Corte di Cassazione, sez. Unite Civile, Ordinanza n.11929 del 07/05/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAMMONE Giovanni – Primo Presidente –

Dott. SPIRITO Angelo – Presidente di sez. –

Dott. TIRELLI Francesco – Presidente di sez. –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. CONTI Roberto Giovanni – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10257-2017 proposto da:

AUTORITA’ GARANTE DELLA CONCORRENZA E DEL MERCATO, in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;

– ricorrente –

contro

OVB CONSULENZA PATRIMONIALE S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA P.L. DA PALESTRINA 47, presso lo STUDIO LCA, rappresentata e difesa dagli avvocati FILIPPO LATTANZI, ALBINA CANDIAN ed ANNALISA BASSI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4266/2016 del CONSIGLIO DI STATO, depositata il 14/10/2016;

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 12/03/2019 dal Consigliere ROBERTO GIOVANNI CONTI.

FATTI DI CAUSA

Il Tar del Lazio, con sentenza n. 5519/2015, decidendo il ricorso proposto dalla società OVB Consulenza Patrimoniale s.r.l. avverso la deliberazione con la quale l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (di seguito, breviter, AGCM) aveva disposto il divieto di ulteriore diffusione del messaggio pubblicitario contenuto in un depliant intitolato “Bellissima E’ quasi già come quella dei miei sogni” in quanto integrante un’ipotesi di pubblicità ingannevole compiuta in violazione degli artt. 19,20 e 21 Codice del consumo e la contestuale irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria di Euro 27.100, annullava l’atto impugnato e condannava l’AGCM al risarcimento dei danni reputazionali, di immagine e patrimoniali da lucro cessante subiti dalla società OVB, liquidandoli in via equitativa in Euro 50.000,00.

Il Consiglio di Stato, con sentenza n. 4266/2016, pubblicata il 14 ottobre 2016, in parziale riforma della decisione di primo grado, riduceva l’ammontare del risarcimento dei danni a favore della società OVB, rideterminandolo in misura pari ad Euro 12.500,00.

Il Consiglio di Stato osservava che il Tar, nel rilevare la natura non pubblicitaria e il carattere non ingannevole del messaggio, non si fosse indebitamente sostituito all’AGCM nell’esercizio di funzioni riservate a quest’ultima, avendo svolto una consentita verifica dei presupposti di fatto posti a base della decisione sanzionatoria, in linea con la giurisprudenza di quello stesso Consesso e di queste Sezioni Unite.

Ciò escludeva che la sentenza impugnata avesse oltrepassato i limiti esterni della giurisdizione del giudice amministrativo. Il Consiglio di Stato riteneva, invece, pertinenti i rilievi espressi dall’appellante in ordine al carattere pubblicitario del depliant ed all’ingannevolezza del messaggio, risultando dall’esame del prospetto elementi plurimi dai quali desumere non solo la natura pubblicitaria del volantino, ma altresì il carattere ingannevole del messaggio. Tali circostanze non erano tuttavia in grado di sovvertire il giudizio di annullamento dell’atto pronunziato dal Tar, in mancanza della prova della diffusione del messaggio tra i consumatori.

A dire del Consiglio di Stato era infatti emersa processualmente “una diffusione comprovatamente circoscritta a un episodio singolo in Bolzano e quindi di entità modestissima, il che vale tra l’altro a corroborare il profilo d’illegittimità della delibera per insufficiente istruttoria sul punto.”

Secondo il giudice amministrativo di appello la nozione di pubblicità desumibile dal D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 20 nella versione antecedente alle modifiche apportate con il D.Lgs. n. 146 del 2007, rinviando a “qualsiasi forma di messaggio che sia diffuso” richiedeva, quale elemento costitutivo del messaggio pubblicitario, la diffusione dello stesso. E poichè dall’istruttoria svolta dall’Autorità era emersa unicamente la denunzia di un’associazione di consumatori circa l’utilizzo del messaggio in occasione di una consulenza finanziaria fuori dai locali commerciali dell’impresa in Bolzano, essendo rimaste prive di riscontro le ulteriori segnalazioni ricevute dall’associazione consumeristica, l’elemento della diffusione non poteva dirsi provato dall’Autorità, con conseguente illegittimità del provvedimento irrogato.

