Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.27455 del 30/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – rel. Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

G.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA AUGUSTO RIBOTY 3, presso lo studio dell’avvocato PETTINI FRANCESCO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MANGANO WALTER giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

C.A.M., AZIENDA OSPEDALIERA PROVINCIA DI *****, in persona del Commissario straordinario e legale rappresentante pro tempore, Dott.ssa P.G., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA VITTORIO VENETO 7, presso lo studio dell’avvocato TARTAGLIA PAOLO, che li rappresenta e difende giuste procure in calce al controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1574/2015 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 13/04/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 25/06/2018 dal Consigliere Dott. PORRECA PAOLO.

FATTI DI CAUSA

G.M. conveniva in giudizio l’Azienda Ospedaliera di ***** e il dottore C.M. per ottenere il risarcimento dei danni non patrimoniali, anche da lesione del consenso informato, conseguenti a un intervento, indicato come scorrettamente posto in essere, seguito da altri senza esiti positivi, che l’esponente aveva affrontato per correggere una dismetria e una deformità congenite alla gamba sinistra, fino al rifiuto di sottoporsi ad altro intervento presso la stessa struttura e con lo stesso medico, e alla decisione di rivolgersi ad altro specialista per un’ulteriore operazione grazie alla quale le condizioni erano infine migliorate.

Il tribunale accoglieva parzialmente la domanda, liquidando un’invalidità temporanea parziale al 25 per cento per 8 mesi, conseguente alla temporanea paralisi causata dall’infissione della “fiche” di un fissatore effettuata con scarsa accortezza, nell’introduzione di fili metallici.

La corte di appello, pronunciando sul gravame della G., lo respingeva, rilevando che dalla consulenza giudiziale esperita in primo grado era emersa la corretta esecuzione dell’intervento, eccetto che per quanto già accertato e liquidato dal tribunale, e che, dalla complessiva valutazione del materiale istruttorio, doveva ritenersi adempiuto anche l’obbligo relativo al consenso informato, fermo che parte attrice nel giudizio di primo grado non aveva neppure allegato che, ove altrimenti informata come assunto, avrebbe rifiutato l’intervento.

Avverso questa decisione ricorre per cassazione G.M. formulando tre motivi.

Resistono con controricorso l’Azienda Ospedaliera di ***** e il dottore C.M..

Le parti hanno depositato memorie.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si prospetta, quanto alla parte di domanda non accolta, la violazione della disciplina sul riparto degli oneri probatori e sulla prova dell’assenza di colpa ovvero del diligente adempimento.

Si deduce che la corte di appello avrebbe errato poichè, accertata la complicanza del c.d. “piede equino”, non avrebbe rilevato che i convenuti non avevano fornito la dimostrazione che quella era non prevedibile nè evitabile, mentre il medico e la struttura sarebbero stati onerati della prova che l’esito infausto non era riconducibile alla propria condotta, fermo che l’incertezza sulla sussistenza della colpa e sulle cause dell’aggravamento avrebbe dovuto rimanere a carico dei convenuti. La prova dell’assenza di colpa, inoltre, avrebbe dovuto essere parametrata al livello della struttura, pacificamente considerata di eccellenza. Al contempo, la corte di appello sarebbe incorsa nel vizio di omesso esame di un fatto decisivo, posta l’incongruità della motivazione che da un lato aveva accertato il peggioramento delle condizioni della paziente, e dall’altro aveva escluso l’imputabilità soggettiva delle stesse senza specificare a quale evento imprevisto e imprevedibile fosse ricollegata la patologia esitata dall’intervento chirurgico. In particolare, la corte di appello aveva ritenuto la malformazione del piede in parola come frequente nelle operazioni di allungamento degli arti, senza che di tale assunto vi fosse traccia nella consulenza tecnica di ufficio.

Con il secondo motivo di ricorso si prospetta l’omessa pronuncia sui motivi di appello afferenti all’invalidità permanente e al danno morale.

