Corte di Cassazione, sez. III Civile, Sentenza n.27446 del 30/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – rel. Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 16835-2016 proposto da:

M.C., M.P., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA ARNO 88, presso lo studio dell’avvocato CAMILLO UNGARI TRASATTI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato KARIM DAHMOUNI giusta procura speciale in calce al ricorso per M.C., si costituisce l’avvocato VINCENZO MARIA FARGIONE con studio in ROMA, VIALE CARSO 63 con procura speciale del Dott. Notaio L.A. in *****, rep. n. ***** per M.P.;

– ricorrenti –

contro

AZIENDA SANITARIA LOCALE N. ***** SAVONESE, in persona del Commissario Straordinario e legale rappresentante pro tempore Dott. P.E., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA NICOLO’

TARTAGLIA 5, presso lo studio dell’avvocato SANDRA AROMOLO, rappresentata e difesa dall’avvocato MARIO SPOTORNO giusta procura speciale a margine del controricorso;

S.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CRESCENZIO 17/A, presso lo studio dell’avvocato MICHELE CLEMENTE, che lo rappresenta e difende giusta procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrenti –

e contro

ZURICH INSURANCE COMPANY LTD, ZURICH INSURANCE COMPANY PLC LIMITED COMPANY;

– intimati –

nonchè da:

A.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CASSIODORO 1/A, presso lo studio dell’avvocato MARCO ANNECCHINO, rappresentato e difeso dagli avvocati ROBERTO MARCELLO DELFINO, GIORGIO CERIALE giusta procura speciale in calce al controricorso e ricorso incidentale;

– ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 365/2016 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 31/03/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 08/06/2018 dal Consigliere Dott. PAOLO PORRECA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARDINO Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e del ricorso incidentale;

udito l’Avvocato VINCENZO MARIA FARGIONE per M.P.;

udito l’Avvocato KARIM DAHMOUNI per delega;

udito l’Avvocato MARIO SPORTORNO;

udito l’Avvocato MICHELE CLEMENTE;

udito l’Avvocato GIORGIO CERIALE.

FATTI DI CAUSA

M.C. e P., quali marito e figlio di Carla Brunetti, convenivano in giudizio l’Azienda Ospedaliera Santa Corona, chiedendo il risarcimento dei danni, “iure proprio” e “iure hereditatis”, per il decesso della loro congiunta. Esponevano che quest’ultima era stata ricoverata presso il Pronto Soccorso Ortopedico e Traumatologico d’urgenza dell’azienda, dove le era stata diagnosticata una “frattura scomposta a carico dell’estremità femorale sinistra”, con conseguente intervento di riduzione e sintesi del femore, senza però che, alla dimissione, le fosse prescritto un trattamento farmacologico antitrombotico invece seguito durante il ricovero. Circa due settimane dopo la B. decedeva e la causa della morte era individuata, dal medico che aveva redatto il certificato necroscopico, in un’embolia polmonare massiva. Concludevano pertanto per la responsabilità della struttura sanitaria.

La convenuta costituendosi chiamava in causa A.C., in quanto direttore del reparto ortopedico, e S.G., in quanto medico che aveva dimesso la B., i quali, a loro volta, chiamavano in causa la società di assicurazioni Zurich Insurance.

Il tribunale, per quanto qui ancora rileva, rigettava la domanda ritenendo incerta la causa della morte, con pronuncia confermata dalla corte di appello in uno alla compensazione delle spese del grado.

Avverso questa decisione ricorrono per cassazione M.C. e P., articolando tre motivi. Per M.P. si è costituito ulteriore difensore con atto del 26 maggio 2018. I ricorrenti hanno successivamente depositato memoria congiunta.

Resistono con controricorso l’ASL n. ***** Savonese, S.G. e A.C. che ha anche proposto ricorso incidentale affidato a cinque motivi. Tali parti hanno altresì depositato memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso principale si prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., e degli artt. 113,115 e 116 c.p.c., poichè la corte di appello avrebbe errato nel ritenere che l’incertezza sulla causa della morte determinasse il rigetto della domanda, atteso che l’onere della prova sul nesso eziologico avrebbe dovuto essere posto a carico dell’obbligato.

