Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.27652 del 30/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 16875-2013 proposto da:

P.D., *****, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LUIGI LUCIANI 1, presso lo studio dell’avvocato DANIELE MANCA BITTI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati ANDREA MINA e PIERGIORGIO MERLO, giusta procura in atti;

– ricorrente –

contro

Banca IPIBI Financial Advisory s.p.a., già Intra Private Bank s.p.a.

*****, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA NAZIONALE 204, presso lo studio dell’avvocato LUCA ZITIELLO, che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 153/2013 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 03/04/2013 r.g. n. 415/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/02/2018 dal Consigliere Dott. FEDERICO DE GREGORIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SERVELLO GIANFRANCO, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, inammissibilità ed in subordine rigetto del ricorso incidentale;

udito l’Avvocato DANIELE MANCA BITTI;

udito l’Avvocato LUDOVICA D’OSTUNI per delega verbale Avvocato LUCA ZITIELLO.

FATTI di CAUSA

Con ricorso del 21 gennaio 2009 P.D. conveniva in giudizio, davanti al giudice del lavoro di Brescia, la INTRA PRIVATE BANK S.p.a., poi divenuta Banca IPIBI Financial Advisory (d’ora in avanti BANCA), chiedendone la condanna al pagamento del premio di fedeltà, illegittimamente soppresso, nonchè della somma trattenuta a titolo di indennità di mancato preavviso e, comunque, per sentir accertare e dichiarare che le modifiche apportate dalla Banca alle obbligazioni assunte con il contratto di agenzia concernente l’incarico di promotore finanziario – in relazione all’attività di promotore finanziario da ella svolte – erano illegittime, di modo che sussisteva la giusta causa di recesso senza preavviso dal contratto, per fatto e colpa della preponente, ed in ogni caso in applicazione di quanto previsto dagli artt. 13 e 15 dello stesso contratto.

La convenuta resisteva alle pretese avversarie, sostenendo la legittimità del proprio operato in base all’art. 26 del contratto 23-07-2001, una volta chiarito definitivamente l’obbligo di iscrivere i promotori all’Enasarco, sicchè essa Banca vi aveva provveduto, nei limiti dei 5 anni della prescrizione, utilizzando, previa comunicazione alla ricorrente e a tutti gli altri promotori, i fondi accantonati, con la medesima finalità, come premio di fedeltà, provvedendo poi a restituire, quindi anche alla P., il danaro eccedente, detratto tuttavia quanto dovuto per indennità di preavviso, non ricorrendo secondo la resistente gli estremi della giusta causa per il recesso intimato ex adverso.

Il giudice adito, ritenuto che il pagamento dei contributi all’Enasarco dovuti dall’agente con l’utilizzo della quota accantonata mediante prelievo dai compensi dovuti all’agente fosse corretta, donde l’insussistenza della giusta causa, rigettava tutte le domande.

In seguito, la Corte d’Appello di Brescia con sentenza n. 153 in data 28 marzo – 3 maggio 2013, poi notificata il successivo 9 maggio, rigettava il gravame interposto dalla P. il primo agosto 2012, compensando le relative spese, ritenendo corretto l’operato della Banca in base a quanto previsto dall’art. 26 del contratto di agenzia, per cui la società, in ragione della richiesta avanzata dalla Fondazione Enasarco di versare i contributi previdenziali anche per la quota spettante ai promotori finanziari, aveva proposto a tutta la rete di vendita di autorizzare una trattenuta sul premio di fedeltà maturato al settembre 2007 nella misura del 50% dei contributi, sicchè a causa degli oneri dovuti all’iscrizione all’Enasarco e per il versamento dei relativi contributi aveva deciso di modificare il contratto e di sospendere l’istituto del premio di fedeltà ed aveva, comunque, proposto ai promotori di accantonare quanto maturato su altre polizze assicurative.

Successivamente, la P. ed altri promotori avevano interrotto il rapporto di agenzia per giusta causa nell’ottobre del 2007. L’operazione di compensazione di partite di credito e debito contestata dall’attrice (tra premi di fedeltà maturati e contributi previdenziali versati) era stata eseguita nel febbraio dell’anno 2008, ossia quattro mesi dopo il recesso per giusta causa.