Con il terzo motivo di ricorso si prospetta la violazione degli artt. 2,13,32 Cost., nonchè dell’art. 2697 cod. civ., poichè la corte di appello avrebbe errato nel ritenere adempiuto, in specie quanto alla deformità del piede, l’obbligo inerente al consenso informato, in base a presunzioni e quindi senza la necessaria prova diretta della sua esaustività e completezza, mentre: dalle prove orali era emerso che in caso di corretta informazione i genitori della vittima avrebbero rifiutato l’intervento proposto; dalla relazione psicologica contenuta nella cartella clinica era emerso che la paziente era scarsamente consapevole dei disagi e delle sofferente connesse all’intervento; dai moduli relativi al consenso informato era emerso che essi erano generici, in alcuni casi parziali o parzialmente sottoscritti, e per alcuni interventi neppure documentati; dalla relazione del consulente di ufficio era emerso che non risultavano documenti dai quali evincere il livello di informazione rilasciato.

2. Il primo motivo di ricorso è inammissibile.

2.1. Deve premettersi che nel ricorso per cassazione, il motivo di impugnazione che prospetti una pluralità di questioni precedute unitariamente dalla elencazione delle norme che si assumono violate, e dalla deduzione del vizio di motivazione, è inammissibile, richiedendo un inesigibile intervento integrativo della Corte che, per giungere alla compiuta formulazione del motivo, dovrebbe individuare per ciascuna delle doglianze lo specifico vizio di violazione di legge o del vizio di motivazione (Cass., 20/09/2013, n. 21611).

La suddetta inammissibilità può dirsi sussistente, logicamente, a patto che la descritta mescolanza di motivi sia inestricabile (cfr. anche Cass., 17/03/2017, n. 7009). Infatti deve al contempo farsi applicazione del principio per cui la circostanza che un singolo motivo sia articolato in più profili di doglianza, ciascuno dei quali avrebbe potuto essere prospettato come un autonomo motivo, non costituisce, di per sè, ragione d’inammissibilità dell’impugnazione, dovendosi ritenere sufficiente, ai fini dell’ammissibilità del ricorso, che la sua formulazione permetta di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate onde consentirne, se necessario, l’esame separato esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi distinti (Cass., Sez. U., 06/05/2015, n. 9100).

L’esame del motivo ora in scrutinio avverrà dunque nei suddetti limiti, al di fuori dei quali residua l’inammissibilità della censura a tale titolo.

2.2. La censura si occupa innanzi tutto del regime legale afferente al nesso causale. Se ne occupa, però, in modo inidoneo, atteso che non individua specificatamente la motivazione con cui la corte territoriale avrebbe violato quella regola, con conseguente inammissibilità di questa parte del motivo (cfr. Cass., Sez. U., 20/03/2017, n. 7074).

Il secondo profilo della censura attiene alla prova della colpa, ma anche in questa ipotesi parte ricorrente manca d’individuare sia lo specifico segmento motivazionale che avrebbe concretato la violazione sia quello che avrebbe integrato la falsa applicazione al riguardo. Tale motivo è quindi aspecifico anche in “parte qua”, e anzi carente della stessa attività assertiva corrispondente.

In ogni caso è opportuno evidenziare, in relazione all’assunto (pagg. 910, diffusamente ripreso) per cui la struttura e il medico sarebbero onerati della prova del difetto di nesso causale, che lo stesso sarebbe risultato infondato.

Infatti la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass., 26/07/2017, n. 18932, Cass., 07/12/2017, n. 29315, Cass., 15/02/2018, n. 3704) si è progressivamente attestata nel senso che in tema di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere del paziente dimostrare l’esistenza del nesso causale, provando che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, causa del danno.

Queste le ragioni ricostruite.

Nei giudizi di risarcimento del danno derivante da inadempimento contrattuale, così come in quelli di risarcimento del danno da fatto illecito, la condotta colposa del responsabile e il nesso di causa tra questa e il danno costituiscono l’oggetto di due accertamenti distinti, sicchè la sussistenza della prima non comporta, di per sè, la dimostrazione del secondo e viceversa.