Con il secondo motivo di ricorso principale si prospetta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697,2700, c.c., e degli artt. 113,115 e 116 c.p.c., poichè la corte di appello avrebbe errato nell’affermare che solo l’esame autoptico avrebbe potuto indicare la dinamica causale del decesso, posto che il certificato di morte, attestante la causa del decesso nei termini di un’embolia polmonare, era fidefacente, e gli unici legittimati a richiedere la verifica diagnostica richiamata erano i sanitari, sicchè, in assenza di elementi contrari a quelli esteriori rilevati dal certificato necroscopico, non avrebbe potuto andarsi di contrario avviso a quanto emergente dallo stesso, tanto più in quanto coerente con le risultanze delle prove orali, che avevano confermato la presenza di un edema e di arrossamento al ginocchio, compatibili con una tromboflebite profonda all’arto inferiore sinistro. Inoltre, il consulente d’ufficio sulle cui conclusioni poggiavano quelle della corte di appello, si sarebbe limitato a escludere certezze sulle cause della morte, senza affermare quale fosse quella più probabile, mentre aveva accertato l’omissione colpevole dei sanitari, consistita nella mancata prescrizione di antitrombotici alle dimissioni, indicata quale fattore di incremento del rischio di embolia polmonare.

Con il terzo motivo di ricorso principale si prospetta, si sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza e del procedimento in relazione alla mancata rinnovazione della consulenza officiosa, poichè il perito aveva mancato di rispondere al quesito giudiziale con cui gli era stato richiesto di individuare la causa del decesso, con verifica che avrebbe dovuto essere anche in termini probabilistici. Inoltre, il collegio di merito avrebbe errato nel disattendere la sollecitazione al rinnovo della perizia anche alla luce delle prove con cui era stata dimostrato sia che la vittima, come indicato pure dagli esami preoperatori, non registrava altri fattori di rischio, in specie per infarti o ictus; sia che, al momento della morte, la stessa presentava segni esteriori allineati alle risultanze riportate dal certificato di morte. Infine, il rinnovo peritale avrebbe dovuto disporsi tenuto altresì conto delle documentate critiche mosse all’affermazione del consulente d’ufficio, scientificamente erronea, secondo cui statisticamente la complicanza trombotica si attestava attorno alla 0,1% dei casi dopo l’intervento di artroplastica senza profilassi antibiotica, mentre quest’ultima terapia la riduceva allo 0,05% senza però escluderla.

2. Mentre il controricorrente S. ha riproposto, subordinatamente all’accoglimento del ricorso principale, le eccezioni sollevate nella fase di merito avverso la chiamata in causa dell’ASL, il controricorrente A., come anticipato in parte narrativa, ha formulato ricorso incidentale articolato in cinque motivi.

Con il primo motivo di ricorso incidentale si prospetta la violazione dell’art. 112 c.p.c., poichè la corte di appello avrebbe omesso la pronuncia di rigetto della chiamata in causa, richiesta in ragione del fatto che il protocollo di cura vigente presso la struttura, redatto dallo stesso ricorrente, imponeva, nel caso, la prescrizione di antitrombotici, sicchè il deducente, quale direttore, non avrebbe mai potuto rispondere dei fatti allegati.

Con il secondo motivo di ricorso incidentale si prospetta la violazione dell’art. 112 c.p.c., poichè la corte di appello avrebbe omesso la pronuncia di tardività di ogni eventuale domanda proposta in appello dai ricorrenti principali, non essendosi estesa tempestivamente alcuna pretesa da parte degli stessi nei confronti del deducente quale chiamato in causa non a titolo di corresponsabilità.

Con il terzo motivo di ricorso incidentale si prospetta la violazione dell’art. 112 c.p.c., poichè la corte di appello avrebbe omesso la pronuncia di inammissibilità della domanda di manleva in quanto meramente riproposta in seconde cure e non formulata con appello incidentale condizionato, necessario trattandosi di domanda autonoma.

Con il quarto motivo di ricorso incidentale si prospetta la violazione dell’art. 112 c.p.c., poichè la corte di appello avrebbe omesso la pronuncia di diniego della giurisdizione sulla domanda di manleva, in favore del giudice contabile, atteso che, essendo l’ASL un ente pubblico, il preteso pregiudizio arrecato dal deducente si configurava necessariamente come danno erariale.

Con il quinto motivo di ricorso incidentale si prospetta la violazione dell’art. 91 c.p.c., poichè la corte di appello avrebbe errato nell’omettere la condanna alla rifusione delle spese di giudizio a carico della chiamante in causa in quanto totalmente soccombente anche rispetto alla chiamata, posto che rispetto a prestazioni di “routine”, quali le discusse dimissioni ospedaliere, il direttore della struttura poteva rispondere, in ogni caso, solo per dolo o colpa grave, ipotesi insussistenti nel caso di specie.

