Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.27458 del 30/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – rel. Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

F.F., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA G. NICOTERA 29, presso lo studio dell’avvocato CATELLI MARCO, che la rappresenta e difende giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

GROUPAMA ASS.NI SPA, S.L., FE.PA.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 5220/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 21/09/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 25/06/2018 dal Consigliere Dott. PORRECA PAOLO.

FATTI DI CAUSA

F.F. conveniva in giudizio S.L., Fe.Pa. e la Nuova Tirrena Assicurazioni s.p.a., esponendo di essere stata coinvolta in un incidente stradale in occasione del quale la sua automobile era stata tamponata da quella di proprietà del primo convenuto, condotta dalla seconda e assicurata con la terza evocata in lite. Chiedeva il risarcimento dei danni non patrimoniali correlati, in particolare, a un colpo di frusta con cervicalgia che l’aveva infine costretta a un intervento neurochirurgico di ernia cervicale, seguito da una dimissione ospedaliera con indicazione di mielopatia cervicale.

Il tribunale, davanti al quale resisteva la sola società di assicurazione, accoglieva parzialmente la domanda con pronuncia riformata sul “quantum” dalla corte di appello.

Avverso quest’ultima decisione ricorre per cassazione F.F. formulando cinque motivi.

Non hanno svolto difese gli intimati.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si prospetta la violazione e falsa applicazione degli artt. 115,116 cod. proc. civ., nonchè omesso esame di fatti decisivi e discussi, poichè la corte di appello avrebbe errato contraddicendosi sulla rilevanza, prima negata e poi avallata, delle preesistenti ernie discali ritenute accertate arbitrariamente, obliterando la considerazione delle contestazioni formulate, sul punto, alla consulenza d’ufficio ad opera del consulente di parte, nonchè ignorando che il colpo di frusta può verosimilmente avere gravi conseguenze a seconda di circostanze quali il tipo di autovettura, il sedile di guida, l’elasticità e la postura al momento dell’impatto, la percezione dell’imminenza dell’urto. Al contempo, la corte di appello avrebbe violato comunque i minimi delle c.d. tabelle milanesi.

Con il secondo motivo di ricorso si prospetta la violazione e falsa applicazione degli artt. 115,116 cod. proc. civ., D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, art. 137, nonchè il mancato esame di fatti decisivi e discussi, poichè la corte di appello, nel rilevare la genericità della correlativa doglianza sollevata davanti alla stessa, avrebbe omesso l’esame delle risultanze processuali riguardo al danno da capacità lavorativa specifica, atteso che la deducente aveva dovuto abbandonare il lavoro, in coerenza con l’accertamento dell’invalidità civile effettuato dalla competente commissione di prima istanza, con conseguenti contrazioni reddituali attestate dai documenti prodotti, e dalle escussioni testimoniali, tanto più in assenza di specifiche contestazioni ad opera della controparte.

Con il terzo motivo di ricorso si prospetta la violazione e falsa applicazione del D.M. 8 aprile 2004, n. 127, del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, e dell’art. 91 cod. proc. civ., poichè la corte di appello avrebbe errato nel ritenere sul punto generica la censura sollevata in secondo grado con riferimento all’insufficiente liquidazione delle spese processuali, atteso che nel proprio atto di gravame la deducente aveva riportato le voci riconosciute dal tribunale giustapponendole alla notula già depositata e allegando la violazione dei minimi tariffari.

Con il quarto motivo di ricorso si prospetta la violazione del D.Lgs. n. 209 del 2005, art. 138 poichè la corte di appello, pur applicando correttamente le tabelle milanesi, avrebbe errato nell’inadeguata personalizzazione del pregiudizio e nella mancata liquidazione del danno morale.

Con il quinto motivo di ricorso si prospetta la violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, nonchè vizio di motivazione, poichè la corte di appello, riferendosi genericamente a tipologia del danno, età, sesso della danneggiata e ubicazione del danno estetico, avrebbe motivato solo apparentemente sulla misura della liquidazione adottata.

2. Preliminarmente va dato atto che l’istanza di audizione, pervenuta da parte ricorrente, in data 20 giugno 2018, è inammissibile poichè del tutto estranea al regime processuale del procedimento camerale qui applicato (art. 380 bis.1 cod. proc. civ.).

2.1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile.