Aggiungeva, inoltre, il Consiglio di Stato che, quand’anche si fosse voluto considerare e valorizzare l’episodio singolo del depliant utilizzato a Bolzano, le valutazioni non sarebbero potute essere dissimili, in quanto il carattere unitario ed isolato dell’episodio non poteva integrare una pratica commerciale scorretta, risultando esso di scarsa significatività, come chiarito da Cons. Stato, VI, 21 settembre 2011, n. 5297.

Passando all’esame della censura relativa alla statuizione di condanna al risarcimento del danno, il Consiglio di Stato riteneva che il danno legittimamente accertato andasse tuttavia ridotto equitativamente.

Secondo il giudice di appello andavano, infatti, pienamente condivise le affermazioni del primo giudice in ordine all’inquadramento della fattispecie nello schema della responsabilità aquiliana, nonchè alla necessità dell’elemento soggettivo della colpa e all’accertata illegittimità del provvedimento impugnato quale elemento presuntivo di colpevolezza in capo all’Autorità. Specificava, inoltre, che l’accertata illegittimità del provvedimento costituiva “un elemento dal quale deriva una presunzione di colpa in capo alla P. A. e che l’onere probatorio gravante sul richiedente può ritenersi assolto con l’indicazione dell’illegittimità del provvedimento, potendo riconoscersi in capo all’amministrazione l’onere di provare l’assenza di colpa attraverso l’errore scusabile” e che, nel caso di specie, non era dunque necessario una violazione “grave e manifesta” del diritto, venendo in rilievo, – non risultando comprovata un’effettiva diffusione dell’opuscolo “Bellissima” -, la presunzione di colpa non sovvertita da alcun errore scusabile dell’Autorità.

Rilevava, ancora, quanto al nesso causale tra i contenuti sanzionatori ed inibitori del provvedimento impugnato e la cessazione dell’attività di intermediazione finanziaria – assicurativa svolta dalla società, avvenuta nel 2008 in concomitanza con l’adozione e la pubblicazione della delibera contestata, che “sulla base di una valutazione probabilistica il collegamento causale anzidetto sussista e che la progressiva riduzione dell’attività di OVB a partire dal 2006 non sia tale da “spezzare” il nesso causale suindicato.” E ciò tanto sotto il profilo del danno da lucro cessante, che in relazione al danno reputazionale e di immagine.

Accertata la possibilità di ricorrere alla liquidazione equitativa sulla base dei principi fissati da questa Corte – Cass. n. 17752/2015 il Consiglio di Stato riduceva in misura significativa la liquidazione del pregiudizio – quantificato in Euro 12.500,00 comprensivo della lesione all’immagine – operata in primo grado, avuto riguardo alla comunque conclamata natura pubblicitaria ed ingannevole del messaggio ed alla circostanza che la crisi del mercato immobiliare del 2008, pur non ponendosi come elemento interruttivo del nesso causale, era idonea ad attenuare la riconducibilità della cessazione dell’attività di intermediazione all’emanazione della Delib. dell’AGCM.

L’Autorità garante della Concorrenza e del Mercato ha proposto ricorso alle Sezioni Unite ai sensi degli artt. 110 c.p.a. e art. 362 c.p.c., comma 1, articolato in due motivi, al quale ha resistito la OVB con controricorso. La ricorrente e la controricorrente hanno altresì depositato memorie.

La causa è stata decisa all’udienza in camera di consiglio del 12.3.2019.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. L’AGCM deduce, con il primo motivo, l’illegittimità della decisione impugnata per eccesso di potere giurisdizionale sotto un duplice profilo.