3. Il primo motivo di ricorso principale è inammissibile.

Va dato atto che questa Corte di recente (cfr., ad esempio, Cass., 07/12/2017, n. 29315, Cass., 15/02/2018, n. 3704), ha ritenuto che in tema di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere del paziente dimostrare l’esistenza del nesso causale, provando che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, causa del danno.

Quelle che seguono sono le ragioni ricostruite.

E’ stato rilevato che nei giudizi di risarcimento del danno derivante da inadempimento contrattuale, così come in quelli di risarcimento del danno da fatto illecito, la condotta colposa del responsabile e il nesso di causa tra questa e il danno costituiscono l’oggetto di due accertamenti distinti, sicchè la sussistenza della prima non comporta, di per sè, la dimostrazione del secondo e viceversa.

L’art. 1218 c.c., in questo senso, solleva il creditore dell’obbligazione che si afferma non adempiuta (o non esattamente adempiuta) dall’onere di provare la colpa del debitore, ma non dall’onere di provare il nesso di causa tra la condotta del debitore e il danno di cui domanda il risarcimento. E infatti:

– la previsione dell’art. 1218 c.c. trova giustificazione nell’opportunità di far gravare sulla parte che si assume inadempiente, o non esattamente adempiente, l’onere di fornire la prova “positiva” dell’avvenuto adempimento o dell’esattezza dell’adempimento, sulla base del criterio della maggiore vicinanza della prova, secondo cui essa va posta a carico della parte che più agevolmente può fornirla (Cass., Sez. U., 30/10/2001, n. 13533);

tale maggiore vicinanza del debitore non sussiste in relazione al nesso causale fra la condotta dell’obbligato e il danno lamentato dal creditore, rispetto al quale non ha dunque ragion d’essere l’inversione dell’onere prevista dall’art. 1218 c.c. e non può che valere, quindi, il principio generale espresso nell’art. 2697 c.c., che onera l’attore (sia il danneggiato in sede extracontrattuale che il creditore in sede contrattuale) della prova degli elementi costitutivi della propria pretesa;

ciò vale, ovviamente, sia in riferimento al nesso causale materiale (attinente alla derivazione dell’evento lesivo dalla condotta illecita o inadempiente) che in relazione al nesso causale giuridico (ossia all’individuazione delle singole conseguenze pregiudizievoli dell’evento lesivo);

trattandosi di elementi egualmente “distanti” da entrambe le parti (e anzi, quanto al secondo, maggiormente “vicini” al danneggiato), non c’è spazio per ipotizzare a carico dell’asserito danneggiante una “prova liberatoria” rispetto al nesso di causa, a differenza di quanto accade per la prova dell’avvenuto adempimento o della correttezza della condotta;

nè può valere, in senso contrario, il fatto che l’art. 1218, c.c. faccia riferimento alla causa, laddove richiede al debitore di provare “che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”: infatti, come condivisibilmente affermato, di recente, da questa Corte (Cass. Cass., 26/07/2017, n. 18392), la causa in questione attiene alla “non imputabilità dell’impossibilità di adempiere”, che si colloca nell’ambito delle cause estintive dell’obbligazione, costituenti “tema di prova della parte debitrice”, e concerne un “ciclo causale” che è del tutto distinto da quello relativo all’evento dannoso conseguente all’adempimento mancato o inesatto.

Da quanto esposto deriva, secondo l’anticipato orientamento, che nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica è onere dell’attore, paziente danneggiato, dimostrare l’esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno di cui chiede il risarcimento, onere che va assolto dimostrando, con qualsiasi mezzo di prova, che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, la causa del danno, con la conseguenza che, se, al termine dell’istruttoria, non risulti provato il suddetto nesso tra condotta ed evento, la domanda dev’essere rigettata.

E’ stato osservato come questa conclusione non si ponga in contrasto con quanto affermato sin da Cass., Sez. U., 11/01/2008, n. 577, secondo cui “in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante”. Questo principio venne infatti affermato a fronte di una situazione in cui l’inadempimento “qualificato”, allegato dall’attore (ossia l’effettuazione di un’emotrasfusione) era tale da comportare di per sè, in assenza di fattori alternativi “più probabili”, nel caso singolo di specie, la presunzione della derivazione del contagio dalla condotta. La prova della prestazione sanitaria conteneva già, in questa chiave di analisi, quella del nesso causale, sicchè non poteva che spettare al convenuto l’onere di fornire una prova idonea a superare tale presunzione secondo il criterio generale di cui all’art. 2697 c.c., comma 2, e non la prova liberatoria richiesta dall’art. 1218 c.c..