Secondo la Corte territoriale, la Banca aveva ben operato in base all’art. 26 del contratto, intitolato inserimento automatico di clausole, laddove quanto ivi convenuto era stato pattuito in previsione del sopraggiungere di norme di legge e di disposizioni amministrative, idoneo a mutare sinallagma contrattuale (le modifiche ed integrazioni del presente contratto conseguenti a norme di legge, di regolamento e a disposizioni amministrative, oppure dettate da accordi economici collettivi obbligatori per la categoria dei promotori finanziari, si intendono inserite di diritto nel presente contratto anche in sostituzione delle clausole difformi). Che le parti intendessero espressamente comprendere il premio di fedeltà, in quanto sostitutivo dell’accantonamento presso l’Enasarco, tra le anzidette clausole risultava chiarito dal citato art. 26, comma 2 in base al quale restava comunque fin da allora inteso che l’indennità di fine rapporto, prevista dall’art. 17, ed i premi di fedeltà di cui all’art. 18 non erano cumulabili con altri trattamenti di tipo analogo eventualmente introdotti con le modalità di cui al comma 10 (dello stesso art. 26). Non era inoltre controverso che il premio di fedeltà, costituito per metà delle somme accantonate ex articolo 10 comma 2 del contratto dalla Banca sul totale delle provvigioni maturate fino ad un limite massimo annuo di 3.000.000 di Lire e per l’altra metà da quelle, di pari importo, accantonate dalla Banca ai sensi dell’art. 18, era regolato nello stesso modo dell’accantonamento presso l’Enasarco, sicchè la riserva di cui all’art. 26, comma 2 in ordine alla non cumulabilità con trattamento analogo, comportava certamente in modo automatico la soppressione per il futuro di quel tipo di accantonamento. Deponeva in tal sensi, oltre il dato letterale dell’art. 26 e la corrispondenza quasi al centesimo di quanto dovuto all’Enasarco con quanto accantonato, il fatto che l’articolo 13, invocato dalla ricorrente, regolava il diverso caso in cui la Banca avesse deciso di introdurre, successivamente alla stipulazione, modifiche al contenuto del contratto, obiettivamente giustificate ed opportune alla luce delle esigenze e degli interessi aziendali e compatibili con la giusta considerazione degli interessi del promotore: solo per questi casi di modifiche unilaterali era infatti previsto il necessario consenso del promotore, che aveva, in caso di mancata accettazione, 15 giorni di tempo durante i quali poteva liberamente recedere senza obbligo di preavviso e senza neppure dovere la relativa indennità.

Secondo la Corte territoriale, nel caso in esame, non era stata la Banca a voler provvedere all’iscrizione all’Enasarco, ciò che era dipeso dall’intervento dell’autorità ispettiva, donde la conseguente applicabilità dell’art. 26, sicchè per l’avvenire il premio di fedeltà non aveva più ragione di esistere, operando la clausola di automatica sostituzione. La stessa disposizione, infatti, si spiegava solo con l’incertezza sull’obbligo di iscrizione all’Enasarco, che aveva portato le parti ad istituire un fondo del tutto analogo, denominato premio di fedeltà, la cui funzione era proprio quella di non lasciare scoperto il promotore rispetto a questa forma di previdenza tramite accantonamento, che caratterizzava la figura dell’agente. Inoltre, alla luce di una lettura secondo buona fede dell’intero contratto se le somme venivano accantonate con la stessa funzione, la circostanza che l’obbligo fosse stato reso cogente dall’accesso ispettivo ed aveva comportato la sostituzione ex art. 26 del iscrizione all’Enasarco rispetto al premio di fedeltà, le somme accantonate ben potevano essere utilizzate per far fronte ad un onere ricadente a carico dello stesso agente, sicchè forse non era neppure necessario il suo consenso per il loro utilizzo.

Dunque, nel caso di specie non risultava applicabile l’art. 13, per contro invocato da parte attrice. Ed era quindi evidente che non costituivano giusta causa del recesso i lamentati mancati pagamenti della quota del premio di fedeltà, anche laddove dovuti, trattandosi di obbligazioni accessorie rispetto a quella principale di pagamento delle provvigioni, però regolarmente assolto e pari solo al 5% di esse, peraltro con il limite massimo di 3.000.000 di Lire per anno.

Peraltro, nel rapporto di agenzia la gravità dell’inadempimento dell’obbligazione corrispettiva da parte del preponente andava commisurata in proporzione alle complessive dimensioni economiche del rapporto e all’incidenza del medesimo inadempimento sull’equilibrio contrattuale costituito dalle parti, di modo che per giustificare un recesso senza preavviso occorreva un inadempimento colpevole e di non scarsa importanza, lesivo in misura considerevole l’interesse dello stesso agente. Nella specie la Corte osservava che la P. ai sensi dell’art. 18 possedeva un accantonamento personale totale di Euro 17.720,85 a titolo di premio di fedeltà, e che si era vista privare per far fronte al pagamento delle Enasarco dall’aprile 2002 al 31 dicembre 2006, peraltro a suo integrare carico, della somma di 7343,72 Euro, laddove poi all’esito dei conteggi era comunque residuata a suo favore una somma di Euro 23.496,47 che le era stata corrisposta 18 febbraio 2008. Tale compensazione si era, quindi, completata in epoca successiva al recesso di ottobre 2007.