1.1. La ricorrente, premessa la ricognizione del vizio dell’eccesso di potere giurisdizionale alla luce della giurisprudenza di queste Sezioni Unite, incentrata sul canone dell’effettività della tutela giurisdizionale, deduce che il Consiglio di Stato avrebbe, da un lato, invaso la sfera di discrezionalità riservata all’amministrazione attraverso una valutazione autonoma della fattispecie allo stesso non consentita. Il giudice di appello non si sarebbe limitato ad esaminare il provvedimento dell’AGCM alla stregua dei motivi di doglianza proposti dalla ricorrente, invadendo il campo riservato all’amministrazione attraverso l’individuazione di una nozione di pubblicità fondata solo sul primo periodo del D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 20,comma 1, lett. a) ratione temporis vigente.

1.2. Inoltre, il giudice amministrativo avrebbe tralasciato di considerare che il termine “diffusione”, contemplato dalla anzidetta disposizione, si riferirebbe pacificamente all’esercizio dell’attività del professionista e non alla necessità che lo stesso fosse diffuso presso il pubblico, concretamente inserendo nella disciplina di settore presupposti di applicazione del tutto assenti nella norma nazionale e comunitaria. Inoltre, secondo la ricorrente, la riconducibilità o meno di un determinato messaggio all’alveo del concetto di pubblicità rappresenterebbe una valutazione di carattere discrezionale e tecnica riservata all’amministrazione, sicchè il Consiglio di Stato, invece di sindacare la ragionevolezza e correttezza del ragionamento condotto dall’amministrazione nel ritenere integrati i presupposti della definizione di pubblicità, si sarebbe surrettiziamente alla stessa sostituito, giungendo ad una valutazione del tutto diversa fino al punto di individuare una definizione nuova di pubblicità.

1.3. Aggiunge, ancora, la ricorrente che la ricostruzione operata dal Consiglio di Stato in ordine alla definizione di pubblicità contrasterebbe con quanto previsto dall’abrogato D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 26, comma 6 all’epoca vigente, ponendosi altresì in frizione con i principi espressi dalla Corte di giustizia con le sentenze dell’11 luglio 2013 (C-657/11) e del 25 ottobre 2001(C-112/99).

1.4. L’Autorità deduce, altresì, che il Consiglio di Stato, nel ritenere che l’unicità del messaggio ed il suo carattere circoscritto quanto alla diffusione escludevano la natura di pratica commerciale scorretta, avrebbe svolto una valutazione alternativa sulla consistenza della diffusione della pubblicità da quella operata tanto dall’AGCM nel provvedimento impugnato – circa la natura ingannevole della pubblicità – che dal Tar Lazio con la sentenza di primo grado-secondo il quale il depliant era mero documento interno non ingannevole -, indebitamente superando gli ambiti riservati all’Autorità. Il Consiglio di Stato avrebbe, in tal modo, imboccato una “terza via”, indebitamente sostituendosi alle valutazioni riservate all’amministrazione.

2. Con il secondo profilo censorio la ricorrente prospetta il vizio di eccesso di potere giurisdizionale per invasione di un campo riservato alla potestà del legislatore. Il Consiglio di Stato, nel ritenere che il privato potesse invocare la responsabilità della p.a. in relazione all’illegittimità del provvedimento, considerata come indice presuntivo dell’elemento soggettivo, avrebbe tralasciato di considerare l’evoluzione giurisprudenziale culminata non solo nell’abbandono della presunzione assoluta di colpa realizzata dalla sentenza n. 500/1999 e dalla L. n. 205 del 2000, ma anche nella riconducibilità del risarcimento del danno ad un’indagine non limitata all’accertamento dell’illegittimità dell’atto, ma estesa alla colpa evincibile dall’esecuzione dell’atto illegittimo in violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione. Secondo la ricorrente non sarebbe ipotizzabile nè una condotta illecita nè un danno ingiusto collegabile al provvedimento impugnato, in assenza di un’accurata valutazione del rapporto di causalità che pure sarebbe mancata da parte del Consiglio di Stato – non avendo la società OVB nemmeno curato di assolvere all’onere di provare l’esistenza del danno risarcibile -. Il Consiglio di Stato, peraltro, avrebbe valorizzato ai fini del danno all’immagine, la divulgazione di un comunicato stampa reso da parte di un soggetto terzo e non dell’Autorità. In definitiva, il riconoscimento della responsabilità dell’AGCM in assenza di verifica circa il nesso di causalità avrebbe integrato una nuova forma di responsabilità civile oggettiva per fatto commesso da un terzo.

