Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.27721 del 30/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – rel. Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13320-2017 proposto da:

N.D., V.G., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA OTTAVIANO 91, presso lo studio dell’avvocato GABRIELE D’OTTAVIO, che li rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

CITTA’ METROPOLITANA DI REGGIO CALABRIA, già AMMINISTRAZIONE PROVINCIALE DI REGGIO CALABRIA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GERMANICO 96, presso lo studio dell’avvocato ATTILIO TAVERNITI, rappresentata e difesa dall’avvocato LUIGI CREA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 120/2016 della CORTE D’APPELLO di REGGIO CALABRIA, depositata il 10/05/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 23/04/2018 dal Consigliere Dott. POSITANO GABRIELE.

RILEVATO

che: con atto di citazione notificato il 31 ottobre 1991, N.D. e V.G. evocavano in giudizio, davanti al Tribunale di Reggio Calabria, l’amministrazione provinciale di Reggio Calabria per sentirla condannare al risarcimento dei danni subiti da un immobile di loro proprietà lamentando che durante la esecuzione di lavori di rifacimento e bitumazione della strada provinciale limitrofa alla proprietà, si erano verificate profonde lesioni alla soletta in cemento armato di tale locale, posto a livello stradale, provocando la successiva infiltrazione di acqua piovana. Nell’occasione l’amministrazione comunale di Reggio Calabria era conduttrice di tale locale adibito a scuola materna, che per tali ragioni aveva risolto il contratto di locazione ritenendo inidoneo all’uso dell’immobile. Si costituiva in giudizio l’amministrazione provinciale contestando la domanda; la causa veniva definita dalla Sezione Stralcio del Tribunale di Reggio Calabria con sentenza del 17 novembre 2005 che respingeva la domanda. Il Tribunale riteneva che la proprietà in questione ricadesse in parte sul suolo pubblico e che pertanto erano stati gli attori a creare una situazione di possibile pericolo, non segnalando all’amministrazione provinciale l’estensione di parte della proprietà sul suolo pubblico al fine di consentire alla convenuta di adottare le cautele necessarie per evitare che il solaio fosse percorso da mezzi pesanti utilizzati durante l’esecuzione dei lavori; avverso tale sentenza proponevano appello N.D. e V.G. deducendo, tra l’altro, il vizio di extrapetizione e ultrapetizione lamentando che il Tribunale aveva definito il giudizio sulla base di fatti non dedotti dalla controparte, con specifico riferimento alla circostanza che i locali oggetto di causa occupassero in parte il suolo pubblico. Gli appellanti rilevavano che, sia dalla consulenza tecnica, che dalla prova testimoniale era emersa la dimostrazione che i locali erano interessati da evidenti lesioni strutturali a causa dei lavori eseguiti. Si costituiva la amministrazione provinciale proponendo appello incidentale deducendo la mancanza di nesso causale tra il fatto e l’evento e ciò sulla base delle dichiarazioni testimoniali e delle risultanze della consulenza d’ufficio; con sentenza del 10 maggio 2016 la Corte d’Appello di Reggio Calabria rigettava l’appello principale proposto da N.D. e V.G. e accoglieva quello incidentale della amministrazione provinciale dichiarando il difetto di prova del nesso causale tra il fatto e l’evento. Compensava le spese del grado di appello; avverso tale decisione propongono ricorso per cassazione N.D. e V.G. affidandosi a un motivo. Resiste in giudizio la Città Metropolitana di Reggio Calabria (già amministrazione provinciale) con controricorso, illustrato da memoria ex art. 380 bis c.p.c.