L’art. 1218 cod. civ., solleva il creditore dell’obbligazione che si afferma non adempiuta (o non esattamente adempiuta) dall’onere di provare la colpa del debitore, ma non dall’onere di provare il nesso di causa tra la condotta del debitore e il danno di cui domanda il risarcimento. E infatti:

la previsione dell’art. 1218 cod. civ. trova giustificazione nell’opportunità di far gravare sulla parte che si assume inadempiente, o non esattamente adempiente, l’onere di fornire la prova “positiva” dell’avvenuto adempimento o dell’esattezza dell’adempimento, sulla base del criterio della maggiore vicinanza della prova, secondo cui essa va posta a carico della parte che più agevolmente può fornirla (Cass., Sez. U., 30/10/2001, n. 13533);

tale maggiore vicinanza del debitore non sussiste in relazione al nesso causale fra la condotta dell’obbligato e il danno lamentato dal creditore, rispetto al quale non ha dunque ragion d’essere l’inversione dell’onere prevista dall’art. 1218 cod. civ. e non può che valere, quindi, il principio generale espresso nell’art. 2697 cod. civ., che onera l’attore (sia il danneggiato in sede extracontrattuale che il creditore in sede contrattuale) della prova degli elementi costitutivi della propria pretesa;

ciò vale, ovviamente, sia in riferimento al nesso causale materiale (attinente alla derivazione dell’evento lesivo dalla condotta illecita o inadempiente) che in relazione al nesso causale giuridico (ossia all’individuazione delle singole conseguenze pregiudizievoli dell’evento lesivo);

trattandosi di elementi egualmente “distanti” da entrambe le parti (e anzi, quanto al secondo, maggiormente “vicini” al danneggiato), non c’è spazio per ipotizzare a carico dell’asserito danneggiante una “prova liberatoria” rispetto al nesso di causa, a differenza di quanto accade per la prova dell’avvenuto adempimento o della correttezza della condotta;

nè può valere, in senso contrario, il fatto che l’art. 1218 cod. civ. faccia riferimento alla causa, laddove richiede al debitore di provare “che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”: infatti, come condivisibilmente affermato, di recente, da questa Corte (Cass. Cass., 26/07/2017, n. 18392), la causa in questione attiene alla “non imputabilità dell’impossibilità di adempiere”, che si colloca nell’ambito delle cause estintive dell’obbligazione, costituenti “tema di prova della parte debitrice”, e concerne un “ciclo causale” che è del tutto distinto da quello relativo all’evento dannoso conseguente all’adempimento mancato o inesatto.

Da quanto esposto deriva che nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica è onere dell’attore, paziente danneggiato, dimostrare l’esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno di cui chiede il risarcimento, onere che va assolto dimostrando, con qualsiasi mezzo di prova, che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, la causa del danno, con la conseguenza che, se, al termine dell’istruttoria, non risulti provato il suddetto nesso tra condotta ed evento, la domanda dev’essere rigettata.

Questa giurisprudenza ha indicato espressamente che questa conclusione non si pone in contrasto con quanto affermato sin da Cass., Sez. U., 11/01/2008, n. 577, secondo cui “in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante”. Questo principio venne infatti affermato a fronte di una situazione in cui l’inadempimento “qualificato”, allegato dall’attore (ossia l’effettuazione di un’emotrasfusione) era tale da comportare di per sè, in assenza di fattori alternativi “più probabili”, nel caso singolo di specie, la presunzione della derivazione del contagio dalla condotta. La prova della prestazione sanitaria conteneva già, in questa chiave di analisi, quella del nesso causale, sicchè non poteva che spettare al convenuto l’onere di fornire una prova idonea a superare tale presunzione secondo il criterio generale di cui all’art. 2697 c.c., comma 2, e non la prova liberatoria richiesta dall’art. 1218 cod. civ..