3. Le censure sono infondate sotto tutti i profili prospettati, non risultando che il Consiglio di Stato abbia travalicato i limiti esterni della giurisdizione esclusiva nell’ambito dei provvedimenti adottati dall’AGCM, dovendosi dunque escludere che la sentenza qui impugnata abbia dato luogo ad un eccesso di potere giurisdizionale secondo i profili analiticamente esposti dalla ricorrente.

3.1 Giova in via assolutamente preliminare premettere che, secondo il consolidato orientamento di queste Sezioni unite, le decisioni del giudice amministrativo sono viziate per eccesso di potere giurisdizionale e, quindi, sindacabili per motivi inerenti alla giurisdizione, laddove detto giudice, eccedendo i limiti dei riscontro di legittimità del provvedimento impugnato e sconfinando nella sfera del merito, riservato alla P.A., compia una diretta e concreta valutazione della opportunità e della convenienza dell’atto, ovvero quando la decisione finale, pur nel rispetto della formula dell’annullamento, esprima la volontà dell’organo giudicante di sostituirsi a quella dell’Amministrazione, così esercitando una giurisdizione di merito in situazioni che avrebbero potuto dare ingresso soltanto a una giurisdizione di legittimità (dunque, all’esercizio di poteri cognitivi e non anche esecutivi) o esclusiva, o che comunque ad essa non avrebbero potuto dare ingresso (Cass., S.U., 27 dicembre 2017 n. 30974; Cass., S.U., 3 giugno 2015, n. 11375; Cass., S.U., 9 novembre 2011, n. 23302).

3.2. Parimenti consolidata risulta essere l’affermazione per cui ogni sindacato sul modo di esercizio della funzione giurisdizionale e, dunque, sugli errori in iudicando e in procedendo, esorbita dai confini dell’astratta valutazione di sussistenza degli indici definitori della materia ed attiene all’accertamento della fondatezza o meno della domanda (tra le molte, Cass., S.U., 18 gennaio 2005, n. 847, Cass., S.U., 16 febbraio 2009, n. 3688; Cass., S.U., 23 luglio 2015, n. 15476; Cass., S.U., 29 dicembre 2017, n. 31226; Cass., S.U., 27 aprile 2018, n. 10264). Sicchè è da escludere che possa dar luogo alla violazione dei limiti esterni alla giurisdizione il vizio di ultrapetizione (Cass., S.U., 22 aprile 2013, n. 9687), risolvendo nella prospettazione di un error in procedendo.

3.3. A questi principi di carattere generale occorre affiancare quelli espressi in ordine ai limiti sul controllo giurisdizionale relativo ai provvedimenti resi dalle Autorità indipendenti – con peculiare rilievo agli atti sanzionatori di tali Autorità rientranti nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo – fatta eccezione per le controversie in materia di sanzioni irrogate dalla Consob e dalla Banca d’Italia riservate alla giurisdizione ordinaria (Corte Cost. n. 162/2012, Corte Cost. n. 94/2014) -. Provvedimenti sanzionatori, quelli adottati dalle Autorità indipendenti, che sono stati a volte considerati come una species dotata di caratteristiche in parte peculiari rispetto al genus del provvedimento amministrativo, venendo in gioco le valutazioni per di più di natura tecnico discrezionale espresse dall’Autorità in sede di accertamento ed irrogazione delle sanzioni. Ciò che accade, ad esempio, proprio per le sanzioni applicate dall’AGCM, istituita con la L. 10 ottobre 1990, n. 287, a quest’ultima spettando anche il compito di accertare e sanzionare le ipotesi di alterazione del libero confronto competitivo tra le imprese che si manifestano sotto forma di intese anticoncorrenziali (art. 2) e di abusi di posizione dominante (art. 3).