Avverso la pronuncia di appello ha proposto ricorso per cassazione P.D. con atto della 5 luglio 2013, affidato a otto motivi, cui ha resistito la BANCA IPIBI Financial Advisory S.p.a. mediante controricorso in data 8 – 9 agosto 2013 con ricorso incidentale, limitatamente alla compensazione delle spese, dichiarata con la sentenza di appello.

Le parti, inoltre, hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c. (la controricorrente come “BANCA CONSULIA S.p.a.”, già denominata Banca IPIBI Financial Advisory S.p.a., già Intra Private Bank S.p.a., peraltro sempre con il medesimo avv. Luca Zitiello del foro di Milano, cui risulta conferita la procura speciale in calce al controricorso notificato come da relata in data 8 9 agosto 2013).

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il 1 motivo la ricorrente ha denunciato violazione o falsa applicazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale ed in particolare degli artt. 1362,1363,1365,1366,1367,1371,1742 e 1751 c.c., nonchè violazione e o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., nonchè artt. 112,113,115,416 e 436 c.p.c. – tanto in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per aver la Corte di Appello ritenuto che il premio di fedeltà e l’accantonamento presso l’Enasarco fossero trattamenti di tipo analogo, nonchè per aver ritenuto che l’iscrizione del promotore all’Enasarco avesse legittimato la Banca ad eliminare il premio di fedeltà di cui all’articolo 18 del contratto, in applicazione dell’art. 26, anzichè secondo la procedura di cui all’art. 13, risultando violati dalla sentenza anche gli artt. 10, 15, 16 e 19 del contratto 23 luglio 2001.

Con il 2 motivo è stata dedotta la nullità della sentenza e del procedimento, rilevante ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per aver la Corte territoriale, con vizio procedurale/motivazionale (diverso dall’omesso esame di fatto decisivo), ritenuto che l’iscrizione dei promotori alla Fondazione Enasarco avesse legittimato la Banca ad eliminare il premio di fedeltà di cui all’art. 18 del contratto, in applicazione dell’art. 26, anzichè in base alla procedura di cui all’art. 13 dello stesso – vizio rilevante anche con riferimento agli artt. 112 e 132 c.p.c..

Con il 3^ motivo è stata lamentata la nullità della sentenza o del procedimento ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per avere la Corte di appello con vizio procedurale/motivazionale – diverso dall’omesso esame di fatto decisivo – ritenuto che premio di fedeltà e accantonamento presso l’Enasarco fossero trattamenti di tipo analogo – vizio rilevante anche con riferimento all’art. 132 c.p.c..

Con il 4 motivo la ricorrente si è doluta della violazione o falsa applicazione degli artt. 1362,1363 e 1367 c.c., nonchè dell’art. 2697 c.c., artt. 112,113,115,416 e 437 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver la Corte distrettuale ritenuto che le somme accantonate con il prelievo del 5% delle provvigioni fossero utilizzabili, nei limiti della prescrizione, per far fronte all’obbligo di iscrizione all’Enasarco per i promotori finanziari.

Con il 5^ motivo la sentenza de qua è stata censurata per asserita violazione o falsa applicazione degli artt. 1218,1453,1455,2118 e 2119 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la Corte territoriale ritenuto non sussistenti i presupposti per l’applicazione del recesso di cui è causa ex citato art. 2119, alla luce della menzionata interpretazione nomofilattica, richiamando tra l’altro anche l’art. 15, comma 2 del contratto di agenzia (il mancato rispetto da parte dei contraenti anche di un solo obbligo posto a loro carico dal presente contratto rappresenterà per la controparte motivo giustificato e sufficiente per recedere dal contratto senza l’obbligo di rispettare il termine di preavviso previsto dall’art. 16).

Con 6 motivo è stata ulteriormente denunciata la nullità della sentenza o del procedimento, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per aver la Corte d’Appello, con vizio procedurale/motivazionale (diverso dall’omesso esame di fatto decisivo) ritenuto non sussistenti i presupposti per l’applicazione del recesso ex art. 2119 c.c. – vizio altresì rilevante con riferimento agli artt. 112 e 132 c.p.c..

