Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.27392 del 29/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 19614-2014 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., (C.F. *****), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, che la rappresenta e difende giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

L.I.E.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 599/2014 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 21/05/2014 R.G.N. 936/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 3/07/2018 dal Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE Alberto, che ha concluso per il rigetto dei primi due motivi, accoglimento del terzo;

udito l’Avvocato ANNA BUTTAFOCO, per delega verbale Avvocato PAOLO TOSI.

FATTI DI CAUSA

1.1. Con ricorso L. n. 92 del 2012, ex art. 1, commi 47 e ss., L.I.E. conveniva dinanzi al Tribunale di Torino Poste Italiane S.p.A. per ottenere la declaratoria d’illegittimità del licenziamento intimatogli in data 17/10/2011 per superamento del periodo di comporto con conseguente reintegra nel posto di lavoro e risarcimento del danno.

1.2. Il Tribunale accoglieva la domanda rilevando che, se la società avesse accolto la richiesta di ferie del L. di cui alla lettera del 5/10/2015, il termine di comporto non sarebbe maturato.

1.3. La decisione era riformata in sede di opposizione da parte del medesimo Tribunale di Torino che, al contrario, riteneva che il lavoratore non avesse una incondizionata facoltà di sostituire alla malattia le fruizione delle ferie.

1.4. Il reclamo proposto dal lavoratore veniva accolto dalla Corte d’appello di Torino.

Riteneva la Corte territoriale, come già il Tribunale in sede sommaria, che il lavoratore avesse la facoltà di sostituire alla malattia la fruizione delle ferie allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto, dovendosi escludere una incompatibilità tra malattia e ferie. Evidenziava che, nella specie, il rifiuto di concedere le ferie era rimasto sostanzialmente immotivato essendo a tal fine vaghe ed inconsistenti le addotte esigenze organizzative. Escludeva, poi, che fosse possibile ampliare il periodo di comporto in sede giudiziale dovendo rimanere fermi i giorni a tal fine già specificati dall’azienda.

2. Per la Cassazione della sentenza ricorre Poste Italiane S.p.A. con tre motivi.

3. L.I.E. è rimasto intimato.

4. La società ha depositato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 2110 c.c., comma 2, e art. 41, comma 3, c.c.n.l. Poste 14/4/2011 (art. 360 c.p.c., n. 3). Lamenta che la Corte territoriale avrebbe erroneamente trascurato la giurisprudenza di questa Corte di legittimità che nega la sussistenza di un diritto del lavoratore a sostituire le ferie alla malattia e per l’effetto erroneamente applicato la norma contrattuale che prevede solo la possibilità di concessione di un periodo di aspettativa, nella specie non richiesta.

1.2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione degli art. 2110, comma 2, e art. 2109, comma 2 (art. 360 c.p.c., n. 3) nonchè omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5). Lamenta che la Corte territoriale abbia ritenuto sussistente una facoltà incondizionata del lavoratore di sostituire la malattia con le ferie ed abbia omesso di considerare le esigenze aziendali quali emerse dall’istruttoria e ritenuto sostanzialmente immotivato il rifiuto aziendale di concessione delle ferie prendendo in considerazione la sola posizione del L. e non tenendo conto di quanto fosse stato esplicitato dal teste G.P.F., direttore dell’ufficio postale cui era addetto il L., circa il fatto che, una volta trascorso il mese di settembre (periodo in cui le ferie dovevano essere ancora concesse secondo la normativa contrattuale), le successive richieste dovevano essere valutate anche sulla base della presenza o assenza degli altri dipendenti.

1.3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la violazione degli art. 2110, comma 2, e L. n. 300 del 1970, art. 7, comma 2, (art. 360 c.p.c., n. 3). Lamenta che la Corte territoriale abbia ritenuto la società vincolata all’indicazione delle assenze considerate determinanti ai fini del superamento del periodo di comporto attribuendo alla comunicazione di dettaglio il carattere della immodificabilità ciò in violazione dei principi affermati da questa Corte di legittimità in ordine all’unico onere esistente a carico del datore di lavoro che è quello di allegare e provare compiutamente, nell’eventuale sede giudiziaria, i fatti costitutivi del potere esercitato.

2. I primi due motivi, da trattarsi congiuntamente in quanto intrinsecamente connessi sono infondati.

La decisione della Corte territoriale si è mossa lungo due direttrici: da un lato si è ritenuto che il lavoratore abbia la facoltà di trasformare il titolo dell’assenza allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto, dovendosi escludere una incompatibilità assoluta tra ferie e malattia; dall’altro si è considerato immotivato il diniego di concessione delle ferie.

Quanto ai suddetti aspetti le doglianze della ricorrente di cui ai primi motivi di ricorso non colgono nel segno.

La società incentra i propri rilievi assumendo che non sia configurabile alcun obbligo di concessione delle ferie allorquando il lavoratore possa usufruire di altre regolamentazioni legali o contrattuali che gli consentano di evitare la risoluzione del rapporto per superamento del periodo di comporto, e in particolare del collocamento in aspettativa, ancorchè non retribuita (v. Cass. 8 novembre 2000, n. 14490, Cass. 9 aprile 2003, n. 5521, Cass. 10 novembre 2004, n. 21385).

Tuttavia, in disparte la considerazione che non si evince quando ed in che termini tale questione sia stata posta ai giudici del merito, nella specie non era stata quella la ragione del diniego delle ferie (giammai essendosi fatto riferimento da parte della società ad opzioni alternative quale ad esempio l’aspettativa). Ed infatti il diniego era stato formalmente motivato da non meglio precisate esigenze organizzative dell’ufficio ritenute dalla Corte territoriale, con un giudizio di fatto incensurabile in questa sede, oltre che vaghe del tutto inconsistenti.