3.4. Orbene, il Consiglio di Stato ha in varie occasioni ritenuto di potere effettuare un controllo in sede giurisdizionale dei fatti posti a fondamento dei provvedimenti sanzionatori delle Autorità indipendenti – Cons. Stato, 6 maggio 2014, n. 2302; Cons. Stato, 24 febbraio 2016, nn. 743 e 744 – ritenendo che l’accesso al fatto non possa subire alcuna limitazione anche in relazione ad ipotesi complesse, caratterizzate da particolare tecnicismo (Cons. Stato, 2 ottobre 2015, n. 4616).

3.6. Inoltre, secondo il Consiglio di Stato il g.a. è legittimato a sindacare senza alcun limite tutte le valutazioni tecniche – attraverso la contestualizzazione dei concetti indeterminati rilevanti ed il confronto tra il fatto concreto ed il concetto indeterminato rilevante (Cons. Stato n. 2199/2002) – risultando il relativo sindacato pieno e particolarmente penetrante, fino ad estendersi al controllo dell’analisi economica o di altro tipo – anche di fatti complessi opinabili (Cons. Stato n. 4616/2015, Cons. Stato, n. 2302/2014) compiuta dall’Autorità, potendo sia rivalutare le scelte tecniche compiute da quest’ultima, sia “applicare la corretta interpretazione dei concetti giuridici indeterminati alla fattispecie concreta in esame” -Cons. Stato, 8 febbraio 2007, n. 515. V., conf., Cons. Stato, 29 settembre 2009, n. 5864, ove si è dato atto che la giurisdizione amministrativa di ultima istanza, a partire da Cons. Stato, VI, n. 926/2004 e Cons. Stato n. 597/2008, “…ha inteso abbandonare la terminologia, utilizzata in precedenza, “sindacato forte o debole”, per porre l’attenzione unicamente sulla ricerca di un sindacato, certamente non debole, tendente ad un modello comune a livello comunitario, in cui il principio di effettività della tutela giurisdizionale sia coniugato con la specificità di controversie, in cui è attribuito al giudice il compito non di esercitare un potere in materia antitrust, ma di verificare – senza alcuna limitazione – se il potere a tal fine attribuito all’Autorità antitrust sia stato correttamente esercitato. Tale ultimo orientamento esclude limiti alla tutela giurisdizionale dei soggetti coinvolti dall’attività dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, individuando quale unica preclusione l’impossibilità per il giudice di esercitare direttamente il potere rimesso dal legislatore all’Autorità”.

3.7. In modo ancora più esplicito a proposito del carattere pieno della giurisdizione del giudice amministrativo Cons. Stato n. 1596/2015, prendendo le mosse dalla giurisprudenza della Corte Edu – Corte edu, 27 novembre 2011, Menarini Diagnostic s.r.l. c. Italia (in materia di sanzioni applicate dall’AGCM) e Corte Edu, 4 marzo 2014, Grande Stevens c. Italia (in tema di sanzioni applicate dalla Consob) – ha ritenuto che “Nei casi in cui, come accade negli ordinamenti di molti Stati membri, il procedimento amministrativo non offra garanzie equiparabili a quelle del processo giurisdizionale, allora l’art. 6, par. 1 CEDU postula che l’interessato che subisce la sanzione abbia la concreta possibilità di sottoporre la questione relativa alla fondatezza dell’accusa penale contro di lui mossa ad un organo indipendente e imparziale dotato del potere di esercitare un sindacato di full jurisdiction. Il sindacato di full jurisdiction implica, secondo la Corte Europea dei diritti dell’uomo, il potere del giudice di sindacare la fondatezza, l’esattezza e la correttezza delle scelte amministrative così realizzando, di fatto, un continuum tra procedimento amministrativo e procedimento giurisdizionale” – par.18 sent. ult. cit. –

3.8. Orbene, le Sezioni Unite di questa Corte hanno avuto modo di pronunziarsi sui limiti esterni del sindacato del g.a. in tema di provvedimenti sanzionatori adottati dalle Autorità di concorrenza, al fine di verificare se l’incisiva verifica giurisdizionale esercitata nei termini declinati dal Consiglio di Stato risulti lesiva dei limiti esterni della giurisdizione, in quanto idonea a invadere le prerogative proprie dell’Autorità.

