LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –
Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –
Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –
Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –
Dott. DE FELICE Alfonsina – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 17832/2013 proposto da:
COMUNE DI *****, *****, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, P.LE CLODIO 56 QUARTO PIANO INT.
8, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI BONACCIO, rappresentato e difeso dall’avvocato ALDO VALENTINI, giusta delega agli atti;
– ricorrente –
contro
G.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA F. DENZA 15, presso lo studio dell’Avvocato ANIELLO IZZO, che lo rappresenta e difende unitamente all’Avvocato SANDRA OMICCIOLI, giusta delega in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 483/2013 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 27/05/2013 R.G.N. 284/2012.
FATTO E DIRITTO
RILEVATO CHE:
la Corte d’Appello di Ancona, in riforma della sentenza del Tribunale di Urbino, ha condannato il Comune di ***** a modificare il regime orario della dipendente G.A. da tempo parziale a tempo pieno e a corrispondere alla stessa le differenze retributive e gli interessi maturati dall’1 aprile 2009;
la decisione si fonda sulla interpretazione della clausola contenuta nell’art. 4, comma 14 del CCNL per il personale degli Enti locali del 14 settembre 2000, secondo cui “i dipendenti…hanno diritto di ottenere il ritorno al tempo pieno alla scadenza di un biennio dalla trasformazione, nonchè alle successive scadenze previste dai contratti collettivi. La trasformazione del rapporto a tempo pieno avviene anche in sovrannumero, riassorbibile con le successive vacanze”;
la Corte territoriale ha ritenuto che l’interpretazione fornita dal primo Giudice, secondo il quale la facoltà di domandare il ritorno al tempo pieno potesse essere validamente esercitata solo entro i due anni dalla trasformazione del rapporto o entro le successive scadenze previste dai contratti collettivi, contrastasse con la lettera e con la stessa ratio della norma contrattuale;
ha statuito, perciò, che il passaggio al tempo pieno fosse inibito soltanto nei primi due anni dalla trasformazione a tempo parziale, stante l’esigenza di assicurare un minimo di stabilità all’assetto concordato dalle parti, ritenendo che, oltre detto termine, il ritorno al full time fosse ammesso in qualunque momento, purchè rapportato alle esigenze organizzative del Comune, e che un rifiuto, da parte dell’Ente datore a “…giammai provvedere all’integrazione dell’orario della dipendente” (p. 3 sent.) era da considerarsi irragionevole ed illegittimo;
per la cassazione della sentenza ricorre il Comune di ***** con quattro motivi; G.A. resiste con controricorso.
CONSIDERATO CHE:
con il primo motivo il ricorrente deduce “Nullità della sentenza per carenza di motivazione, errores in procedendo, violazione e falsa applicazione di norme ed in particolare dell’art. 132 c.p.c., dell’art. 161c.p.c., dell’art. 430c.p.c., dell’art. 118 disp. att. c.p.c.”; si duole dell’estrema concisione nell’esposizione dei fatti di causa, che renderebbe impossibile individuare gli elementi di fatto a base del decisum; lamenta l’assenza di un sia pur minimo contenuto che agevoli la comprensione del percorso logico-giuridico seguito dalla Corte territoriale nell’adozione della decisione;
col secondo motivo contesta “Violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., e del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato. Errata qualificazione della domanda. Errores in iudicando”; il Comune ricorrente, sul presupposto della legittimità del rifiuto alla richiesta della dipendente di ritorno al regime orario full time, contesta il capo della sentenza d’Appello che l’ha condannato a corrispondere le retribuzioni arretrate; tale statuizione sarebbe stata resa ultra petita in difetto di sinallagmaticità della prestazione rispetto alle ore “non lavorate”, e in assenza di una domanda risarcitoria;