Con la 7 censura, formulata ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, è stato dedotto l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, che aveva formato oggetto di discussione tra le parti – violazione rilevante pure ex art. 112 c.p.c., avendo la Corte di merito omesso di pronunciarsi in relazione al primo motivo di appello, laddove era stato richiamato l’art. 15, comma 2 del contratto di agenzia in data 23-07-2001. Di conseguenza, la Corte territoriale avrebbe dovuto esaminare la legittimità del recesso de quo, non solo alla luce del succitato art. 13, ovvero in base ai principi generali ex art. 2119 c.c., ma anche, ovvero in alternativa, ai sensi dell’art. 15, comma 2 del medesimo contratto.

Infine, con l’ottavo e ultimo motivo la ricorrente ha dedotto l’omesso esame circa un fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, violazione rilevante anche ai sensi dell’art. 112 c.p.c., avendo la Corte bresciana omesso di esaminare quanto pure dedotto in sede d’appello riguardo alla debenza della somma di Euro 4.841,29 da parte della Banca.

Tanto premesso, le anzidette censure vanno disattese in forza delle seguenti considerazioni, dovendosi peraltro ancor prima disattendere anche l’eccezione d’inammissibilità sollevata da parte ricorrente con la sua memoria ex art. 378 c.p.c. in relazione al controricorso della società, per asserito difetto di autosufficienza, però insussistente come si evince dalla sua lettura unitamente alla giurisprudenza formatasi sul punto (cfr. in part. Cass. 5^ civ. n. 13140 del 28/05/2010, secondo cui nel giudizio per cassazione, l’autosufficienza del controricorso è assicurata, ai sensi dell’art. 370 c.p.c., comma 2, che dichiara applicabile l’art. 366 c.p.c., comma 1, in quanto possibile, anche quando l’atto non contenga l’autonoma esposizione sommaria dei fatti della causa, ma si limiti a fare riferimento ai fatti esposti nella sentenza impugnata. In senso analogo v. anche Cass. 3 civ. n. 2262 del 02/02/2006, secondo cui, in particolare, l’autosufficienza è assicurata, ai sensi dell’art. 370 c.p.c., comma 2, e dell’art. 360, comma 1 stesso codice, anche quando il controricorso si limiti a fare riferimento ai fatti esposti nella sentenza impugnata ovvero alla narrazione di essi contenuta nel ricorso, e ciò anche se il richiamo sia soltanto implicito). Invero, come meglio ancora chiarito e precisato da questa Corte (3 sez. civ.) con la sentenza n. 18483 del 21/09/2015, nel giudizio di cassazione l’autosufficienza del controricorso, assolvendo alla sola funzione di contrastare l’impugnazione altrui, è assicurata, ai sensi dell’art. 370 c.p.c., comma 2, che richiama l’art. 366 c.p.c., comma 1, anche quando l’atto non contenga l’autonoma esposizione sommaria dei fatti della causa, ma si limiti a fare riferimento ai fatti esposti nella sentenza impugnata ovvero alla narrazione di essi contenuta nel ricorso. Tuttavia, l’atto, quando racchiuda anche un ricorso incidentale, deve contenere, in ragione della sua autonomia rispetto al ricorso principale, l’esposizione sommaria dei fatti della causa ai sensi del combinato disposto dell’art. 371 c.p.c., comma 3 e art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, sicchè è inammissibile ove si limiti ad un mero rinvio all’esposizione contenuta nel ricorso principale e non sia possibile, nel contesto dell’impugnazione, rinvenire gli elementi indispensabili per una precisa cognizione dell’origine e dell’oggetto della controversia, dello svolgimento del processo e delle posizioni assunte dalla parti, senza necessità di ricorso ad altre fonti (in senso analogo Cass. 3 civ. n. 76 – 08/01/2010, circa l’inammissibilità del ricorso incidentale che si limiti ad un mero rinvio all’esposizione del fatto contenuta nel ricorso principale. Conformi Cass. nn. 14474 del 2004 e 15672 nonchè 19756 del 2005). Ed a tale ultimo riguardo, nel caso di specie qui in esame è possibile, unicamente, rilevare subito l’inammissibilità del ricorso incidentale, contenuto nel controricorso, ai sensi dell’art. 371 c.p.c. (che al comma 3 rinvia alle disposizioni dei precedenti artt. 365, 366 e 369), attesa l’estrema genericità della doglianza ivi formulata, soprattutto senza specificarne il motivo, evidentemente però consentito nei soli casi rigorosamente contemplati dall’art. 360, comma 1 cit.- codice (ricorso in via incidentale subordinata per conseguire la riforma della sentenza di secondo grado soltanto sulla pronuncia delle spese legali, che sono state ingiustamente compensate tra le parti, atteso che la sentenza impugnata ha respinto integralmente tutte le richieste avversarie, nella denegata ipotesi di rigetto dell’eccezione d’inammissibilità del ricorso).