3.9. In questo contesto Cass., S.U., n. 1013/2014 ha chiarito che se al giudice amministrativo non è consentito sostituirsi all’Autorità nelle attività di accertamento ed applicazione della legge con un proprio provvedimento, nondimeno il sindacato giurisdizionale non può dirsi limitato ai profili giuridico-formali dell’atto amministrativo. E’, infatti, la necessità di una tutela giurisdizionale piena a richiedere che anche le eventuali contestazioni in punto di fatto debbano esser risolte dal giudice, quando da tali contestazioni dipenda la legittimità del provvedimento amministrativo che ha inciso sulla posizione giuridica del soggetto.

3.10. Tali principi sono stati poi completati da questa S.U. affermando che quando entra in gioco una valutazione di natura tecnica operata dall’Autorità garante la verifica del giudice, inserendosi pur sempre in un sindacato di legittimità e non di merito, è destinata ad arrestarsi sul limite oltre il quale la stessa opinabilità dell’apprezzamento operato dall’amministrazione impedisce d’individuare un parametro giuridico che consenta di definire quell’apprezzamento illegittimo – v. ancora, testualmente, Cass., S.U., n. 1013/2014, con riguardo alla nozione di mercato rilevante ai fini dell’accertamento degli effetti anticoncorrenziali dell’intesa, all’interno di una controversia nella quale si era discusso della legittimità di un’intesa restrittiva della concorrenza -.

3.11. In questa stessa prospettiva, più recentemente, Cass., S.U., n. 30974/2017 ha ribadito che la non estensione al merito del sindacato giurisdizionale sugli atti dell’Autorità Garante implica che il giudice non possa sostituire con un proprio provvedimento quello adottato da detta Autorità, ma non che il sindacato sia limitato ai profili giuridico-formali dell’atto amministrativo, restandone esclusa ogni eventuale verifica dei presupposti di fatto, ” (…) in quanto la pienezza della tutela giurisdizionale necessariamente comporta che anche le eventuali contestazioni in punto di fatto debbano esser risolte dal giudice, quando da tali contestazioni dipenda la legittimità del provvedimento amministrativo che ha inciso su posizioni di diritto soggettivo”.

3.12. Nè può dubitarsi che la tendenza verso un sindacato giurisdizionale pieno sì, ma non integralmente sostitutivo delle prerogative riservate all’Autorità, del resto condivisa dal Consiglio di Stato – Cons. Stato, 15 maggio 2015 n. 2479, p.8 e Cons. Stato, 30 giugno 2016 n. 2947, p.13 – abbia trovato un’importante conferma in sede legislativa allorchè, nel recepire la direttiva 2014/104/EU e nel riconoscere il carattere vincolante delle decisioni antitrust definitive nei giudizi civili di risarcimento, il legislatore ha fra l’altro affermato che “Il sindacato del giudice del ricorso comporta la verifica diretta dei fatti posti a fondamento della decisione impugnata e si estende anche ai profili tecnici che non presentano un oggettivo margine di opinabilità, il cui esame sia necessario per giudicare la legittimità della decisione”, in tal modo normativizzando parte dei principi espressi dalle Sezioni Unite nella ricordata sentenza n. 1013/2014, a proposito della riserva comunque garantita all’Autorità in tema di valutazioni tecnico discrezionali.