Ed allora non può invocarsi un obbligo del lavoratore di avvalersi di regolamentazioni legali o contrattuali che gli consentano di evitare la risoluzione del rapporto quando in concreto non sussistano ragioni ostative rispetto ad una richiesta di ferie tempestivamente avanzata e che avrebbe consentito al dipendente di proseguire nel rapporto di lavoro senza dover far ricorso all’aspettativa (che, si ricorda, opera alla stregua di una parentesi che determina la sospensione di tutte le obbligazioni sinallagmatiche tra le parti senza decorrenza dell’anzianità e senza corresponsione della retribuzione – v. in motivazione, Cass. 20 settembre 2016, n. 18420, Cass. 12 febbraio 2015, n. 2794, Cass. 20 maggio 2013, n. 12233 -).

In sostanza, pur non essendo il datore di lavoro tenuto ad accogliere una richieste di ferie tempestivamente avanzata, essendo quest’ultima rimessa ad una sua valutazione nell’ambito del bilanciamento di esigenze contrapposte, tuttavia, al fine di evitare il licenziamento, e quindi la perdita del posto di lavoro, solo esigenze organizzative effettive e concrete possono, in ossequio alle clausole generali della correttezza di buona fede e correttezza, giustificare un diniego e così far prevalere l’interesse aziendale all’interesse del lavoratore di godere di giorni di ferie, scongiurando così la maturazione del comporto.

Come è stato da questa Corte affermato, spetta al datore di lavoro dimostrare – ove sia stato investito di una richiesta di ferie finalizzata – di aver tenuto conto, nell’assumere la relativa decisione, del rilevante e fondamentale interesse del lavoratore ad evitare in tal modo la possibile perdita del posto di lavoro per scadenza del periodo di comporto (v. Cass. 3 marzo 2009, n. 5078).

Nella specie, la Corte torinese, con motivazione rispettosa degli indicati principi e tenendo conto di tutte le risultanze di causa, ha ritenuto che il diniego di concessione delle ferie di cui trattasi (ad un dipendente notoriamente alle prese con una complessa patologia che lo aveva costretto a casa per periodi ben più lunghi) non avesse giustificazione alcuna.

3. E’ infondato anche il terzo motivo di ricorso.

La Corte territoriale ha fatto corretta applicazione della regola dell’immodificabilità delle ragioni comunicate come motivo del licenziamento che, operando come fondamentale garanzia giuridica per il lavoratore, il quale vedrebbe altrimenti frustrata la possibilità di contestare la risoluzione unilateralmente attuata e la validità dell’atto di recesso, ha carattere generale, e vale quindi per tutti i casi di assoggettamento del rapporto di lavoro a norme limitatrici del potere di recesso del datore di lavoro, quali sono sia le norme della L. n. 604 del 1966 sia quella di cui all’art. 2110 c.c., comma 2, – cfr. Cass. 22 marzo 2005, n. 6143, Cass. 13 agosto 2009, n. 18283 -. In altri termini, il datore di lavoro non ha l’onere di specificare dettagliatamente le giornate di assenza del dipendente ma se lo fa (come nel caso in esame visto che nella lettera di recesso era stato indicato che il dipendente era stato assente per malattia dall’8/9/2010 al 14/10/2011 ed erano stati altresì specificati i giorni di assenza mese per mese per una sommatoria di 366 giorni) non può poi, solo in giudizio, riferirsi ad un periodo diverso. E ciò in base al fondamentale ed inderogabile principio dell’immutabilità delle ragioni comunicate come legittimanti il recesso da tempo consolidato nella giurisprudenza di legittimità ed architrave del sistema garantistico statutario in materia di licenziamenti per giusta causa, cui il recesso per periodo di comporto va assimilato sotto il profilo qui in esame.

Nel caso di cui si discute, del resto, è stata la stessa società a sostenere, ab initio, che il superamento del periodo di comporto vi fosse stato nei termini di cui alla comunicazione al lavoratore tanto che la discussione tra le parti era stata incentrata sulla rilevanza dei cinque giorni di ferie richiesti e poi negati a scongiurare detto superamento (si veda anche pag. 11 della sentenza impugnata ed il riferimento alla posizione difensiva assunta dalla società in sede di ricorso in opposizione, cap. 36). Sostenere, invece, successivamente che il periodo di comporto fosse stato già superato prima della indicata data del 14 ottobre 2011 e cioè già alla data del 30 settembre 2011 sulla base di altro prospetto prodotto in corso di causa significava alterare i termini della questione rispetto a quelli tenuti presente nel momento in cui la società aveva ritenuto di disporre il licenziamento (e d’altra parte non si vede quale senso possa aver avuto un diniego di concessione delle ferie successivo alla data della pretesa maturazione del comporto).

Non si tratta, evidentemente, di aderire ad una impostazione eccessivamente formalista degli oneri sussistenti a carico del datore di lavoro ma di valorizzare anche in quest’ambito gli obblighi di buona fede e correttezza cui sono tenute le parti, obblighi che trovano la relativa formulazione positiva nell’art. 1175 cod. civ., a tenore del quale il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza ed un ulteriore supporto nel successivo art. 1375 cod. civ. ove si sancisce che il contratto deve essere eseguito secondo buona fede. Nè rileva che il lavoratore fosse a conoscenza di avere superato il periodo di comporto perchè comunque sussiste la violazione del principio prima ricordato che costituisce un limite all’esercizio del potere del datore di lavoro.

4. Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato.

5. Nulla va disposto per le spese processuali non avendo l’intimato svolto attività difensiva.

6. Va dato atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, considerato che, in base al tenore letterale della disposizione, l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass. Sez. un. n. 22035/2014).

PQM

La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 3 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 29 ottobre 2018

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