Tanto premesso, le varie doglianze esposte con il ricorso principale, segnatamente quelle di cui ai primi quattro motivi, appaiono inconferenti, siccome dirette invero a rivedere nel merito l’opzione ermeneutica seguita dai giudici di merito, previa ricostruzione dei fatti di causa, ancorchè sotto il profilo di asserite violazioni di legge, di pretese nullità ovvero di vizi di motivazione.

Questa Corte, in fattispecie del tutto analoga a quella oggetto di questo procedimento, con la sentenza n. 24880 del 03/11/2016 – 20/10/2017 ha già avuto modo di rilevare l’infondatezza della censura di carente motivazione della decisione, con la quale la medesima Corte d’Appello di Brescia, giusta la propria sentenza n. 632/2010, aveva ritenuto che l’iscrizione dei promotori finanziari alla Fondazione Enasarco avesse legittimato la Banca ad eliminare il premio fedeltà di cui all’art. 18 del contratto, in applicazione dell’art. 26, anzichè secondo la procedura di cui all’art. 13 del medesimo contratto. Era stato, infatti, condivisibilmente affermato che l’esauriente motivazione della Corte di merito al riguardo poneva in evidenza il corretto operato della Banca, la quale, in sintonia con quanto prescritto dall’autorità ispettiva, aveva provveduto all’iscrizione all’Enasarco; con la conseguenza di dovere ritenere applicabile l’art. 26 del contratto in essere tra le parti (“inserimento automatico di clausole”), pattuito espressamente per disciplinare l’ipotesi, poi verificatasi, in cui “sopraggiungessero norme di legge o disposizioni amministrative idonee a mutare il sinallagma contrattuale”. In base al disposto del primo comma del predetto articolo, invero, “Le modifiche e le integrazioni del presente contratto conseguenti a norme di legge, di regolamento, a disposizioni amministrative, oppure dettate da Accordi Economici Collettivi obbligatori per la categoria dei promotori finanziari, si intendono inserite di diritto nel presente contratto anche in sostituzione delle clausole difformi”. Pertanto, correttamente, i giudici di merito avevano sottolineato che il fatto che le parti intendessero espressamente comprendere il premio fedeltà, poichè sostitutivo dell’accantonamento presso l’Enasarco, tra tali clausole, risultava testualmente chiarito dal secondo comma della medesima previsione contrattuale: “Resta comunque fin d’ora inteso che l’indennità di fine rapporto, prevista dall’art. 17, ed il premio fedeltà, previsto dall’art. 18, non sono cumulabili con altri strumenti di tipo analogo eventualmente introdotti con le modalità di cui al comma 1”. Inoltre, ancora condivisibilmente, con la succitata pronuncia di Cass. n. 24880/17 è stata pure disattesa la censura, formulata ex art. 360 c.p.c., n. 5, in ordine a preteso vizio di motivazione, perchè la Corte di merito aveva ritenuto che il premio di fedeltà e l’accantonamento integrassero trattamenti di tipo analogo. Infatti, nemmeno tale mezzo di impugnazione era in grado di scalfire il corretto iter motivazionale seguito dai giudici d’appello, i quali con argomentazioni logico-giuridiche pienamente condivise avevano esplicitato le ragioni, che avevano indotto a reputare analoghi i due trattamenti. Peraltro, la censura si risolveva in una inammissibile richiesta di revisione del “ragionamento decisorio”, non sussumibile nel controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 c.p.c., n. 5 vigente ratione temporis (richiamando, tra le altre, Cass. nn. 11789/2005, 4766/2006 e 91/2014).

