LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PERRINO Angelina Maria – Presidente –
Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –
Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –
Dott. MENGONI Enrico – Consigliere –
Dott. FANTICINI Giovanni – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 22882-2011 proposto da:
P.S., G.M.C., P.L., elettivamente domiciliati in ROMA STUDIO ROMAGNOLI VIA R. ROMEI 43, presso lo studio dell’avvocato SIMONA MARTINELLI, rappresentati e difesi dall’avvocato SILVIO GAROFALO;
– ricorrenti –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE UFFICIO DI AVELLINO;
– intimata –
e contro
AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;
– resistente con atto di costituzione –
avverso la sentenza n. 240/2010 della COMM.TRIB.REG CAMPANIA SEZ. DIST. di SALERNO, depositata il 21/06/2010;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 19/09/2018 dal Consigliere Dott. GIOVANNI FANTICINI.
FATTO E DIRITTO
Rilevato che:
– con sentenza n. 130/06/10 del 21 giugno 2010, la C.T.P. di Avellino accoglieva il ricorso di P.G. avverso l’avviso di accertamento n. ***** di maggiori imposte IRPEF, IVA, IRAP per l’anno di imposta 1999: l’Agenzia aveva proceduto ad accertamento induttivo del maggior reddito in base a parametri presuntivi ex L. 28 dicembre 1995, n. 549, art. 3,commi 181 ss., e il contribuente lamentava che l’Amministrazione non aveva adeguatamente considerato i dati che lo stesso aveva fornito al fine di dimostrare la congruità delle proprie dichiarazioni fiscali;
– la C.T.R. deLLA Campania – Sez. staccata di Salerno, con la sentenza n. 240/5/10 del 21 giugno 2010, accoglieva parzialmente l’appello dell’Agenzia delle Entrate affermando, per quanto rileva in questa sede, che “il contribuente ha dimostrato di avere esercitato l’attività in un piccolo centro, di essere titolare di pensione, di avere selezionato i probabili clienti, di essere stato costretto a sospendere l’attività per alcuni periodi, stante la precarietà di salute che lo costringeva a cure e a controlli per cui sarebbe stata giustificata una riduzione del 50% sui compensi determinati dall’applicazione dei parametri di Lire 69.899.000 per un importo pari a Lire 34.949.000”;
– avverso tale decisione gli eredi di P.G. (deceduto durante l’appello) – P.L., P.S. e G.M.C. – propongono ricorso per cassazione, affidato a tre motivi;
– l’Agenzia delle Entrate non ha svolto difese nel grado di legittimità;
– i ricorrenti hanno depositato memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c..
Considerato che:
1. Col primo motivo i ricorrenti censurano la decisione d’appello per omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo introdotto dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2,applicabile ratione temporis, anteriore alla modifica apportata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134) perchè “se il giudice della sentenza appellata avesse esaminato i punti decisivi della controversia sopra descritti sarebbe giunto alla logica ed ineccepibile conclusione dell’annullamento dell’avviso di accertamento impugnato siccome la astratta applicazione dei parametri era contraddetta dai fatti sopra descritti di cui il giudice della sentenza aveva omesso di tenere conto”.
2. Il motivo è inammissibile.
Come si evince chiaramente dal testo del quesito formulato dai ricorrenti (secondo cui l’accertamento sarebbe “contraddetto dai dati di fatto rappresentati dal contribuente”, che, in subordine, avrebbero determinato una “assai più notevole riduzione dei maggiori ricavi presunti”), la censura non attiene alla mancanza di un’adeguata motivazione su uno specifico fatto controverso e decisivo per il giudizio, ma mira ad ottenere una rivalutazione delle circostanze dedotte (che il giudice d’appello dimostra – nella motivazione – di aver considerato al fine di operare la riduzione del maggior reddito accertato).
3. Col secondo motivo si deduce l’insufficienza (nonchè la contraddittorietà) della motivazione della sentenza impugnata in quanto il giudice d’appello avrebbe dovuto annullare l’avviso di accertamento in considerazione degli specifici elementi offerti e non soltanto ridurne l’ammontare.
Il motivo è inammissibile perchè, come il precedente, richiede a questa Corte di legittimità una nuova valutazione di merito (e, cioè, una riconsiderazione degli specifici elementi forniti dal contribuente per giustificare la congruità); rientra nei poteri del giudice di merito, tenuto conto del contrasto dei parametri con criteri di ragionevolezza o con altre circostanze fattuali, provvedere alla determinazione di un reddito presuntivo inferiore a quello indicato dall’amministrazione (senza dovere necessariamente annullare in toto l’accertamento).
4. Il terzo motivo censura la decisione per violazione e falsa applicazione (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) della L. n. 549 del 1995, art. 3, commi 181 e art. 184, D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39,artt. 2697 e 2729 c.c., per avere il giudice d’appello mancato di pronunciare l’annullamento dell’avviso di accertamento impugnato in mancanza di prova, da parte dell’Agenzia, della concreta applicabilità dei parametri individuati e dell’esplicitazione delle ragioni in base alle quali erano state disattese le contestazioni del contribuente.
5. Il motivo è infondato.
Infatti, non incombe sull’Agenzia l’onere di dimostrare l’applicabilità dei parametri presuntivi impiegati: “L’ufficio che procede ad accertamento dell’imposta sui redditi ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), avvalendosi, ai sensi della L. n. 549 del 1995, art. 3, comma 181, dei parametri per la determinazione presuntiva dei ricavi, dei compensi e del volume d’affari previsti dal successivo comma 184, e poi specificati dal D.P.C.M. 29 gennaio 1996, non deve apportare alcun elemento atto a confortare il proprio diverso accertamento, perchè quelli considerati nell’elaborazione dei parametri stessi e l’applicazione di questi ai dati esposti dal singolo contribuente hanno già i caratteri della presunzione legale, quali richiesti dall’art. 2728 c.c., comma 1 e sono, di per sè, idonei a fondare un corrispondente accertamento, restando comunque consentito al contribuente di provare, anche con presunzioni, la cui valutazione è rimessa al prudente apprezzamento del giudice, l’inapplicabilità dei parametri alla sua posizione reddituale” (Cass., Sez. 5, Sentenza n. 10242 del 26/04/2017, Rv. 643929-01).
Al contrario, per contestare l’accertamento induttivo il contribuente è tenuto a dimostrare la sussistenza di circostanze di fatto tali da allontanare la sua attività dal modello normale al quale i parametri fanno riferimento, sì da giustificare un reddito inferiore a quello che sarebbe stato normale secondo la procedura di accertamento tributario standardizzato; tale attività è stata svolta in questo giudizio, nel corso del quale sono state esaminati e valutati, con apprezzamento riservato al giudice di merito, gli specifici elementi dedotti dal P..
6. In conclusione, il ricorso è rigettato.
Non occorre provvedere sulle spese poichè l’intimata non ha svolto difese in questo grado.
P.Q.M.
La Corte:
rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Quinta Civile, il 19 settembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2018