Deve però osservarsi che, nel caso qui in delibazione, la corte di merito, prim’ancora di rilevare un’incertezza inerente al ciclo causale del decesso riferibile alla condotta dei sanitari coinvolti, ha positivamente accertato (pagg. 12-13) l’impossibilità in concreto d’ipotizzare attendibilmente un nesso oggettivo tra la morte e quella condotta poichè avvenuta dopo due settimane dalle dimissioni, lasso di tempo durante il quale la signora B. era stata curata presso il proprio domicilio.

Ne deriva un accertamento, in fatto e non censurato nei limiti in cui lo sarebbe astrattamente stato in questa sede, che esclude, a ben vedere, potesse ipotizzarsi il nesso causale in discussione.

La deduzione di violazione del riparto degli oneri probatori, sotto questo profilo, si traduce in un tentativo di rilettura istruttoria in parte qua”, e come tale è inammissibile.

Al contempo, va dato seguito al principio per cui in tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli invocati artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicchè la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, bensì un errore di fatto, che dev’essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass., 12/10/2017, n. 23940).

In alcun modo viene poi esplicitato in che modo potrebbe avere rilievo l’art. 113 c.p.c..

Sul punto la giurisprudenza ha chiarito che il vizio della sentenza dev’essere dedotto, a pena d’inammissibilità del motivo, giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., n. 4, mediante specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a dimostrare motivatamente in quale modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendosi alla corte regolatrice di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione nell’ambito di un giudizio a critica vincolata (Cass., 29/11/2016, n. 24298).

3.1. Il secondo e terzo motivo di ricorso principale, da esaminare congiuntamente per connessione, sono in parte inammissibili, in parte infondati.

A prescindere dalle questioni di merito allegate nel controricorso di A.C. – che, riportando rilievi scritti del consulente di ufficio, sottolinea come il certificato di morte fu redatto dal medico curante e non da un medico legale (pagg. 15-16) – deve in primo luogo rilevarsi che il certificato necroscopico è fidefacente, quale atto pubblico, dei fatti che il redigente attesta come accaduti davanti a lui o dei dati oggettivi rilevati, quali i segni esteriori sul corpo, ma non delle ipotesi scientifiche che da questi ultimi egli tragga, in quanto elementi valutativi.

La circostanza, pure evidenziata in ricorso, per cui, in caso di dubbi sulle cause naturali della morte, il medico necroscopo avrebbe dovuto esplicitarli ovvero procedere alla denuncia penale, non toglie che il valore legale vincolante del certificato di morte non si può estendere alle ipotesi ricostruttive.

Deve dunque concludersi che non vi è stata alcuna violazione dell’art. 2700 c.c..

In questo senso correttamente la corte territoriale ha apprezzato le risultanze della consulenza officiosa, che sono state nel senso della impossibilità di rilevare, in assenza di esame autoptico, le cause della morte, poichè, secondo il perito, “anche altre patologie avrebbero potuto provocare il decesso della paziente con modalità analoghe a quelle in concreto verificatesi, sicchè nè la rapidità della fine, nè i segni di tumefazione al ginocchio operato possono essere considerati con sicurezza segni di embolia polmonare massiva” (pag. 12 della sentenza impugnata).

La corte territoriale, poggiando quindi su tali rilievi dell’ausiliario, sottolinea la natura equivoca dei segni esteriori di edema e arrossamento del ginocchio, nonchè quella delle risultanze degli esami preoperatori che non avevano evidenziato altre patologie tali da lasciar ipotizzare implicazioni quali infarto o ictus (stessa pagina).

E da ciò – unitamente agli altri elementi sopra ricordati, consistenti nel lasso temporale dalle dimissioni e nella cura a domicilio ad opera del medico curante – il collegio di merito trae la conclusione per cui il criterio probabilistico non poteva neppure trovare ingresso rispetto all’individuazione delle cause del decesso, e, a valle, rispetto al rapporto eziologico tra quello specifico evento e l’inadempimento in discussione.

Si tratta, cioè, di profili distinti: il primo attiene all’individuazione della causa della morte; il secondo inerisce al rapporto tra il decesso per come intervenuto e l’accertato inadempimento nella profilassi. Mancando il primo resta logicamente assorbito il secondo.

A fronte di tale accertamento, anche i motivi in esame, per come formulati, si risolvono in un tentativo di rilettura istruttoria, inammissibile in questa sede.

In particolare, in primo luogo non risulta, neppure in questa chiave, la violazione del riparto dell’onere probatorio. A quest’ultimo riguardo è opportuno ora ribadire che la violazione dell’art. 2697 c.c., si configura esclusivamente se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onere della prova a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni (Cass., Sez. U., 05/08/2016, n. 16598, pag. 35). Profilo che, come visto, nella fattispecie deve escludersi.