2.3. Ciò posto, va anche messo in risalto che la corte territoriale ha accertato in fatto, evincendolo dal contenuto dell’accertamento peritale officioso (pag. 5, primo capoverso, della sentenza impugnata) che (pagg. 5-7):

a) la paziente era affetta da dismetria e deformità congenite alla gamba sinistra, presenti dunque dalla nascita, con successiva diagnosi aggiuntiva di acondroplasia, forma di displasia scheletrica;

b) l’intervento praticato, secondo il metodo Ilizarov, era adeguato;

c) i sanitari avevano “disposto anche di effettuare un allungamento del tendine di Achille, al fine di scongiurare la trazione della parte posteriore della gamba e trasformare il piede in equino” (pag. 6);

d) questo percorso clinico era stato corretto, e “il risultato dell’allungamento era stato raggiunto in maniera non completa, ma comunque soddisfacente, essendo risultata una ipometria alla tibia sinistra di 1 cm, valutabile clinicamente come non rilevante” (pag. 6);

e) le complicanze intervenute erano correlate all’intervento e risultavano affrontate, secondo le verifiche del consulente di ufficio, in modo adeguato e corretto;

f) in particolare, “la comparsa di retrazione delle strutture muscolo tendinee, che portano poi a una malformazione del piede, è frequente nelle operazioni di allungamento degli arti e la situazione fu affrontata dai sanitari con un intervento di allungamento dei tendini achillei bilateralmente” (pag. 7);

g) “anche gli ulteriori interventi che si sono susseguiti negli anni successivi… miravano ad ottenere una correzione del piede accettabile” (pag. 7).

In base a questi accertamenti la corte di merito ha esplicitamente escluso la sussistenza di una colpa medica.

Ne deriva che, comunque, non avrebbe potuto ipotizzarsi la violazione del riparto degli oneri probatori.

Difatti, la violazione dell’art. 2697 c.c. si configura solamente se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onere della prova a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni (Cass., Sez. U., 05/08/2016, n. 16598, pag. 35).

2.4. Non sussiste, pertanto, neppure alcuna violazione del regime legale della colpa medica, posto che, con accertamento in fatto non sindacabile in questa sede – fermo quanto si dirà in ordine al vizio motivazionale – è stata negata ogni ipotesi d’improprietà della pratica medica, sicchè l’ipotesi per cui questa avrebbe dovuto verificarsi in relazione ai parametri di eccellenza propri della struttura, resta tale e si traduce in una richiesta di rilettura istruttoria non ammessa nel giudizio di legittimità.

2.5. Quanto poi al vizio motivazionale, alla fattispecie è applicabile la nuova previsione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, introdotta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, che dev’essere interpretata come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, sicchè in cassazione è denunciabile – con ipotesi che si converte in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, dando luogo a nullità della sentenza – solo l’anomalia motivazionale che si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”; nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili”, ossia in manifeste e irresolubili contraddizioni, nonchè nella “motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile”; esclusa qualunque rilevanza di semplici insufficienze o contraddittorietà, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., Sez. U., 07/04/2014, n. 8053; Cass., 12/10/2017, n. 23940).

Ne consegue, quanto alla censura in scrutinio, che la (contestuale e distinguibile) deduzione di omesso esame non rientra nei suddetti perimetri, sottendendo anch’essa una richiesta di riesame del materiale istruttorio, fermo restando che non vi è alcuna illogicità nel rilevare una complicanza ed escludere sia imputabile a colpa medica, essendo al contrario razionalmente inconcludente l’assunto per cui la prima sia prova della seconda.

In ordine alla frequenza della complicanza data dalla malformazione del piede, non si trascrivono idoneamente gli specifici contenuti della consulenza sul punto, in modo da permettere di verificare che le ricostruzioni del perito sul punto fossero differenti, anche per omissione, da quelle che la corte territoriale indica evinte dalla sua relazione.

Ne discende la complessiva inammissibilità della censura in scrutinio.

