LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Antonio – Presidente –
Dott. CURCIO Laura – rel. Consigliere –
Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –
Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –
Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 17526/2013 proposto da:
B.P., *****, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA LUCREZIO CARO 62, presso lo studio dell’avvocato SABINA CICCOTTI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato CHRISTIAN LUCIDI, giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
F.LLI S. S.P.A.;
– intimata –
nonchè da:
F.LLI S. S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, LUNGOTEVERE FLAMINIO, 44, presso lo studio dell’avvocato MARTA LETTIERI, rappresentata e difesa dall’avvocato FLAVIO BARIGELLETTI, giusta delega in atti;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
contro
B.P. *****;
– intimato –
avverso la sentenza n. 214/2013 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 19/03/2013 R.G.N. 332//2010;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/06/2018 dal Consigliere Dott. LAURA CURCIO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CORASANITI Giuseppe, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;
udito l’Avvocato CHRISTIAN LUCIDI;
udito l’Avvocato FLAVIO BARIGELLETTI.
FATTI DI CAUSA
La corte d’appello di Ancona con sentenza n.214/2013 ha accolto parzialmente l’appello della società F.LLI S. spa riducendo la somma al cui pagamento era stata condannata la società in favore di B.P. dal tribunale di Ascoli Piceno, che aveva accolto la domanda del B. di pagamento dei compensi mensili dallo stesso richiesti in forza di un contratto di collaborazione coordinata e coordinativa stipulato con la società in data 1.1.2003 e avente scadenza il 31.12.2007, dal quale la società aveva receduto con comunicazione in data 26.10.2004, per “sopravvenuta impossibilità dell’oggetto”.
Il tribunale aveva condannato la società al pagamento delle 38 mensilità non corrisposte dalla data del recesso sino alla scadenza del contratto, prevista per il dicembre 2017.
La corte territoriale ha preliminarmente dichiarato, ai sensi dell’art. 345 c.p.c., l’inammissibilità del motivo di appello relativo all’eccezione di risoluzione del contratto per mutuo consenso, in quanto sollevata dalla società appellante solo con l’atto di gravame.
Nel merito i giudici di appello hanno rilevato che, con la sentenza della Corte Costituzionale n. 399 del 5.12.2008, resa nell’ambito del procedimento di primo grado a seguito di ordinanza di rinvio disposta dal tribunale di Ascoli Piceno, sentenza che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 86, comma 1, nella parte in cui stabiliva la cessazione dei contratti di co.co.co. stipulati prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo, il B. soltanto con il ricorso di primo grado del 29.5.2006 aveva richiesto espressamente alla società la prosecuzione del rapporto di collaborazione cessata nell’ottobre 2004 e che, pur operando ex tunc la sentenza della Consulta, peraltro di diretta applicazione nella presente controversia, il rapporto era esaurito e comunque il comportamento della società nel recedere dal contratto, recesso all’epoca legittimo, non poteva poi essere diversamente qualificato a seguito della sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 86, comma 1, cit..
La corte territoriale ha quindi ritenuto che la condanna della società andasse limitata ad un risarcimento nella minor misura di 17 mensilità decorrenti dalla messa in mora, individuata nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, in assenza di qualsiasi altra precedente offerta da parte del collaboratore di riprendere la prestazione lavorativa.
Avverso la sentenza B.P. ha proposto ricorso per cassazione affidato a sette motivi, cui ha resistito con controricorso la società F.LLI S. SPA, che ha svolto anche ricorso incidentale affidato a due motivi.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo del ricorso principale il B. deduce la violazione dell’art. 136 Cost., per avere la corte territoriale errato nell’affermare che doveva escludersi che la condotta posta in essere sulla base di una norma dichiarata incostituzionale ed espunta dall’ordinamento potesse continuare ad avere effetto e che non si potesse comunque ritenere illecito un comportamento (nel caso in esame la risoluzione del contratto di collaborazione) posto in essere quando la norma era ancora in vigore. Secondo il ricorrente l’invalidità sarebbe oggettiva e non potrebbe conseguentemente essere esclusa dall’affidamento soggettivo della società su una norma non ancora dichiarata incostituzionale. Nel caso in esame non potrebbero che trovare applicazione le comuni regole della soccombenza, essendosi in presenza di una mora credendi.
