale e del comportamento leale del ricorrente e poi affermato – attraverso un ragionamento sintomatico di un pregiudizio ideologico verso la caccia – che il non avere potuto praticare tale attività abbia costituito un modesto patema d’animo.
3 Col terzo motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, le stesse violazioni di legge ribadendo le medesime considerazioni.
Queste due censure (praticamente identiche) vanno esaminate congiuntamente e disattese per infondatezza.
Le sezioni unite di questa Corte hanno chiarito che la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (v. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014 Rv. 629830, ripresa da tante altre, tra cui ez. 6 – 3, Ordinanza n. 21257 del 08/10/2014 Rv. 632914; Sez. 3 -, Sentenza n. 23940 del 12/10/2017 Rv. 645828).
Ebbene, nel caso in esame, la critica si limita a proporre una alternativa valutazione dell’entità del paterna d’animo, omettendo perfino di dimostrare se il provvedimento di revoca del porto d’armi sia intervenuto e se vi siano state istanze di nuovo rilascio disattese: il ricorso, infatti, documenta (v. pag. 6) solo la comunicazione di avvio del procedimento, mentre la Corte d’Appello a sua volta dà atto della sola adozione di una misura cautelare reale (sequestro) poi annullata dal Tribunale del Riesame (v. pag. 2 decreto impugnato). Insomma, la censura si appunta sulla valutazione dell’entità del pregiudizio che la Corte d’Appello, con apprezzamento in fatto qui non sindacabile, ha adeguatamente apprezzato e stimato modesta.
4 Col quarto motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e art. 2056 c.c., nonchè l’omessa pronuncia e error in procedendo: assume il ricorrente che la Corte territoriale non si sarebbe pronunciata sulla richiesta dell’ulteriore risarcimento dei danni non patrimoniali per 300.000 Euro derivanti dalla revoca del porto d’armi e poi dal mancato rilascio dello stesso ai fini della pratica del suo unico sport insieme ai propri amici. Tale impedimento si sarebbe protratto per oltre dieci anni. Allo stesso modo, la Corte non si sarebbe pronunciata sulla richiesta di ulteriori 20.000 Euro per danni da immagine provocati dalla durata eccessiva del procedimento.
5 Col quinto motivo il ricorrente deduce, le stesse violazioni di legge ribadendo le stesse considerazioni.
Anche queste due censure (praticamente identiche) vanno esaminate congiuntamente e disattese per infondatezza.
Contrariamente a quanto si assume, la Corte d’Appello, nella liquidazione del pregiudizio non patrimoniale, ha considerato la preclusione dell’esercizio dello sport della caccia, ma lo ha limitato alla pendenza delle sole “indagini” (e non certo ai dieci anni di durata del procedimento, come invece il ricorso tende a sottolineare); inoltre, ha considerato anche “la natura dell’imputazione” e quindi ha considerato che si trattava di un reato concernente le armi da caccia.
Il danno non patrimoniale è stato quindi valutato dal giudice di merito nei suoi vari aspetti, a nulla rilevando che la quantificazione finale operata non abbia soddisfatto la ben maggiore pretesa del P., pari a oltre 300.000 Euro.
Il rigetto del ricorso comporta inevitabilmente addebito di spese alla parte soccombente, ma non l’obbligo di pagamento del doppio contributo unificato (v. D.P.R. n. 115 del 2002, art. 10 e S.U. 28.5.2014, n. 11915).
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 oltre spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, il 22 maggio 2018.
Depositato in Cancelleria il 29 ottobre 2018
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