2.6. Il secondo motivo è parzialmente fondato.

La corte territoriale ha esaminato ed escluso la sussistenza di una invalidità permanente (v. in specie a pag. 7), mentre nulla ha detto in ordine al danno morale che parte ricorrente dimostra, in ossequio al requisito di autosufficienza e quindi specificità del motivo, di aver richiesto nel merito e davanti alla corte di secondo grado (pagg. 13-15).

Al riguardo deve rilevarsi quanto segue.

Sul piano del diritto positivo, l’ordinamento riconosce e disciplina (soltanto) le fattispecie del danno patrimoniale (nelle due forme del danno emergente e del lucro cessante: art. 1223 cod. civ.) e del danno non patrimoniale (art. 2059 cod. civ.; art. 185 cod. pen.).

La natura unitaria e onnicomprensiva del danno non patrimoniale, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale e delle Sezioni Unite della Suprema Corte (Corte cost. n. 233 del 2003; Cass., Sez. U., 11/11/2008, n. 26972) dev’essere interpretata, sul piano delle categorie giuridiche (anche se non sotto quello fenomenologico) rispettivamente nel senso:

a) di unitarietà rispetto a qualsiasi lesione di un interesse o valore costituzionalmente protetto e non suscettibile di valutazione economica;

b) di onnicomprensività intesa come obbligo, per il giudice di merito, di tener conto, a fini risarcitori, di tutte le conseguenze (modificative “in peius” della precedente situazione del danneggiato) derivanti dall’evento di danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare duplicazioni attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, procedendo, a seguito di compiuta istruttoria, a un accertamento concreto e non astratto del danno, a tal fine dando ingresso a tutti i necessari mezzi di prova, ivi compresi il fatto notorio, le massime di esperienza, le presunzioni.

Nel procedere all’accertamento e alla quantificazione del danno risarcibile, il giudice di merito deve dunque tenere conto da una parte dell’insegnamento della Corte costituzionale (Corte cost. n. 235 del 2014, punto 10.1 e ss.) e, dall’altra, del recente intervento del legislatore sugli artt. 138 e 139 c.d.a. come modificati dalla L. 4 agosto 2017, n. 124, art. 1, comma 17, la cui nuova rubrica (“danno non patrimoniale”, sostituiva della precedente, “danno biologico”), e il cui contenuto consentono di distinguere definitivamente il danno dinamico-relazionale da quello morale. Ne deriva che il giudice deve congiuntamente, ma distintamente, valutare la compiuta fenomenologia della lesione non patrimoniale, e cioè tanto l’aspetto interiore del danno sofferto (cd. danno morale, sub specie del dolore, come in ipotesi della vergogna, della disistima di sè, della paura, ovvero della disperazione) quanto quello dinamico-relazione (destinato a incidere in senso peggiorativo su tutte le relazioni di vita esterne del soggetto).

In tale quadro ricostruttivo, costituisce quindi duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del danno biologico – inteso, secondo la stessa definizione legislativa, come danno che esplica incidenza sulla vita quotidiana del soggetto e sulle sue attività dinamico relazionali – e del danno cd. esistenziale, appartenendo tali “categorie” o “voci” di danno alla stessa area protetta dalla norma costituzionale (art. 32 Cost.), mentre una differente ed autonoma valutazione andrà compiuta con riferimento alla sofferenza interiore patita dal soggetto in conseguenza della lesione del suo diritto alla salute (come oggi normativamente confermato dalla nuova formulazione dell’art. 138 del c.d.a., lett. e).

La liquidazione finalisticamente unitaria di tale danno (non diversamente da quella prevista per il danno patrimoniale) avrà pertanto il significato di attribuire al soggetto una somma di danaro che tenga conto del pregiudizio complessivamente subito tanto sotto l’aspetto della sofferenza interiore, quanto sotto quello dell’alterazione/modificazione peggiorativa della vita di relazione in ogni sua forma e considerata in ogni suo aspetto, senza ulteriori frammentazioni nominalistiche (Cass., 20/04/2016, n. 7766, Cass., 17/01/2018, n. 901).

