LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –
Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –
Dott. FRACANZANI Marcello M. – Consigliere –
Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –
Dott. PERINU Renato – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 23844/2011 R.G. proposto da:
D.C., rappresentato e difeso dall’Avv. Gianfranco Schirone, come da procura speciale in calce al ricorso, elettivamente domiciliato in cancelleria;
– ricorrente –
contro
Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante pro tempre, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Puglia, n. 54/9/2011, depositata il 25 marzo 2011.
Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 18 settembre 2018 dal Consigliere Dott. Luigi D’Orazio.
RITENUTO IN FATTO
1. A seguito dell’utilizzo degli studi di settore l’Agenzia delle entrate emetteva un avviso di accertamento nei confronti di D.C., esercente attività di autotrasportatore per conto terzi, in relazione all’anno 2002, con determinazione di ricavi per Euro 467.524,00, a fronte di ricavi dichiarati per Euro 169.407,00. In sede di contraddittorio, però, il contribuente ammetteva di avere commesso degli errori nella compilazione dello studio di settore, in quanto le giornate lavorative indicate “ore zero” erano, invece, 530, mentre i collaboratori dell’impresa familiare non erano 24, ma solo uno. Inoltre, il contribuente aveva una invalidità del 67% come da certificazione medica, sin dal 1995. L’Agenzia delle entrate, sulla base delle motivazioni addotte dal D., ritenute del tutto generiche, rideterminava i ricavi in Euro 236.906,00, con uno scostamento di Euro 67.499,00.
2. La Commissione tributaria provinciale accoglieva il ricorso avendo il D. dimostrato che era inabile al lavoro nella misura del 67%, che si era assentato dal lavoro per circa 90 giorni per le sua patologie, che nel 2003 l’attività era stata chiusa, che, in base ad una consulenza di parte, era stato inabile al lavoro già dal 2000.
3. La Commissione tributaria regionale accoglieva l’appello dell’Agenzia delle entrate, evidenziando che le certificazioni mediche prodotte attenevano ad anni precedenti, che trattavasi di impresa familiare alla quale partecipava nella misura del 49% il coniuge, che vi lavorava il figlio, che sussisteva, quindi, una organizzazione aziendale, idonea a supplire ad una eventuale temporanea inabilità al lavoro del titolare, che non vi era prova di una effettiva sospensione dell’attività, che le giornate lavorative erano pari a 484, che il costo per carburante era stato di Euro 72.839,00, che il costo per il personale dipendente era stato di Euro 44.332,00, che i ricavi erano stati solo di Euro 169.040,00, che quindi l’attività era antieconomica, con un modesto reddito di Euro 5.518,00, inferiore a quello dei dipendenti.
4. Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione il contribuente. 5.Resisteva con controricorso l’Agenzia delle Entrate.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con il primo motivo di impugnazione il ricorrente deduce “violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 7,D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, comma 3, convertito con modificazioni nella L. n. 427 del 1993”, in quanto non è sufficiente il risultato degli studi di settore come “fatto noto” per la determinazione dei ricavi, ma è necessaria la presenza di “gravi incongruenze”, non rinvenibili nel mero scostamento rispetto ai risultati degli studi di settore. Non è possibile, quindi, accertare a carico del contribuente un imponibile pari al risultato della elaborazione statistica. Nella specie, invece, l’Ufficio ha elaborato maggiori ricavi, fondati esclusivamente sugli studi di settore, non indicando nell’avviso di accertamento alcun altro valido elemento indiziario di occultamento di ricavi o di una maggiore capacità contributiva.
1.1. Tale motivo è infondato.
Invero, la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è “ex lege” determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” in sè considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente. In tale sede, quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standards” o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello “standard” prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente. L’esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli “standards” al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte. In tal caso, però, egli assume le conseguenze di questo suo comportamento, in quanto l’Ufficio può motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli “standards”, dando conto dell’impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all’invito (Cass. Civ., Sez. Un., 18 dicembre 2009, n. 26635; Cass. Civ., 20 settembre 2017, n. 21754).
Pertanto, mentre incombe sul contribuente l’onere di allegare e provare, senza limitazioni di mezzi e di contenuto, la sussistenza di circostanze di fatto tali da allontanare la sua attività dal modello normale al quale i parametri fanno riferimento, sì da giustificare un reddito inferiore a quello che sarebbe stato normale secondo la procedura di accertamento tributario standardizzato, all’ente impositore fa carico la dimostrazione dell’applicabilità dello “standard” prescelto al caso concreto oggetto di accertamento (Cass. Civ., 20 febbraio 2015, n. 3415).
Nella specie, il contribuente ha fornito chiarimenti in sede di contraddittorio, riducendo il numero dei dipendenti da n. 24 a n. 1, tanto che i ricavi risultanti dagli studi di settore sono stati diminuiti da 467.524,00 ad Euro 236.906,00, a fronte dei ricavi dichiarati per Euro 169.407,00, con uno scostamento di Euro 67.499,00.
Non era necessario, quindi, per l’Agenzia delle entrate indicare nell’avviso di accertamento, ulteriori elementi indiziari rispetto ai dati emersi dagli studi di settore, per determinare un maggiore reddito di impresa, una volta che i dati degli studi di settore erano stati oggetto di contraddittorio con il contribuente, con conseguente ampia riduzione dell’importo dei ricavi in origine accertati.
Tra l’altro, la gravità della incongruenza emerge proprio dall’importo dei ricavi non dichiarati pari ad Euro 236.906,00 a fronte di quelli dichiarati per Euro 169.407,00, con uno scostamento di Euro 67.499,00, di notevole entità.