2) Con il secondo motivo del ricorso principale si deduce la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c. e dell’art. 111 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4: la sentenza sarebbe nulla per difetto assoluto di motivazione e comunque la motivazione avrebbe dei passaggi di insanabile contraddizione, prima rilevando che, essendo ancora vigente la norma che richiedeva il recesso, dovesse escludersi l’illiceità della condotta della società, poi rilevando in altro passo motivazionale che la sentenza della Corte costituzionale operava retroattivamente, spiegando i suoi effetti anche sui rapporti sorti precedentemente alla pronuncia di illegittimità costituzionale.
3) Con il terzo motivo di ricorso il B. deduce l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per non aver considerato la corte di merito la tardività dell’eccezione della società, svolta solo in appello ed avente ad oggetto una sostenuta tardività della costituzione in mora da parte del B., avvenuta secondo la società solo nel 2009 con il ricorso di riassunzione a seguito della sentenza della corte costituzionale. Secondo il ricorrente nella memoria di costituzione in appello egli aveva invece tempestivamente eccepito la tardività ed inammissibilità dell’avversa eccezione e, pertanto, si era in presenza di un fatto assolutamente decisivo che era stato discusso e di cui la corte aveva omesso l’esame.
4) Con il quarto motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 416 e 345 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la corte di merito accolto un’eccezione in senso proprio (la mancata messa in mora al fine di pretendere il risarcimento del danno per le mensilità non pagate dopo il recesso illegittimo) che, proprio perchè tale, lungi dall’essere rilevabile d’ufficio sarebbe stata opponibile dalla società solo con la memoria di costituzione di primo grado.
5) Con il quinto motivo di ricorso si deduce la violazione degli 1206, 1207, 1217, 1218, 1219 e 1223 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la corte erroneamente legato il diritto alla corresponsione delle spettanze contrattuali – riconosciute in sole 17 mensilità – alla previa costituzione in mora, fatta coincidere con la proposizione del ricorso ex art. 414 c.p.c.; secondo il ricorrente, trattandosi di un recesso ante tempus senza giusta causa da un contratto a termine, ai fini del risarcimento del danno non occorreva alcuna offerta della prestazione lavorativa e, dunque, di messa in mora (Cass. n. 12092/2004, Cass. n. 16849/2013). C’era stata poi, sempre secondo il ricorrente, un’offerta reale della prestazione sin dalla fine del 2004, desumibile dal rifiuto di lasciare i locali, come intimatogli dalla società. Avrebbe comunque errato la corte nel ritenere non idonee ad integrare la messa in mora (sempre ove fosse stata ritenuta necessaria) le richieste stragiudiziali avanzate dal ricorrente prima di avviare la causa, perchè invece si trattava di intimazioni che integravano i requisiti richiesti dall’art. 1217 c.c. (si trattava di un comportamento concludente consistito nel rifiuto di abbandonare i locali dove veniva svolta la prestazione).
6) Con il sesto motivo di ricorso si deduce un omesso esame di fatto decisivo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per avere la corte omesso di valutare se valesse come atto di costituzione in mora la lettera del 16.11.2004, in cui il B. contestava la scelta della società di far cessare la collaborazione. Si trattava di fatto certamente discusso tra le parti.
7) Con il settimo motivo si lamenta la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., in punto di spese che, anche qualora il ricorso fosse stato respinto, non potrebbero comunque ravvisarsi i giusti motivi ritenuti dalla sentenza impugnata per la compensazione delle spese; ciò in quanto vi sarebbe stata un violazione del principio della soccombenza, atteso che la società era stata soccombente in relazione all’an della domanda di risarcimento e solo parzialmente soccombente in ordine al quantum.