Con la sentenza n. 24880/17 veniva, altresì, giudicato inammissibile il quinto motivo di ricorso (ex art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e/o falsa applicazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale ed in particolare degli artt. 1362,1363,1366e 2697 c.c. nonchè artt. 113,115,416 e 436 c.p.c., per avere la Corte d’Appello ritenuto che le somme accantonate con il prelievo del 5% dalle provvigioni fossero utilizzabili, nei limiti della prescrizione, per fare fronte all’obbligo di iscrizione all’Enasarco per i promotori finanziari). Analogamente, neanche veniva accolto il motivo, ex art. 360 c.p.c., n. 3, per asserita violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. nonchè, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, circa l’ipotizzato vizio di motivazione, avendo la Corte bresciana non ritenuto sussistenti i presupposti dell’art. 2119 c.c. per l’applicazione al recesso dei proponenti, alla luce dell’interpretazione nomofilattica. La doglianza veniva disattesa, infatti, perchè l’impugnata decisione (di portata e tenore pressochè identici a quella n. 153/2013, qui impugnata dalla P.) aveva esaurientemente argomentato in ordine all’iter logico-giuridico seguito, indicando le previsioni contrattuali esaminate ed interpretate secondo la comune volontà delle parti, rigettando inoltre motivatamente la tesi dell’applicazione dell’art. 13 del contratto di agenzia, cui soltanto avevano fatto riferimento i ricorrenti nelle comunicazioni alla Banca al fine di giustificare il recesso con effetto immediato, ed aveva pure escluso in concreto il rilevante inadempimento della Banca nonchè la pretesa giusta causa dei recessi. Peraltro, sulla insussistenza della giusta causa la sentenza ivi impugnata aveva, altresì, precisato che i recedenti “pochi giorni dopo il recesso, iniziarono la propria collaborazione presso una concorrente di IPIBI, per cui, davvero, il recesso ad nutum sembra(va) necessitato più dalla impossibilità di prestare il preavviso, atteso l’impegno preso con la concorrenza, che dalla pretesa di ottenere il pagamento del premio di fedeltà”. E tale affermazione neppure è stata specificamente censurata dai ricorrenti.

Per tutto quanto esposto, dunque, il ricorso degli istanti promotori finanziari veniva respinto con la succitata pronuncia n. 24880/17.

Parimenti, va ricordata anche la sentenza n. 16388 del 27/03 – 17/06/2008, con la quale questa Corte rigettava il ricorso di altro promotore finanziario avverso l’impugnata pronuncia, resa anch’essa dalla Corte di Appello di Brescia, n. 2/04-03-2004, riguardo a dedotti gravi inadempimenti, per cui l’attore aveva comunicato recesso in tronco per giusta causa, rivendicando, quindi, oltre al bonus di reclutamento ed al premio fedeltà, pure previsto dal contratto, l’indennità sostitutiva del preavviso e l’indennità di scioglimento del contratto ex art. 1751 c.c., o quanto meno quella prevista dall’AEC, nonchè le provvigioni, trattenute dalla società convenuta dopo lo scioglimento del rapporto a titolo di penale. L’adito giudice del lavoro aveva respinto le domande del ricorrente e lo aveva condannato, in parziale accoglimento della domanda riconvenzionale, a corrispondere alla Banca la somma indicata, decisione quindi confermata mediante il rigetto del gravame interposto dal soccombente. Orbene, il ricorso di quest’ultimo veniva disatteso, osservandosi, in particolare, per quanto qui di più immediato e diretto interesse, che giusta quanto correttamente osservato dalla Corte territoriale, non costituiscono giusta causa di recesso i lamentati pagamenti del bonus e del premio fedeltà, anche qualora dovuti, trattandosi di obbligazioni accessorie rispetto a quella principale di pagamento delle provvigioni. E doveva altresì escludersi, atteso il notevole lasso di tempo tra tali fatti ed il recesso, che essi fossero idonei a giustificarlo, quanto meno senza prestare il preavviso contrattuale.

Alla stregua di quanto sopra osservato ed alla luce pure di quanto nello specifico accertato nonchè ampiamente illustrato (v. anche la precedente narrativa) dalla Corte d’Appello nel caso di specie qui in esame, va ancora ricordato che l’interpretazione del contratto può essere sindacata in sede di legittimità solo nel caso di violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale, la quale non può dirsi esistente sul semplice rilievo che il giudice di merito abbia scelto una piuttosto che un’altra tra le molteplici interpretazioni del testo negoziale, sicchè, quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un’altra (cfr. tra le altre Cass. 3 civ. n. 2560 del 06/02/2007, secondo cui l’interpretazione della volontà delle parti in relazione al contenuto di un contratto o di una qualsiasi clausola contrattuale importa indagini e valutazioni di fatto affidate al potere discrezionale del giudice di merito, non sindacabili in sede di legittimità ove non risultino violati i canoni normativi di ermeneutica contrattuale e non sussista un vizio nell’attività svolta dal giudice di merito, tale da influire sulla logicità, congruità e completezza della motivazione. Conforme Cass. n. 24461 del 18/11/2005. V. analogamente Cass. 1 civ. n. 4178 del 22/02/2007, secondo cui inoltre ai fini della censura di violazione dei canoni ermeneutici, non è peraltro sufficiente l’astratto riferimento alle regole legali di interpretazione, ma è necessaria la specificazione dei canoni in concreto violati, con la precisazione del modo e delle considerazioni attraverso i quali il giudice se ne è discostato, nonchè, in ossequio al principio di specificità ed autosufficienza del ricorso, con la trascrizione del testo integrale della regolamentazione pattizia del rapporto o della parte in contestazione, ancorchè la sentenza abbia fatto ad essa riferimento, riproducendone solo in parte il contenuto, qualora ciò non consenta una sicura ricostruzione del diverso significato che ad essa il ricorrente pretenda di attribuire. La denuncia del vizio di motivazione dev’essere invece effettuata mediante la precisa indicazione delle lacune argomentatìve, ovvero delle illogicità consistenti nell’attribuzione agli elementi di giudizio di un significato estraneo al senso comune, oppure con l’indicazione dei punti inficiati da mancanza di coerenza logica, e cioè connotati da un’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti, sempre che questi vizi emergano appunto dal ragionamento logico svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza. In ogni caso, per sottrarsi al sindacato di legittimità, non è necessario che quella data dal giudice sia l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, sicchè, quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un’altra. Conformi Cass. n. 5273 del 07/03/2007, n. 15604 del 12/07/2007 e n. 19044 del 03/09/2010. V. parimenti Cass. 3 civ. n. 28319 del 28/11/2017: la parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare le regole di cui agli artt. 1362 c.c. e ss., avendo invece l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poichè quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile, ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra.