Sulla prospettata violazione degli artt. 113,115 e 116 c.p.c., vale quanto sopra rilevato.

Deve peraltro rilevarsi – sebbene il vizio motivazionale non sia stato esplicitamente articolato – che alla fattispecie è applicabile la nuova previsione di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, introdotta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54,convertito dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, da interpretarsi come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, sicchè in cassazione è denunciabile – con ipotesi che si converte in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, dando luogo a nullità della sentenza – solo l’anomalia motivazionale che si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”; nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili”, ossia in manifeste e irresolubili contraddizioni, nonchè nella “motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile”; esclusa qualunque rilevanza di semplici insufficienze o contraddittorietà, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., Sez. U., 07/04/2014, n. 8053; Cass., 12/10/2017, n. 23940).

E’ quindi chiaro che nessuna delle censure in scrutinio – anche riqualificate, in prospettiva contenutistica, in termini motivazionali – rientra nel descritto perimetro. Nè gli evidenziati limiti possono essere superati correlando il non condiviso apprezzamento probatorio al mancato accoglimento della richiesta di rinnovo della consulenza tecnica d’ufficio, visto che il giudice di merito non è tenuto, anche a fronte di una esplicita richiesta di parte, a disporre una nuova perizia, atteso che il rinnovo dell’indagine tecnica rientra tra i poteri discrezionali del suddetto giudice, sicchè non è neppure necessaria un’espressa pronunzia sul punto (Cass., 29/09/2017, n. 22799).

Ne deriva il rigetto del ricorso principale.

4. I primi quattro motivi di ricorso incidentale sono inammissibili in quanto proposti da soggetto non soccombente sulla domanda di garanzia in appello, posto che tale domanda era stata sostenuta in via condizionata, e l’esito dell’appello principale aveva in ogni caso reso inutile il relativo scrutinio, sicchè non vi era stata alcuna pronuncia.

Il quinto motivo di ricorso incidentale è in parte inammissibile, in parte infondato.

La condivisibile giurisprudenza sottolinea che è la palese infondatezza della domanda di garanzia proposta dal convenuto nei confronti del terzo chiamato a comportare l’applicabilità del principio di soccombenza nel rapporto processuale instauratosi tra loro, quando l’attore sia, a sua volta, soccombente nei confronti del convenuto chiamante, atteso che quest’ultimo sarebbe stato soccombente nei confronti del terzo anche in caso di esito diverso della causa principale (Cass., 21/04/2017, n. 10070).

Ciò posto, alla fattispecie (citazione del 2006) si applica il regime anteriore alle modifiche apportate alla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 92 c.p.c., sicchè la statuizione in parola era accordabile per giusti motivi.

In questa cornice, la corte territoriale ha correttamente motivato la compensazione “tra tutte le parti” (ultima pagina del provvedimento) in relazione all’incertezza sulle cause della morte, che inevitabilmente coinvolge ogni aspetto relativo alla ricostruzione delle responsabilità.

Al contempo va detto che la vigenza del protocollo sulla profilassi antitrombotica al momento delle dimissioni a seguito di interventi quali quello in esame, è indicata solo come ammessa dalla ASL nella comparsa di costituzione e risposta in primo grado, senza trascrizione che consenta di verificare l’affermazione nel rispetto del requisito di autosufficienza e quindi specificità del motivo.

Nè si può avere valore dirimente l’assunto difetto di giurisdizione ordinaria sulla domanda di manleva. Infatti, le Sezioni Unite hanno precisato, in analoga fattispecie, che “la giurisdizione della Corte dei Conti non è sostitutiva dei normali rimedi derivanti dai singoli rapporti intercorrenti tra l’amministrazione e i soggetti danneggianti. Di conseguenza non” è possibile, sul punto, “affermare il difetto di giurisdizione ordinaria in favore di quella contabile”, dovendo invece accertarsi “la fondatezza o meno della autonoma domanda di manleva proposta dall’azienda ospedaliera nei confronti dei propri sanitari” (Cass., Sez. U., 18/12/2014, n. 26659, punto 1.1.3., specie pag. 5, primo capoverso, della motivazione).

5. Spese compensate per la peculiarità della controversia e in ragione della disciplina “ratione temporis” vigente.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale e il quinto motivo di ricorso incidentale. Dichiara inammissibili gli altri motivi di ricorso incidentale. Spese compensate.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, il 8 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2018

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