Esso, infatti, si fonda su una serie di emergenze processuali e probatorie riguardo alle quali non è stata data ottemperanza all’art. 366 c.p.c., n. 6, nè sotto il profilo della riproduzione diretta nè sotto quello della riproduzione indiretta del loro contenuto (in questo secondo caso precisando la parte dell’atto alla quale l’indiretta riproduzione corrisponderebbe), nè in fine quanto alla localizzazione in questo giudizio di legittimità. In tale situazione, le allegazioni in esso contenute per ciò solo non sono scrutinabili.

2.1.1. In ogni caso, la censura presenta ulteriori profili d’inammissibilità.

Infatti, in tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli invocati artt. 115 e 116 cod. proc. civ., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicchè la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, bensì un errore di fatto, che dev’essere censurato – come qui non è stato fatto – attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (Cass., 12/10/2017, n. 23940).

E in ordine al vizio motivazionale, alla fattispecie è applicabile la nuova previsione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, introdotta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, da interpretarsi come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, sicchè in cassazione è denunciabile – con ipotesi che si converte in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, dando luogo a nullità della sentenza – solo l’anomalia motivazionale che si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”; nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili”, ossia in manifeste e irresolubili contraddizioni, nonchè nella “motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile”; esclusa qualunque rilevanza di semplici insufficienze o contraddittorietà, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., Sez. U., 07/04/2014, n. 8053; Cass., 12/10/2017, n. 23940).

Ciò posto, deve rilevarsi che la corte di appello, senza contraddizione logica, ha motivato il rigetto della censura proposta in secondo grado sia, in rito, per la genericità della stessa (pag. 2, penultimo capoverso, della sentenza impugnata), sia, nel merito, perchè la percentuale dell’invalidità permanente individuata risultava supportata dalla consulenza d’ufficio e dal rilievo per cui la maggiore entità richiesta era da escludere fosse verosimilmente riferibile al fatto illecito oggetto di giudizio. In tal senso, che fosse la condizione di preesistente lesione a giustificare la maggiore percentuale d’invalidità trovava conferma nella particolare modestia dei danni subiti dal veicolo a seguito del tamponamento, evidente indice della portata dell’impatto.

Dunque:

a) innanzi tutto non è stata specificatamente censurata la ritenuta violazione dell’art. 342 cod. proc. civ.;

b) inoltre, non sono state riportate le contestazioni del consulente di parte, se non per segmenti che le rendono inapprezzabili (pag. 9 del ricorso), in violazione del requisito di autosufficienza e quindi specificità del motivo;

c) le censure fanno poi riferimento a circostanze di fatto, che avrebbero potuto giustificare la verosimiglianza della maggiore invalidità permanente invocata (pag. 11 del ricorso), relativamente alle quali non è dato però sapere dove come e quando siano state discusse nel merito, con conseguente inammissibile novità delle questioni.

A fronte di quanto appena rilevato, residuerebbe poi solo un tentativo di rilettura istruttoria, inammissibile in questa sede al pari del superamento dei limiti, sopra ricostruiti, del vizio motivazionale.

Quanto, in particolare, alla censura, emergente dal corpo del motivo, attinente alla violazione dei minimi tabellari milanesi, è opportuno ribadire, in linea con quanto sub 2.1., che, secondo la specifica giurisprudenza di questa Corte, in caso di tale deduzione, non costituendo i criteri in parola fatto notorio, non soddisfa comunque l’onere di autosufficienza di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, il ricorso per cassazione che ometta d’indicare specificamente le tabelle in parola tra i documenti ex art. 369 c.p.c., comma 2, e in ogni caso di individuare, nel ricorso, l’atto con il quale siano state prodotte nel giudizio di merito e il luogo del processo in cui risultino reperibili (fermo che non è ammissibile la loro successiva produzione ex art. 372 c.p.c., comma 2, non trattandosi di documenti relativi all’ammissibilità dell’impugnazione) (Cass., 15/06/2016, n. 12288).

2.2. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile.

Difatti, non essendosi riportato nè direttamente nè indirettamente, con la precisazione della parte corrispondente del gravame di merito, il contenuto del motivo di appello, è violato l’art. 366 c.p.c., n. 6, sicchè ogni ulteriore deduzione, svolta nella presente sede di legittimità, è irrilevante se non si è dimostrato che l’appello era specifico.

A ciò si aggiungono altre ragioni d’inammissibilità.