con il terzo motivo lamenta “Insufficiente ed incongrua motivazione per omesso esame di aspetti decisivi della controversia; violazione e falsa applicazione di legge ovvero del CCNL 14.9.2000 art. 4, comma 14; violazione dei principi di logicità e di ragionevolezza; difetto di motivazione; contraddittorietà, errores in iudicando”; la Corte d’Appello avrebbe contraddetto la ricostruzione del Tribunale sul significato letterale dell’espressione “alla scadenza del biennio”, contenuta nel contratto collettivo, senza motivare ex adverso; il Giudice d’appello avrebbe inoltre tralasciato di valutare le argomentazioni del primo Giudice, relative all’incidenza – sulla richiesta di aumento di ore del part time – della normativa di contenimento e riduzione della spesa pubblica per il personale, emanata negli anni cui si riferisce la controversa vicenda, che imponeva agli Enti locali il rispetto di precisi parametri di spesa in caso di nuove assunzioni (L. n. 296 del 2006; L. n. 244 del 2007; L. n. 122 del 2010); nel caso di specie la Corte d’Appello non avrebbe motivato sul punto determinante della questione riguardante il fatto che il part time era stato scelto volontariamente dalla G. e che il Comune di *****, nel rispetto delle proprie prerogative organizzative e in base ai propri fabbisogni ed esigenze, definiti con periodici provvedimenti di rideterminazione della dotazione organica, avesse confermato il regime orario a tempo parziale assegnato all’odierna controricorrente;
col quarto e ultimo motivo, il Comune ricorrente contesta il rigetto da parte del Giudice dell’Appello dell’eccezione di estinzione del processo per mancata riassunzione entro il termine perentorio di 180 giorni a norma del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 65 e 66;
il primo motivo di ricorso è infondato;
così come prospettata, la censura contraddice il consolidato orientamento di questa Corte secondo il quale il Giudice nella redazione della motivazione della sentenza non è tenuto a occuparsi espressamente e singolarmente di ogni allegazione, prospettazione e argomentazione delle parti, essendo necessario e altresì sufficiente, in base all’art. 132 c.p.c., n. 4, che lo stesso esponga, in maniera concisa, gli elementi di fatto e di diritto posti a fondamento della decisione, e che tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi non espressamente esaminati, incompatibili con la soluzione adottata e con il percorso argomentativo seguito, devono ritenersi implicitamente disattesi (cfr. ex plurimis, Cass. n. 24542 del 2009);
il secondo motivo è inammissibile e altresì infondato;
il vizio di ultrapetizione si riferisce al capo della sentenza d’Appello che ha riconosciuto alla dipendente il diritto agli arretrati per prestazioni non eseguite, in assenza della domanda risarcitoria nel ricorso di primo grado, contenente soltanto l’accertamento dell’eventuale responsabilità contrattuale da parte del Comune;
il ricorrente Comune non trascrive e non produce l’atto introduttivo del giudizio di primo grado dal quale questa Corte possa trarre gli elementi necessari per avere completa cognizione dell’oggetto della censura, siccome rivolta alla specifica argomentazione della sentenza impugnata, senza che sia necessario accedere ad altre fonti ed atti del processo (cfr. ex plurimis, Cass. n.18960 del 2017);
circa il profilo d’infondatezza del secondo motivo, si rileva che la doglianza, per come prospettata, appare fondata sull’erroneo presupposto che il rapporto di lavoro fosse nato in regime orario part time, mentre la Corte d’Appello ha accertato che esso andava ascritto all’ipotesi tipica, disciplinata dalla legge e dal contratto collettivo, del ritorno al full time di un contratto nato già in regime di tempo pieno;
lo spostamento del piano d’indagine prospettato dal Comune ricorrente di ricava dal passaggio in cui lo stesso afferma che “…il Comune non contesta che il CCNL attribuiva, all’epoca, alla dipendente la facoltà di pretendere il passaggio del rapporto a tempo pieno”, quasi a voler argomentare che si trattasse di una nuova assunzione con riferimento all’estensione dell’orario di lavoro da 24 a 36 ore;