3.13. In definitiva, la prospettiva segnata da queste Sezioni Unite, orientata a garantire un corretto bilanciamento fra le esigenze di un organo appositamente costituito per valutare l’incidenza di comportamenti scorretti in ambiti nevralgici della vita socioeconomica del paese e per ciò stesso dotati di qualificate strutture tecniche ed i diritti dei soggetti sottoposti alle attività di verifica e controllo delle Autorità, tende sicuramente a salvaguardare una sfera di valutazione dell’Autorità alla quale il giudice non può sostituirsi integralmente quando essa involge aspetti di natura tecnico-discrezionale, senza che ciò possa tuttavia giustificare la sottrazione dell’Autorità stessa ad un controllo giurisdizionale di natura piena ed effettiva, direttamente conseguente alla pienezza delle posizioni giuridiche soggettive coinvolte.

3.14. Si tratta, a questo punto, di applicare i risultati testè esposti al caso di specie, nel quale vengono in rilievo le sanzioni applicate dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato, secondo il quadro normativo vigente all’epoca del provvedimento irrogato – D.Lgs. n. 206 del 2005, nella versione anteriore alle modifiche apportate al D.Lgs. n. 146 del 2007, artt. 18 al 27 e dal D.Lgs. n. 145 del 2007 – nei confronti dei soggetti che esercitano un’attività commerciale utilizzando pubblicità ingannevole.

3.15. Orbene, le censure dell’Autorità ricorrente si appuntano sul dedotto sconfinamento del controllo giurisdizionale da parte del Consiglio di Stato che si sarebbe sostituito nelle valutazioni dell’Autorità in ordine al carattere del messaggio pubblicitario tanto in punto di diffusione dello stesso – al punto di ricostruire una nozione di pubblicità diversa da quella normativamente determinata – quanto soprattutto sulla ponderazione della rilevanza di un singolo messaggio ai fini della configurabilità di una pratica scorretta, in tal modo travalicando i limiti esterni della giurisdizione e per di più intraprendendo una terza via, diversa dalla posizione processuale delle parti e dello stesso giudice di primo grado.

3.16. Orbene, tali censure sono sotto tutti i profili destituite di fondamento.

3.17. Ed invero, il motivo censorio si appunta su un vero e proprio error iuris nel quale sarebbe incorso il giudice amministrativo valorizzando un elemento – quello della diffusione della pubblicità che, a dire della ricorrente, sarebbe estraneo al parametro normativo rilevante – D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 20 -.

3.18. Ora, la sentenza del Consiglio di Stato, nel ritenere illegittimo il provvedimento sanzionatorio adottato in assenza del carattere diffusivo del messaggio, non ha in alcun modo travalicato la sfera riservata all’amministrazione nell’attività di individuazione della condotta di pubblicità scorretta, avendo proceduto all’individuazione dei fatti posti a base del provvedimento, alle valutazione delle prove fornite dall’amministrazione in ordine al contenuto diffusivo del messaggio sulla base dell’interpretazione del concetto giuridico di pubblicità e della clausola della diffusione del messaggio espressa dal legislatore del tempo all’interno del D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 20, comma 1 senza che tale sindacato abbia riguardato valutazioni di natura economica o comunque ambiti di discrezionalità tecnica riservati in via esclusiva all’Autorità.

3.19. Si è, in definitiva, trattato di un sindacato giurisdizionale pieno ed approfondito, puntualmente rivolto all’individuazione dei presupposti di fatto sottesi all’adozione del provvedimento sanzionatorio correlato ad un messaggio pubblicitario che, per essere passibile di sanzione, presupponeva la qualificazione in termini di illiceità del messaggio pubblicitario ingannevole “ai sensi della presente sezione” – come recitava il D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 26,comma 2 – “sulla base di elementi probatorio idonei a conclamare l’esistenza di una pubblicità ingannevole”. Evenienza, quest’ultima, esclusa dal giudice amministrativo, senza in alcun modo travalicare il potere riservato all’Autorità.

