Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.27824 del 31/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. BERNAZZANI Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 24173/2011 R.G. proposto da:

F.lli P. Impianti s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. Antonio Fratini, con domicilio eletto preso lo studio dell’Avv. Francesco Capozzi, in Roma, Viale delle Milizie n. 1, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante pro tempre, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia n. 84/2010 depositata il 7 luglio 2010;

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 30 maggio 2018 dal Consigliere Dott. Luigi D’Orazio.

RITENUTO IN FATTO

1. L’Agenzia delle entrate notificava avviso di accertamento ai fini Iva, Irap e Ires per l’ann0 2004 alla società Fratelli P. Impianti s.r.l., determinando maggiori ricavi in relazione alle dichiarazioni rese da P.A., quale socio “operativo” anche se non legale rappresentante.

2. Presentava ricorso la società dinanzi alla Commissione tributaria provinciale evidenziando che l’avviso era nullo perchè basato su dati non corretti e sulle generiche dichiarazioni di P.A., il quale ricopriva un ruolo meramente tecnico-operativo, che l’atto era carente di prove in violazione all’art. 2697 c.c., che era carente di motivazione, che le risultanze degli studi di settore erano presunzioni semplici, che vi era stata errata applicazione dell’aliquota Iva, che era errata la quantificazione delle percentuali di scarto.

3. La Commissione provinciale accoglieva parzialmente il ricorso.

4. La Commissione tributaria regionale accoglieva l’appello della Agenzia delle Entrate, rilevando che le dichiarazioni del socio operativo P.A. dovevano essere valutate come confessione stragiudiziale, quindi come prova diretta, apparendo inconferente il richiamo alle presunzioni di cui all’art. 2727 c.c. e segg., che vi era stata inesatta compilazione degli studi di settore, che era evanescente il reddito imponibile dichiarato per l’anno, pari ad Euro 1.343,00, che risultavano emesse solo tre fatture ad altri clienti.

5. Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione la società.

6. Resisteva con controricorso l’Agenzia delle Entrate.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo di ricorso la società deduce “In relazione alla eccepita inammissibilità dell’atto di appello dell’Ufficio: violazione e/o falsa applicazione di norma di diritto in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, in quanto la Commissione regionale ha omesso di pronunciarsi sulla eccezione di inammissibilità dell’appello per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, comma 2, non essendo stato depositato l’atto di appello presso la segreteria della Commissione tributaria provinciale.

1.1. Tale motivo è infondato.

Invero, per giurisprudenza di legittimità non è configurabile il vizio di omesso esame di una questione (connessa a una prospettata tesi difensiva) o di un’eccezione di nullità (ritualmente sollevata o rilevabile d’ufficio), quando debba ritenersi che tali questioni od eccezioni siano state esaminate e decise sia pure con una pronuncia implicita della loro irrilevanza o di infondatezza – in quanto superate e travolte, anche se non espressamente trattate, dalla incompatibile soluzione di altra questione, il cui solo esame comporti e presupponga, come necessario antecedente logico-giuridico, la detta irrilevanza o infondatezza; peraltro, il mancato esame da parte del giudice, sollecitatone dalla parte, di una questione puramente processuale non può dar luogo al vizio di omessa pronunzia, il quale è configurabile con riferimento alle sole domande di merito, e non può assurgere quindi a causa autonoma di nullità della sentenza, potendo profilarsi al riguardo una nullità (propria o derivata) della decisione, per la violazione di norme diverse dall’art. 112 c.p.c., in quanto sia errata la soluzione implicitamente data dal giudice alla questione sollevata dalla parte (Cass. Civ., 24 giugno 2005, n. 13649).

Nella specie, la ricorrente ha evidenziato la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, comma 2, nella versione all’epoca vigente, che prevedeva, a pena di inammissibilità dell’appello, il deposito dello stesso presso la Commissione tributaria provinciale, al fine di consentire la corretta verifica dell’eventuale passaggio in giudicato della decisione (Corte Cost., 30 maggio 2016, n. 121). Occorre, quindi, in questa sede stabilire, anche attraverso l’esame diretto degli atti, attesa la denuncia di un vizio in procedendo, se ricorra o meno l’eccepita inammissibilità dell’atto di appello, implicitamente negata dalla Commissione regionale che ha accolto l’appello della Agenzia delle entrate nel merito, disattendendo quindi la questione processuale sollevata dalla società appellata.

Dagli atti del fascicolo di merito, acquisiti con ordinanza dei questa Corte, emerge che l’appello è stato ritualmente depositato presso la segreteria della Commissione provinciale in data 16-6-2009, sicchè il motivo è infondato.

2. Con il secondo motivo di impugnazione la società deduce “Violazione e/o falsa applicazione di norme di legge: dell’art. 2729 c.c., D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39,D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, in quanto le dichiarazioni di terzi raccolte dalla Guardia di finanza assumono il valore di mere presunzioni, che richiedono il conforto di elementi ulteriori, mentre il socio che ha rilasciato le dichiarazioni non era legale rappresentante della società, sicchè non v’è stata alcuna confessione stragiudiziale della parte.