Invero, l’accertamento induttivo fondato sul mero divario, a prescindere dalla sua gravità, tra quanto dichiarato dal contribuente e quanto risultante dagli studi di settore è legittimo solo a decorrere dal 1 gennaio 2007, in base alla L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, comma 23, che non ha portata retroattiva, trattandosi di norma innovativa e non interpretativa, in quanto, con l’aggiunta di un inciso, ha soppresso il riferimento alle “gravi incongruenze”, prima operato tramite il rinvio recettizio al D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 62 sexies, comma 3, convertito, con modificazioni, nella L. 29 ottobre 1993, n. 427 (Cass. Civ., 17 dicembre 2014, n. 26481).
2. Con il secondo motivo di impugnazione il ricorrente si duole della “violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e art. 2729 c.c., nonchè dell’art. 115 c.p.c.”, in quanto il giudice di merito, limitandosi a rilevare l’antieconomicità dell’attività di impresa, in violazione dell’art. 2729 c.c., non si è pronunciato sull’elemento, pure acquisito al giudizio ai sensi dell’art. 115 c.p.c., costituito dalla cessazione dell’attività di impresa intervenuta al 31-12-2003. Inoltre, il contribuente ha adempiuto all’onere di provare, ai sensi dell’art. 2697 c.c., il fatto della intervenuta cessazione dell’attività di impresa.
2.1. Tale motivo è inammissibile.
Invero, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione: il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. Civ., 12 ottobre 2017, n. 24054).
Nella specie, quindi, il ricorrente, pur incentrando formalmente le sue censure su una pretesa violazione di legge, in realtà ha contestato la motivazione della decisione del giudice di merito, che non avrebbe tenuto conto dell’elemento costituito dalla cessazione dell’attività al 31-12-2003.
3. Con il terzo motivo di impugnazione il ricorrente deduce “insufficiente motivazione anche in riferimento agli artt. 41 e 53 Cost.”, in quanto la motivazione della sentenza della Commissione regionale fondata sulla antieconomicità dell’attività di impresa, con un “modesto reddito” si scontra con il principio di insindacabilità delle scelte imprenditoriali e con quello della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., spettando alla amministrazione finanziaria fornire la prova di tale capacità contributiva, ma non con presunzioni carenti dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.
3.1. Tale motivo è infondato.
Invero, per giurisprudenza di legittimità consolidata, in tema di imposte sui redditi, la tenuta della contabilità in maniera formalmente regolare non è di ostacolo alla rettifica delle dichiarazioni fiscali e, in presenza di un comportamento assolutamente contrario ai canoni dell’economia, che il contribuente non spieghi in alcun modo, è legittimo l’accertamento su base presuntiva, ed il giudice di merito, per poter annullare l’accertamento, deve specificare, con argomenti validi, le ragioni per le quali ritiene che l’antieconomicità del comportamento del contribuente non sia sintomatico di possibili violazioni di disposizioni tributarie (Cass. Civ., 7 aprile 2017, n. 9084). Nella specie, peraltro, a fronte di un reddito di impresa di 5.518,00, risulta un reddito dei dipendenti pari ad Euro 44.332,00, con costi per carburante per Euro 72.839,00.
4. Con il quarto motivo di impugnazione il ricorrente deduce “omessa e/o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (ex art. 360 c.p.c., n. 5)”, avendo la Commissione regionale omesso di valutare l’elemento di prova costituito dalla cessazione dell’attività di impresa, intervenuta al 31-12-2003, appena un anno dopo l’emissione dell’avviso di accertamento. Inoltre, la Commissione non ha adeguatamente considerato le gravi patologie cardiovascolari del D., dichiarato inabile al lavoro nella misura del 67%. Non è stata, poi, considerata la assenza di “gravità” dello scostamento reddituale.
4.1. Tale motivo è infondato.
Invero, la Commissione regionale, con congrua ed analitica motivazione, ha spiegato le ragioni per cui le patologie del ricorrente non hanno inciso sulla produzione del reddito di impresa, in quanto l’impresa familiare era partecipata per il 49% dal coniuge e si avvaleva dell’apporto lavorativo del figlio, con una autonoma organizzazione, in grado di sopperire ad eventuali assenza del ricorrente.
Inoltre, in motivazione si chiarisce, con estrema precisione ed analiticità, che l’attività era antieconomica, in quanto il modesto reddito di esercizio pari ad Euro 5.518,00, era persino inferiore ai redditi da lavoro dipendenti, pari ad Euro 44.332.00.
Peraltro, i ricavi dichiarati in Euro 169.040,00, non erano congrui rispetto a costi sostenuti per il carburante pari ad Euro 72.839,00, ai costi per il personale dipendente (44.332,00).
Va, poi, evidenziato, in relazione alla mancata menzione dell’elemento della cessazione dell’attività di impresa, che il difetto di motivazione, nel senso di sua insufficienza, legittimante la prospettazione con il ricorso per cassazione del motivo previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), è configurabile soltanto quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito e quale risulta dalla sentenza stessa impugnata emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero quando è evincibile l’obiettiva deficienza, nel complesso della sentenza medesima, del procedimento logico che ha indotto il predetto giudice, sulla scorta degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati, poichè, in quest’ultimo caso, il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito che tenderebbe all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione. In ogni caso, per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi (come accaduto nella specie) le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in tal caso ritenere implicitamente disattese tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (Cass. Civ., 2007/2272).
5.Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico del ricorrente, in ragione della soccombenza, e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente a rimborsare in favore dell’Agenzia delle Entrate le spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi Euro 2.600,00, oltre spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 18 settembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2018