3.20. La contestazione esposta dall’Autorità si risolve, pertanto, nella postulata erroneità della qualificazione giuridica del concetto di pubblicità che sarebbe stata operata dal Consiglio di Stato che, tuttavia, non attiene ai limiti esterni della giurisdizione del giudice amministrativo riguardando, per converso, i limiti interni riservati a quel plesso giurisdizionale.

3.21. In definitiva, il giudice amministrativo si è pienamente attenuto al sindacato pieno al medesimo riservato in materia e non si è affatto sostituito all’autorità ricostruendo un’ipotesi alternativa di pubblicità scorretta rispetto a quella presa a modello dall’Autorità stessa.

3.22. Parimenti destituito di fondamento risulta, pertanto, il rilievo concernente la dedotta “terza via” che il Consiglio di Stato avrebbe intrapreso nell’annullare il provvedimento pur riconoscendo la natura pubblicitaria ed ingannevole del messaggio sulla base del deficit relativo alla diffusività mai indicato dai ricorrenti e dal Tar Lazio – che, per la verità, vi aveva invece fatto esplicito riferimento al punto 5.2.2 della sentenza di primo grado -. Ed infatti, anche tale aspetto della censura non attiene al sindacato riservato a queste Sezioni Unite sui vizi di natura processuale della sentenza resa dal giudice amministrativo e si risolve in una contestazione dell’attività di verifica dei presupposti giustificativi della sanzione irrogata dall’Autorità legittimamente compiuta dal giudice amministrativo.

3.23. Anche sotto questo profilo non vi è dunque alcun margine per affermare un sindacato rispetto ai limiti interni alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, avuto riguardo alla consolidata giurisprudenza di queste Sezioni Unite – cfr., ex plurimis, Cass., S.U., 5 febbraio 2018, n. 2720; Cass., S.U., 2 febbraio 2018, n. 2582; Cass., S.U., 12 maggio 2017, n. 11805 -.

4. La seconda censura – sempre collegata al prospettato vizio di eccesso di potere giurisdizionale – relativa alla condanna al risarcimento del danno da responsabilità extracontrattuale della P.A. è anch’essa destituita di fondamento riguardando, in realtà, ancora una volta un ipotetico error iuris nel quale sarebbe incorso il giudice amministrativo nel ricostruire la responsabilità extracontrattuale a carico dell’Autorità.

4.1. Ed invero, il Consiglio di Stato ha fatto applicazione dei principi espressi in materia a partire dalla sentenza n. 500/99 di queste Sezioni Unite, valorizzando quanto alla valutazione della colpa, la semplice prova dell’illegittimità dell’atto amministrativo, a tal fine ritenuta sufficiente in assenza della prova, da parte dell’Autorità, di un errore scusabile.

4.2. Tutto ciò non può in alcun modo integrare uno straripamento del giudice amministrativo nei territori riservati al potere legislativo, sostanziandosi la censura in una contestazione delle valutazioni poste a base del giudizio di responsabilità dell’Autorità operate dal Consiglio di Stato tanto sul versante della riconducibilità della cessazione dell’attività della ricorrente all’ingannevolezza del messaggio, quanto su quello dell’individuazione e quantificazione del danno risarcibile liquidato in via equitativa in diminuzione rispetto al quantum riconosciuto dal giudice di primo grado. Conclusione, quest’ultima, pienamente in linea con i principi – già in parte sopra rammentati – giusti i quali l’inesatta applicazione di una norma di legge da parte del giudice amministrativo integra, al più, un “error in iudicando”, ma non dà luogo alla creazione di una norma inesistente, comportante un’invasione della sfera di attribuzione del potere legislativo sindacabile dalla Corte di cassazione ai sensi dell’art. 362 c.p.c., comma 1, – cfr., ancora, Cass., S.U., n. 16974 del 27/06/2018 -.

5. Sulla base di tali considerazioni, il ricorso va rigettato.

6. Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna l’Autorità garante della concorrenza e del mercato al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in favore della controricorrente in Euro 3.500,00 per compensi, oltre Euro 200,00 per esborsi.

Così deciso in Roma, dalle Sezioni Unite, il 12 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 7 maggio 2019

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