V. ancora Cass. 3 civ. n. 2465 del 10/02/2015, secondo cui il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sè, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma afferisce solo alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica e della coerenza e logicità della motivazione addotta, con conseguente inammissibilità di ogni critica alla ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati. Conformi Cass. n. 2074 del 13/02/2002 e n. 10891 del 26/05/2016).

Del resto, quanto alla corretta interpretazione del contratto in parola l’art. 1362 c.c. stabilisce che occorre indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole, aggiungendo poi al secondo comma che per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto. Vale la pena di ricordare, altresì, il successivo art. 1363, circa la interpretazione complessiva delle clausole, stabilendo perciò che queste si interpretano le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal complesso dell’atto. Ne consegue che ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, il primo e principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto, con la conseguente preclusione del ricorso ad altri criteri interpretativi, quando la comune volontà delle parti emerga in modo certo ed immediato dalle espressioni adoperate, e sia talmente chiara da precludere la ricerca di una volontà diversa. Tuttavia, il rilievo da assegnare alla formulazione letterale deve essere verificato pure alla luce dell’intero contesto contrattuale, e le singole clausole vanno considerate in correlazione tra loro, dovendo procedersi al loro coordinamento a norma dell’art. 1363 c.c., e dovendosi intendere per “senso letterale delle parole” tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato (Cass. 1 civ. n. 28479 del 22/12/2005. V. altresì Cass. 1 civ. n. 9755 del 04/05/2011, secondo cui l’art. 1363 c.c. impone di procedere al coordinamento delle varie clausole e di interpretarle complessivamente le une a mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso risultante dall’intero negozio; pertanto, la violazione del principio di interpretazione complessiva delle clausole contrattuali si configura non soltanto nell’ipotesi della loro omessa disamina, ma anche quando il giudice utilizza esclusivamente frammenti letterali della clausola da interpretare e ne fissa definitivamente il significato sulla base della sola lettura di questi, per poi esaminare “ex post” le altre clausole, onde ricondurle ad armonia con il senso dato aprioristicamente alla parte letterale, oppure espungerle ove con esso risultino inconciliabili. Cass. lav. n. 4670 del 26/02/2009: il senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto dev’essere verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale, sicchè le singole clausole vanno considerate in correlazione tra loro, dovendo procedersi al loro coordinamento a norma dell’art. 1363 c.c. e dovendosi intendere per “senso letterale delle parole” tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato. In senso analogo Cass. 3 civ. n. 18180 del 28/08/2007, 1 civ. n. 4176 del 22/02/2007, 2 civ. n. 3644 del 16/02/2007, 3 civ. n. 22899 del 25/10/2006, 1 civ. n. 28480 del 22/12/2005).