la norma applicabile al caso in esame (art. 4, comma 14 del CCNL, attuativo del D.L. n. 79 del 1997, art. 6, comma 4, convertito in L. n. 140 del 1997), afferma testualmente che i dipendenti che trasformano il regime orario contrattuale da tempo pieno a tempo parziale “…hanno diritto di ottenere il ritorno al tempo pieno alla scadenza di un biennio dalla trasformazione nonchè alle successive scadenze previste dai contratti collettivi. La trasformazione avviene anche in soprannumero, riassorbibile con le successive vacanze”;
si deve, pertanto, ritenere corretta la statuizione della sentenza gravata di ritenere illegittimo il rifiuto del Comune ricorrente alla richiesta della dipendente di ritorno al full time nel prescritto termine di scadenza, essendo, la stessa, titolare di un diritto soggettivo al rientro all’originario regime contrattuale;
appare corretta altresì la statuizione di condanna alle differenze retributive dalla data della domanda di ritorno al full time, dovendo ritenersi che, in riferimento all’iniziale regime orario di servizio, il nesso sinallagmatico fosse attuale e sussistente; nessuna delle ragioni ostative, prospettate dal Comune, giunge a mettere in discussione la condivisibile conclusione del Giudice dell’Appello, atteso che, la previsione normativa della possibilità di trasformazione del rapporto in full time, anche in soprannumero, riassorbibile con le successive vacanze, senza la previsione di alcun altro presupposto o requisito costitutivo, conferma la pienezza del diritto soggettivo in capo alla dipendente che abbia aderito temporaneamente alla trasformazione del suo regime orario pieno in part time;
la terza censura è infondata;
le argomentazioni del ricorrente non tengono conto della reale entità della fattispecie, la quale riguarda una dipendente giunta al Comune di ***** in seguito a comando dal Comune di Pesaro, dove era stata assunta a tempo pieno nel 1995; il predetto comando si era trasformato in definitivo trasferimento nel 2000; la dipendente aveva chiesto di essere impiegata a tempo parziale, prima al 50% e in seguito al 66% e, in base al contratto collettivo applicabile aveva maturato il diritto, trascorsi due anni dal passaggio al part time, a ritornare al regime orario a tempo pieno, anche in soprannumero;
tale essendo il concreto svilupparsi del rapporto contrattuale, le condizioni limitative cui il Comune ricorrente si richiama, avrebbero potuto riferirsi semmai a contratti nati in regime a tempo parziale, per i quali un passaggio al regime di tempo pieno sarebbe equivalso a una nuova assunzione, soggetta a tutti i vincoli posti dalle leggi di bilancio, ma non avrebbero potuto giammai riferirsi a un contratto di lavoro in essere, quale quello oggetto della controversia, nato in regime di tempo pieno e provvisoriamente convertito in regime di part time;
la quarta censura è infondata;
il D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 65 e 66, cui la stessa fa riferimento, riguardano la diversa ipotesi in cui – nelle controversie concernenti i rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni – il Giudice, prima dello spirare dei novanta giorni per proporre il tentativo di conciliazione, qualora abbia rilevato la proposizione della domanda giudiziale, sospende il giudizio fissando alle parti un termine perentorio di sessanta giorni per esperire il tentativo di conciliazione; trascorso detto termine senza che la parte lo abbia riassunto, il processo si estingue (Cass. n.15103 del 2012; Cass. n.13708 del 2007);
nel caso in esame nessuno spazio applicativo può trovare il meccanismo sopra richiamato, atteso che dagli atti di causa risulta che il tentativo di conciliazione è stato esperito anteriormente alla presentazione del ricorso;
in definitiva, non meritando le censure accoglimento, il ricorso va rigettato; le spese, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza;
si dà atto che sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso nei confronti della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.500 per compensi professionali, oltre alle spese forfetarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200 e agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 1 bis, dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, il 27 giugno 2018.
Depositato in Cancelleria il 29 ottobre 2018
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