Con il ricorso incidentale si deducono la violazione degli artt. 1206,1207,1217,1218,1223 e 1225 c.c., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n.3, c.p.c. nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia (e ciò in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Secondo la ricorrente incidentale la retroattività delle pronunce di illegittimità costituzionali riguarda l’antigiuridicità delle norme investite, non più applicabili dal giorno della pubblicazione della sentenza della corte costituzionale, solo ai rapporti pregressi non ancora esauriti, non consentendo di configurare retroattivamente la colpa del soggetto che, prima della declaratoria di incostituzionalità, abbia conformato il proprio comportamento alle disposizioni poi divenute espunte dall’ordinamento. Nel caso in esame la pronuncia di incostituzionalità è sopraggiunta quando il rapporto di collaborazione era oramai venuto a scadenza nel 2007. Nè sarebbe rilevante, a dire della ricorrente incidentale, la circostanza che la questione di costituzionalità sia stata sollevata proprio nel procedimento in esame.
Nel presente caso, pertanto, non potrebbe invocarsi il danno da inadempimento, che presuppone che esso sia imputabile al soggetto che lo ha posto in essere; infine il comportamento tenuto dalla società non potrebbe inquadrarsi neanche nella mora credendi ex art. 1206 c.c., che comunque presuppone la mancanza di un “motivo legittimo”. Non avrebbe comunque considerato la corte di merito che all’epoca dei fatti il risarcimento di un danno non era neppure prevedibile.
Il primo ed il secondo motivo di ricorso principale ed il ricorso incidentale possono esaminarsi congiuntamente perchè connessi, in quanto egualmente diretti ad affrontare, sia pure con prospettazioni interpretative opposte e speculari, la questione degli effetti retroattivi o meno della pronuncia di incostituzionalità dell’art. 86 citato, sulla comunicazione di recesso disposta dalla società committente in data 26.10.2004, data entro la quale la norma dichiarata illegittima consentiva la prosecuzione di collaborazioni coordinate e continuative sorte prima del D.Lgs. n. 276 del 2003 e dunque prive di progetto.
I motivi non meritano accoglimento, perchè infondati. La corte di merito non ha escluso il carattere di retroattività della pronuncia di incostituzionalità della norma di cui al D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 86, sul rapporto di cui è causa, pronuncia della Consulta emessa quando il contratto di collaborazione era comunque già giunto alla sua naturale scadenza fissata il 31.12.2007. La sentenza impugnata ha soltanto rilevato, peraltro nel rispetto di un orientamento più volte espresso da questa corte (cfr. Cass. n. 23565/2007, Cass. n. 355/2013, Cass. n. 20100/2015), che non si può configurare retroattivamente, quanto fittiziamente, la “colpa” del soggetto che, prima della declaratoria di incostituzionalità, abbia “conformato” il proprio comportamento alle norme che solo successivamente sono state investite da quella declaratoria.
In tal caso, infatti, manca soltanto l’imputabilità dell’illecito, dal momento che era vigente la norma che consentiva il recesso, ma ciò non esclude che, avendo la declaratoria di incostituzionalità espunto dall’ordinamento la norma prima in vigore, il rapporto a prestazioni corrispettive non ancora formalmente sciolto possa riattivarsi ad opera di una delle parti, qualora sopravvenga l’offerta della prestazione.
Ed infatti nel caso in esame, diversamente da quanto ritenuto dalla società, non si è in presenza di un rapporto esaurito, sul quale la pronuncia della Consulta non può avere alcun effetto modificativo, vigendo il principio secondo cui gli effetti dell’incostituzionalità non si estendono soltanto ai rapporti ormai esauriti in modo definitivo, con ciò intendendosi per avvenuta formazione del giudicato o per essersi verificato altro evento cui l’ordinamento collega il consolidamento del rapporto medesimo, ovvero per essersi verificate preclusioni processuali, o decadenze e prescrizioni non direttamente investite, nei loro presupposti normativi, dalla pronuncia d’incostituzionalità (cfr. Cass. n. 16540/2006, Cass. n. 20381/2012).
Nel caso in esame, poi, la pronuncia di incostituzionalità è intervenuta proprio su impulso del giudice investito della causa, così che solo con il giudizio di riassunzione in primo grado si è avuta la prima decisione.
Non meritano accoglimento, perchè in parte inammissibili ed in parte infondati, neppure il terzo ed il quarto motivo del ricorso principale, pure connessi e quindi esaminabili congiuntamente, che censurano la sentenza per non avere correttamente valutato la tardività dell’eccezione di mancata messa in mora.