Nessun errore di diritto, ex art. 1362 e ss. c.c., pertanto, è ravvisabile nella fattispecie, negli anzidetti limiti in cui è consentito il controllo di legittimità in questa sede. Nè, alla stregua dell’anzidetto percorso logico-argomentativo, illustrato nella sentenza de qua, è rilevabile alcun vizio di motivazione, soprattutto poi alla stregua di quanto restrittivamente previsto al riguardo dal vigente testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 nella specie applicabile, trattandosi di pronuncia risalente all’anno 2013 (cfr. in part. Cass. sez. un. civ. nn. 8053 e 8054 del 07/04/2014, secondo cui l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo. Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. Inoltre, secondo le Sezioni unite civili di questa S.C. – v. ancora le pronunce nn. 8053 e 8054 del 2014 – la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal citato D.L. n. 83 del 2012, art. 54 deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione. Ed è stato ulteriormente chiarito – v. Cass. 3 civ. – 3, ordinanza n. 6835 del 16/03/2017 – che l’omessa pronuncia su un motivo di appello integra la violazione dell’art. 112 c.p.c., e non già l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti, in quanto il motivo di gravame non costituisce un fatto principale o secondario, bensì la specifica domanda sottesa alla proposizione dell’appello, sicchè, ove il vizio sia dedotto come violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, il motivo deve essere dichiarato inammissibile. Conforme Cass. 6 – 1 n. 23930 del 12/10/2017. Cfr. ancora Cass. 3 civ. n. 11892 del 10/06/2016, secondo cui anche il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, – che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio- nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante).

Le precedenti considerazioni assorbono, evidentemente, ogni altra doglianza di parte ricorrente, dovendo qui appena aggiungersi come alla stregua degli accertamenti in fatto compiuti dai giudici di merito, immuni da errori logico-giuridici sindacabili in questa sede di legittimità (ciò che vale, come si detto anche per quanto concerne la fornita interpretazione del contratto in parola), deve escludersi, per l’effetto, ogni inadempimento da parte della preponente, ivi compreso quindi anche quello cui allude il quinto motivo di ricorso.

Quanto sopra vale, ovviamente, anche per il sesto ed il settimo motivo, laddove per quest’ultimo rileva poi soprattutto l’inammissibilità della doglianza formulata ai sensi del vigente art. 360, n. 5 cit., non trattandosi ad ogni modo di pretermissione di fatto rilevante e decisivo, ma al più di quaestio juris, ad ogni modo superata anche nel merito dalla diversa ricostruzione fattuale ed ermeneutica avutasi in sede di merito, dalla cui complessiva motivazione si evince chiaramente l’esclusione di ogni inadempimento di sorta da parte convenuta per quanto concerne il regolamento negoziale in questione.

Parimenti, infine, va osservato quanto all’ottavo e ultimo motivo, laddove ciò che effettivamente potrebbe rilevare ai sensi dell’art. 360 c.p.c. è soltanto l’omessa pronuncia sull’interposto gravame, limitatamente alla rivendicata somma di 4841,29 Euro, però da censurarsi ritualmente ed univocamente in termini di nullità ex art. 360 c.p.c., n. 4 (non già sub n. 5, come per contro inammissibilmente formulato nella specie in relazione al preteso “omesso esame circa un fatto decisivo…”), quale error in procedendo per violazione dell’art. 112 cit. codice, peraltro senza nemmeno allegazione e riproduzione esaurienti a norma dell’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 6 (v. d’altro canto quanto ritenuto dalla Corte di merito a pag. 12 della sentenza impugnata: “… l’operato della Banca, che ha prodotto analitici conteggi, le cui poste non sono in contestazione, deve ritenersi corretto in quanto non sussiste la giusta causa…”. Cfr., altresì, i rilievi sul punto alle pagine 70/72 del controricorso, segnatamente in ordine a quanto statuito in proposito dal giudice di primo grado, nonchè le deduzioni e le difese ivi svolte dalle parti, mentre alquanto lacunosa e generica appare la doglianza formulata al riguardo dalla P., che nemmeno può dirsi colmata dalle poche righe riportate nelle sintetiche annotazioni sub 10 in calce alla pagina 69 del ricorso).

Pertanto, l’impugnazione principale va nel suo complesso senz’altro rigettata, mentre, come già sopra anticipato, deve essere dichiarata inammissibile quella incidentale. Stante ad ogni modo il limitato valore di quest’ultima, siccome inerente soltanto al regolamento degli oneri processuali, le spese di questo giudizio vanno compensate in ragione di un quarto, di guisa che la restante quota deve essere posta a carico della P., avuto riguardo alla sua maggiore soccombenza relativamente a questo giudizio di legittimità.

Infine, atteso l’esito comunque negativo di entrambe le impugnazioni, sussistono i presupposti di legge per il versamento degli ulteriori contributi unificati, rispettivamente sia per quella principale, sia per quella incidentale.

P.Q.M.

la Corte RIGETTA il ricorso principale e dichiara INAMMISSIBILE quello incidentale.

Dichiara compensate in ragione di 1/4 (un quarto) le spese, che per i restanti 3/4 (trequarti) pone a carico della ricorrente principale, liquidando tale quota in Euro 3000,00 (tremila/00) per compensi ed in Euro 150,00 (centocinquanta/00) per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale e della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale e per quello incidentale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 7 febbraio 2018.

Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2018

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