CONSIDERATO

che: la Corte d’Appello ha escluso che dagli atti processuali emergesse la prova dell’occupazione di suolo pubblico da parte degli appellanti e ciò in quanto l’immobile era semplicemente limitrofo alla sede stradale. Quanto al nesso causale, lo stesso è stato esaminato sotto il profilo della causalità materiale e di quella giuridica. Con riferimento alla causalità materiale, i principi da applicare sono quelli vigenti in ambito penalistico, mentre per la causalità giuridica trova applicazione dell’art. 1223 c.c. Muovendo da tali premesse la Corte ha preso atto che le risultanze processuali non consentivano di ritenere raggiunta la prova del nesso causale. In particolare, la consulenza non forniva elementi certi sulla dipendenza causale tra il fatto e l’evento dannoso e neppure soccorreva a ciò l’esito della prova testimoniale che “non ha contribuito a dissolvere ogni dubbio sulla vicenda e a determinare, entro un ragionevole grado di certezza, la sussistenza del nesso causale”; i ricorrenti lamentano, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e artt. 2721,2727 e 2729 c.c. In particolare la Corte reggina erroneamente avrebbe ritenuto inverosimile quanto riferito dal teste C. (uno dei genitori che accompagnava giornalmente il figlio presso l’immobile adibito a scuola materna) riguardo all’insorgenza dei danni lamentati perchè riferiti a un lasso temporale troppo ravvicinato (pochi giorni). Sotto altro profilo la sentenza apparirebbe in contrasto con l’orientamento della giurisprudenza di legittimità in tema di nesso causale civile, fondato sul principio del più probabile che non anche con riferimento alla causalità materiale e non, come affermato dalla corte territoriale sulla base del principio penalistico. In terzo luogo, sarebbe errato il riferimento ad una nozione di comune esperienza o fatto notorio ai sensi dell’art. 115 c.p.c., comma 2, quando l’oggetto riguarda un evento tecnico e cioè la manifestazione di lesioni o infioltrazioni nella soletta in un tempo più lungop di quello riferito dal teste. Ciò in quanto non possono essere considerati fatti notori gli elementi valutativi come il tempo occorrente perchè si manifestino macchie di umidità all’interno di un manufatto. Alla luce di tali elementi la Corte non avrebbe correttamente valutato il materiale probatorio, scartando i dati privi di rilevanza e conservando quelli che presentino una potenziale efficacia probatoria, complessivamente; Il ricorso è infondato. Appare utile ricordare che la nozione di causalità nell’ambito della responsabilità civile ha subito un progressivo allontanamento dai principi della giurisprudenza penale che ponevano al centro della regola causale gli artt. 40 e 41 c.p., quali disposizioni di applicazione universale. La giurisprudenza civile di legittimità ha progressivamente definito uno statuto diverso da quello della causalità penale attraverso due fasi. Un primo accenno a tale differente ricostruzione si rinviene nella sentenza del 30 maggio 2003, n. 8827, ma il principio trova piena affermazione nella successiva decisione delle S.U. di questa Corte (11 gennaio 2008, n. 576); l’illecito civile ha una struttura diversa da quello penale dove occorre accertare se la condotta umana abbia prodotto l’evento che costituisce il fatto-reato. Tale fatto è interno alla fattispecie, poichè ne rappresenta l’elemento costitutivo. Al contrario in ambito di responsabilità civile tale verifica è insufficiente, poichè occorre accertare anche se da quella lesione sono derivate conseguenze pregiudizievoli. In sede civile, infatti, la lesione dell’interesse protetto non costituisce il danno, ma la causa del danno. Pertanto, è necessario una doppia verifica: se dalla condotta sono derivate conseguenze dannose oppure sono derivate conseguenze pregiudizievoli, ma esse non sono risarcibili non è configurabile una responsabilità civile. In ambito civile occorre sostanzialmente accertare due nessi di causalità: quello tra la condotta illecita e la lesione dell’interesse e quello, successivo, tra la lesione dell’interesse e il danno risarcibile. Come correttamente dedotto dalla Corte territoriale, la prima verifica attiene alla causalità materiale e trova disciplina degli artt. 40 e 41 c.p., mentre la seconda riguarda la causalità giuridica e si fonda sull’art. 1223 c.c. La causalità materiale o causalità fondativa è quella che fonda la responsabilità, mentre la causalità giuridica è quella descrittiva della responsabilità. Ove ricorra la prima è possibile parlare di illecito, ove sussista anche la seconda è configurabile anche il danno. E’ pertanto necessario per l’accertamento dell’obbligo risarcitorio il positivo accertamento di entrambi i profili che riguardano la condotta, la lesione e il danno; dopo la premessa giuridica corretta, la Corte di Reggio Calabria erroneamente, nel definire la causalità materiale, rinvia alle norme del codice penale (artt. 40 e 41), in quanto in ambito civilistico e sul piano della prova, opera il diverso criterio della preponderanza dell’evidenza ovvero del “più probabile che non” (Cass. S.U. 11 gennaio 2008, n. 581); ma a tale errata enunciazione in astratto la Corte d’Appello non ha dato seguito nella concreta valutazione probatoria, applicando il parametro penalistico della elevata credibilità razionale. Al contrario ha correttamente applicato, in concreto, il criterio civilistico della preponderanza dell’evidenza, inteso sotto il profilo della probabilità anche logica, oltre che statistica; quanto, poi, alla causalità giuridica che riguarda il rapporto dell’interesse leso dal fatto illecito e le conseguenze pregiudizievoli che ne sono derivate, la Corte territoriale ha correttamente fatto riferimento alla regola stabilita dall’articolo 1223 c.c. che consente il risarcimento dei soli danni che siano conseguenza immediata e diretta dell’illecito. Norma elevata a regola causale e, quindi, a dato probatorio da accertare in concreto. Il filtro dell’art. 1223 c.c. prevede la risarcibilità della sola causalità immediata e diretta, da valutare sulla base dei medesimi parametri della preponderanza dell’evidenza; in secondo luogo, la nozione di fatto notorio è erroneamente dedotta da parte ricorrente in quanto il giudizio della Corte territoriale riguarda l’attendibilità del teste e non la sussistenza dei presupposti del fatto notorio; ne consegue che il ricorso deve essere rigettato; le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza, dandosi atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17: “Quando l’impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma del comma 1-bis. Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso”.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidandole in Euro 2.200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis. Così deciso in Roma, nella camera di Consiglio della Sezione sesta della Corte Suprema di Cassazione, il 23 aprile 2018. Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2018

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