Si menzionano documenti non trascritti, in violazione del requisito di autosufficienza del motivo qui in scrutinio, di cui non si indica, al contempo, il momento di produzione nelle fasi di merito (pag. 14, ultimo capoverso, e pag. 16, prima frase, del ricorso), e si fa riferimento a una parte dei mezzi istruttori orali, senza però impugnare il rilievo, operato dalla corte territoriale, di mancata allegazione prima che mancata prova (pag. 5, primo capoverso, della sentenza impugnata).

2.3. Il terzo motivo è manifestamente inammissibile.

Parte ricorrente, infatti, per un verso non ottempera agli oneri di riproduzione e indicazione documentale previsti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6; per altro verso, non censura specificatamente la violazione dell’art. 342 cod. proc. civ., ritenuta al riguardo dalla corte territoriale (pag. 5 della sentenza impugnata), nè riproduce e permette di apprezzare il motivo di appello, in ulteriore violazione del requisito di autosufficienza, peraltro non dimostrando neppure, al contempo, l’assunta violazione dei minimi tariffari.

La parte che intenda impugnare per cassazione la liquidazione delle spese processuali, per pretesa violazione dei minimi tariffari, ha infatti l’onere di specificare analiticamente le voci e gli importi considerati in ordine ai quali il giudice di merito sarebbe incorso in errore, pena l’inammissibilità della censura (Cass., 21/12/2017, n. 30716). Il tutto al di là dell’inesistenza dei minimi tariffari stessi nel regime dell’invocato D.M. n. 55 del 2014 (Cass., 15/12/2017, n. 30286).

2.4. Il quarto e quinto motivo di ricorso vanno esaminati congiuntamente per connessione. E’ parzialmente fondato il quarto ed è di conseguenza assorbito l’ultimo, per le ragioni che seguono.

La corte territoriale ha ritenuto che la liquidazione del danno non patrimoniale, effettuata secondo il criterio tabellare, fosse onnicomprensiva, includendo pertanto sia il danno relazionale che quello morale.

La conclusione viola la corretta applicazione dell’art. 2059 cod. civ., sostanzialmente dedotto.

Sul piano del diritto positivo, l’ordinamento riconosce e disciplina (soltanto) le fattispecie del danno patrimoniale (nelle due forme del danno emergente e del lucro cessante: art. 1223 cod. civ.) e del danno non patrimoniale (art. 2059 cod. civ.; art. 185 cod. pen.).

La natura unitaria e onnicomprensiva del danno non patrimoniale, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale e delle Sezioni Unite della Suprema Corte (Corte cost. n. 233 del 2003; Cass., Sez. U., 11/11/2008, n. 26972) dev’essere interpretata, sul piano delle categorie giuridiche (anche se non sotto quello fenomenologico) rispettivamente nel senso:

a) di unitarietà rispetto a qualsiasi lesione di un interesse o valore costituzionalmente protetto e non suscettibile di valutazione economica;

b) di onnicomprensività intesa come obbligo, per il giudice di merito, di tener conto, a fini risarcitori, di tutte le conseguenze (modificative “in peius” della precedente situazione del danneggiato) derivanti dall’evento di danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare duplicazioni attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, procedendo, a seguito di compiuta istruttoria, a un accertamento concreto e non astratto del danno, a tal fine dando ingresso a tutti i necessari mezzi di prova, ivi compresi il fatto notorio, le massime di esperienza, le presunzioni.

Nel procedere all’accertamento e alla quantificazione del danno risarcibile, il giudice di merito deve dunque tenere conto da una parte dell’insegnamento della Corte costituzionale (Corte cost. n. 235 del 2014, punto 10.1 e ss.) e, dall’altra, del recente intervento del legislatore sugli artt. 138 e 139 c.d.a. come modificati dalla L. 4 agosto 2017, n. 124, art. 1, comma 17, la cui nuova rubrica (“danno non patrimoniale”, sostituiva della precedente, “danno biologico”), e il cui contenuto consentono di distinguere definitivamente il danno dinamico-relazionale da quello morale. Ne deriva che il giudice deve congiuntamente, ma distintamente, valutare la compiuta fenomenologia della lesione non patrimoniale, e cioè tanto l’aspetto interiore del danno sofferto (cd. danno morale, sub specie del dolore, come in ipotesi della vergogna, della disistima di sè, della paura, ovvero della disperazione) quanto quello dinamico-relazione (destinato a incidere in senso peggiorativo su tutte le relazioni di vita esterne del soggetto).