A riguardo basti ricordare che la mancanza della costituzione in mora, lungi dall’integrare un’eccezione in senso stretto (oggetto del divieto di nova in appello ex art. 437 c.p.c., comma 2), integra, invece, una mera difesa con cui si contesta un elemento costitutivo della pretesa dell’attore, in quanto tale rilevabile anche d’ufficio (cfr. Cass. n. 21340/13).
Non merita accoglimento neanche il quinto motivo di ricorso principale. Nel caso in esame, pur trattandosi di un recesso da un contratto a tempo determinato avvenuto ante tempus, non si è in presenza di un recesso posto in essere per colpa del recedente, ma di un recesso adottato in applicazione di una norma di legge che imponeva la cessazione dei rapporti di collaborazione entro la data del 24.10.2004, norma solo successivamente dichiarata incostituzionale.
Pertanto, pur conseguendo dall’effetto retroattivo della declaratoria di incostituzionalità una nullità del recesso, il diritto al risarcimento del danno derivato dalla mancata percezione di compensi mensili medio tempore maturati potrà sussistere solo in ragione di un inadempimento datoriale, ex art. 1218 c.c., inadempimento che può verificarsi solo a seguito di un atto di messa in mora da parte del contraente adempiente. Solo da tale momento, infatti, può ritenersi sussistente un titolo di responsabilità della parte recedente, non essendo in alcun modo configurabile nel caso di specie una situazione di “mora accipiendi” della società nei confronti del collaboratore, che presupporrebbe una responsabilità nella decisione di recedere, qui inesistente.
La corte di merito ha pertanto correttamente individuato tale atto di messa in mora solo nel ricorso di primo grado del 2006, atto in cui risultava per tabulas provata la volontà del collaboratore di essere riammesso a svolgere la prestazione oggetto del contratto.
E’ inammissibile il sesto motivo, in cui il ricorrente principale lamenta l’omesso esame della lettera del 16.11.2004 e ciò in base all’assorbente rilievo che – come prima rilevato – la corte ha in realtà esaminato anche tale lettera, ritenendola generica.
Deve infine ritenersi infondato anche il settimo motivo di gravame, non potendosi ritenere alcuna violazione del principio della soccombenza nell’avere il giudice di merito adottato una statuizione di compensazione delle spese nel rispetto della formulazione dell’art. 92 c.p.c., comma 2, vigente prima della L. n. 69 del 2009 (essendo stato instaurato il presente giudizio nel 2006). Correttamente, pertanto, la sentenza ha deciso facendo riferimento “a giusti motivi” che consentivano una totale compensazione, individuati nella questione accolta di illegittimità costituzionale e quindi nella posizione di buona fede della parte committente nel recedere dal contratto, aspetti di merito incensurabili in questa sede.
Il ricorso principale ed il ricorso incidentale devono, pertanto, essere respinti, comportando la reciproca soccombenza la compensazione delle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale ed il ricorso incidentale, compensa le spese del presente giudizio.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente principale e della ricorrente incidentale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale e per il ricorso incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 6 giugno 2018.
Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2018
Codice Civile > Articolo 1206 - Condizioni | Codice Civile
Codice Civile > Articolo 1207 - Effetti | Codice Civile
Codice Civile > Articolo 1217 - Obbligazioni di fare | Codice Civile
Codice Civile > Articolo 1218 - Responsabilita' del debitore | Codice Civile
Codice Civile > Articolo 1223 - Risarcimento del danno | Codice Civile
Codice Civile > Articolo 1225 - Prevedibilita' del danno | Codice Civile
Codice Procedura Civile > Articolo 91 - Condanna alle spese | Codice Procedura Civile
Codice Procedura Civile > Articolo 132 - Contenuto della sentenza | Codice Procedura Civile
Codice Procedura Civile > Articolo 345 - Domande ed eccezioni nuove | Codice Procedura Civile
Codice Procedura Civile > Articolo 414 - Forma della domanda | Codice Procedura Civile
Codice Procedura Civile > Articolo 416 - Costituzione del convenuto | Codice Procedura Civile