3. Con il terzo motivo di impugnazione la società deduce “vizio di motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5", in quanto la Commissione regionale ha desunto la correttezza dei maggiori ricavi sulla base delle dichiarazioni rese, non dalla parte, ma da uno dei soci, ed in base all'”evanescente reddito imponibile”, oltre che per “inesattezza” nella compilazione degli studi di settore, non essendo gli elementi indiziari, costituiti da tali dichiarazioni, sufficienti da soli a costituire il fondamento della decisione.

3.1. I motivi secondo e terzo, che vanno esaminati congiuntamente per ragioni di connessione, sono infondati.

Invero, è pacifico che le dichiarazioni utilizzate dall’Agenzia delle Entrate per l’accertamento dei maggiori redditi, poi valorizzate dalla Commissione regionale quali costituenti una vera e propria confessione stragiudiziale, sono state rese, non dal legale rappresentante della società, ma solo da un socio.

Pertanto, non può applicarsi la giurisprudenza di legittimità che attribuisce valore confessorio alle dichiarazioni rese dal legale rappresentante della parte (Cass. Civ., 24 ottobre 2014, n. 22616; Cass. Civ., 21 dicembre 2005, n. 28316; solo per Cass. Civ., 25 maggio 2007, n. 12271, hanno valore di confessione stragiudiziale anche le dichiarazioni dei socio, direttore tecnico, che non è legale rappresentante della società di capitali). Infatti, solo le dichiarazioni rese dal socio, che è anche legale rappresentante della società di capitali, proprio in virtù del rapporto di immedesimazione organica che lo lega alla società rappresentata, costituiscono confessione stragiudiziale (Cass. Civ., 14 novembre 2013, n. 25570).

L’efficacia probatoria della confessione, infatti, postula che essa provenga da persona capace di disporre del diritto a cui i fatti confessati si riferiscono ai sensi dell’art. 2731 c.c., quindi da persona che ha la capacità e la legittimazione ad agire, con la necessità che il rapporto di rappresentanza (legale o volontaria) sia in vita nel momento in cui è resa la confessione e che questa rientri nei limiti dei poteri attribuiti al rappresentante dalla procura o dalla legge (Cass. Civ., 30 novembre 1989, n. 5264).

Le dichiarazioni del socio, invece, costituiscono solo un elemento presuntivo, che deve, quindi, trovare conforto in ulteriori elementi per assurgere al rango di prova.

Tali ulteriori elementi emergono proprio dalla motivazione della sentenza impugnata, in grado di corroborare la portata indiziaria delle dichiarazioni del socio.

La sentenza della Commissione regionale va, quindi, confermata ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 4, anche se con diversa motivazione. Infatti, la Commissione regionale, pur enucleando tutti gli elementi di fatto sottoposti alla sia valutazione, ha errato solo nella qualificazione giuridica delle dichiarazioni del socio di s.r.I., come confessione stragiudiziale, anzichè come elemento indiziario.

L’art. 384 c.p.c., comma 4, consente, infatti, la sostituzione della motivazione, solo in diritto, senza indagini o valutazione del fatto (Cass. Civ., 17/20806).

In particolare, si ricava dalla motivazione della sentenza impugnata che il socio è il figlio della legale rappresentante della società, nella titolarità del 45% delle quote, che la legale rappresentante è la madre del socio, con il 10% delle quote, mentre l’altro fratello ha il 45% delle quote. Trattasi, quindi, di società a ristretta base sociale, sicchè le dichiarazioni del sociolavoratore” inquadrato con funzione “tecnica-operativa”, hanno un valore indiziario molto forte, proprio per la perfetta conoscenza dell’andamento della società che si presume abbiano tutti i soci della compagine, per le ridotte dimensioni della stessa.

Tali dichiarazioni sono state, poi, particolarmente precise, come si deduce dalla sentenza impugnata, in relazione all’attività di installazione di impianti idraulici e sanitari presso cantieri con ditte conosciute da tempo, con ricarichi del 25-30% sulle materie prime cedute e con ricarico del 10-15% ai “terzisti”.

A ciò si aggiunge che sono state riscontrate anche inesattezze nella compilazione degli studi di settore, in quanto i costi relativi alle lavorazioni dei terzi sono stati classificati come altri costi per servizi, mentre il reddito della società riscontrato nell’anno di riferimento è stato di appena Euro 1.343,00.

La Commissione regionale, infatti, pur errando nella valutazione giuridica delle dichiarazioni del socio, ha impiantato l’intero apparato della motivazione sui singoli elementi indiziari sopra indicati, non limitandosi a considerare come prova legale la confessione stragiudiziale fatta alla parte ex art. 2735 c.c., comma 2, ma scendendo all’esame dei singoli elementi, valutati nella loro complessità. Ciò consente una correzione della motivazione solo per quanto riguarda la soluzione in diritto della questione affrontata (valore o meno di confessione stragiudiziale della dichiarazione del socio di società di capitali), lasciando immutata quanto ai fatti la motivazione della sentenza della Commissione regionale.

4.Le spese del giudizio vanno poste, quindi, a carico della ricorrente e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente a rimborsare all’Agenzia delle entrate le spese di giudizio che si liquidano in complessivi Euro 3.000,00, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 30 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2018

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