Nella valutazione del danno in parola, in particolare ma non diversamente che in quella di tutti gli altri danni alla persona conseguenti alla lesione di un valore/interesse costituzionalmente protetto, il giudice dovrà, pertanto, valutare tanto le conseguenze subite dal danneggiato nella sua sfera morale (che si collocano nella dimensione del rapporto del soggetto con sè stesso), quanto quelle incidenti sul piano dinamico-relazionale della sua vita (che si dipanano nell’ambito della relazione del soggetto con la realtà esterna, con tutto ciò che, in altri termini, costituisce “altro da sè”).

La misura standard del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato dagli organi giudiziari di merito (oggi secondo il sistema c.d. del punto variabile) può essere aumentata, nella sua componente dinamico-relazionale, solo in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale, eccezionali e affatto peculiari: le conseguenze dannose da ritenersi normali e indefettibili secondo l'”id quod plerumque accidit” (ovvero quelle che qualunque persona con la medesima invalidità ovvero lesione non potrebbe non subire) non giustificano alcuna personalizzazione in aumento del risarcimento.

In questo senso, va ribadito che ai fini della c.d. “personalizzazione” del danno forfettariamente individuato (in termini monetari) attraverso i meccanismi tabellari cui la sentenza abbia fatto riferimento (e che devono ritenersi destinati alla riparazione delle conseguenze “ordinarie” inerenti ai pregiudizi che qualunque vittima di lesioni analoghe normalmente subirebbe), spetta al giudice far emergere e valorizzare, dandone espressamente conto in motivazione in coerenza alle risultanze argomentative e probatorie obiettivamente emerse ad esito del dibattito processuale, specifiche circostanze di fatto, peculiari al caso sottoposto ad esame, che valgano a superare le conseguenze “ordinarie” già previste e compensate dalla liquidazione forfettizzata assicurata dalle previsioni tabellari; da queste ultime distinguendosi siccome legate all’irripetibile singolarità dell’esperienza di vita individuale nella specie considerata, meritevoli in quanto tali di tradursi in una differente (più ricca e, dunque, individualizzata) considerazione in termini monetari, rispetto a quanto suole compiersi in assenza di dette peculiarità (Cass., 21/09/2017, n. 21939).

In tale quadro ricostruttivo, costituisce quindi duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del danno biologico – inteso, secondo la stessa definizione legislativa, come danno che esplica incidenza sulla vita quotidiana del soggetto e sulle sue attività dinamico relazionali – e del danno cd. esistenziale, appartenendo tali “categorie” o “voci” di danno alla stessa area protetta dalla norma costituzionale (art. 32 Cost.), mentre una differente ed autonoma valutazione andrà compiuta con riferimento alla sofferenza interiore patita dal soggetto in conseguenza della lesione del suo diritto alla salute (come oggi normativamente confermato dalla nuova formulazione dell’art. 138 c.d.a., alla lett. e) o comunque relazionale.

La liquidazione finalisticamente unitaria di tale danno (non diversamente da quella prevista per il danno patrimoniale) avrà pertanto il significato di attribuire al soggetto una somma di danaro che tenga conto del pregiudizio complessivamente subito tanto sotto l’aspetto della sofferenza interiore, quanto sotto quello dell’alterazione/modificazione peggiorativa della vita di relazione in ogni sua forma e considerata in ogni suo aspetto, senza ulteriori frammentazioni nominalistiche (Cass., 20/04/2016, n. 7766, Cass., 17/01/2018, n. 901, Cass., 27/03/2018, n. 7513).

Sul punto la sentenza dev’essere pertanto cassata non con riguardo a una non meglio precisata mancanza di personalizzazione, come tale estranea alla ricostruzione appena fatta oltre che al perimetro prima ricostruito del vizio motivazionale, quanto piuttosto con riferimento all’esplicita omissione di una distinta valorizzazione del danno morale. Il giudice del rinvio procederà, dunque, in base alle risultanze di causa, a valutare tutti gli elementi che possano rivelarsi rilevanti ai fini dell’individuazione di un danno di tale genere provvedendo, di conseguenza, alla relativa liquidazione.

Sotto ogni altro profilo il quarto motivo s’intende rigettato, con assorbimento di quello seguente.

3. Spese al giudice del rinvio.

P.Q.M.

La Corte accoglie per quanto di ragione il quarto motivo, dichiara assorbito il quinto e inammissibili i restanti, cassa la decisione impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di appello di Roma perchè, in diversa composizione, si pronunci anche sulle spese di legittimità.

Così deciso in Roma, il 8 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2018

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