Ne consegue che il danno alla salute accertato, sia pure in termini d’invalidità temporanea e non permanente, e liquidato di conseguenza, non può neppure implicitamente ritenersi includere il pregiudizio consistente nella sofferenza morale (Cass., 27/03/2018, n. 7513, specie a pag. 23), che andrà quindi specificatamente valutato, e su cui la corte di merito dovrà pronunciarsi.

2.7. Il terzo motivo di ricorso è inammissibile.

La corte territoriale ha evidenziato, con accertamento in fatto non oggetto di una differente censura motivazionale, che in prime cure non emergeva alcuna prova che la ricorrente – evidentemente ove informata come assumeva di non essere stata – avrebbe rifiutato l’intervento. Sul punto, la giurisprudenza di questa corte ha chiarito che tale prova è decisiva, altrimenti risultando indimostrato il nesso causale tra l’inadempimento e il pregiudizio (cfr. Cass., 31/01/2018, n. 2369; Cass., 23/03/2018, n. 7248).

D’altro canto, la censura registra altri profili di inammissibilità, in uno a profili che, altrimenti, sarebbero stati d’infondatezza.

Il fatto che la prova dell’adempimento dell’obbligo afferente al consenso informato non possa idoneamente poggiare sulla sottoscrizione di moduli generici o sulle qualità soggettive dell’obbligato e del paziente (Cass., 04/02/2016, n. 2177), non significa che esista un divieto, non previsto dalla legge, di ritenerlo dimostrabile tramite presunzioni univoche.

Nell’ipotesi, la corte territoriale ha evinto l’adempimento in parola dalle complessive risultanze istruttorie, e cioè non solo dal livello di alta specializzazione dell’istituto di cura, bensì, in particolare, pure da:

a) la complessiva storia clinica della paziente che aveva avuto, con i genitori, per la sua patologia congenita, plurimi consulti con vari specialisti, a partire dall’età di tre anni;

b) la circostanza che la G. era stata sottoposta a visita psicologica proprio in funzione dell’intervento particolarmente invasivo oggetto della presente controversia.

Il collegio di merito, desumendo da ciò che non era credibile non fosse stato discusso il quadro delle possibili complicanze, non ha quindi violato il regime degli oneri probatori nè quello dell’istituto in discussione, mentre non viene formulata, sul punto, una censura motivazionale, sicchè non possono assumere rilievo le trascrizioni, inoltre inammissibilmente parziali, della deposizione del padre della paziente e della relazione sulla visita psicologica contenuta nella cartella clinica (pag. 25 e pag. 27 del ricorso), nè le valutazioni delle risultanze documentali proprie del consulente d’ufficio.

2.7.1. Nella memoria, menzionando la giurisprudenza di questa Corte (pag. 29), si prospetta, infine, il danno inerente non al fatto che la G. avrebbe rifiutato di sottoporsi all’intervento, bensì quello consistente nel turbamento e nella sofferenza per conseguenze inaspettate.

Si osserva che nelle memorie ex art. 372 cod. proc. civ., non possono introdursi temi nuovi non emergenti dai motivi di ricorso, fermo restando che nel ricorso non si dimostra che tale distinto pregiudizio sia stato, nel merito, oggetto di specifica domanda, emergendo, anzi, il contrario dalle trascrizioni effettuate nel ricorso.

Con conseguenti ulteriori, plurime ragioni d’inammissibilità dell’allegazione.

3. Spese al giudice del rinvio.

P.Q.M.

La Corte, accoglie parzialmente il secondo motivo, dichiara inammissibili i restanti, cassa la decisione impugnata in relazione al motivo accolto, e rinvia alla Corte di appello di Milano perchè, in diversa composizione, si pronunci anche sulle spese della fase di legittimità.

Così deciso in Roma, il 25 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2018

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