LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –
Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Consigliere –
Dott. MELONI Marina – rel. Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 11789/2018 proposto da:
K.M., elettivamente domiciliato in Roma, Viale dell’Università n. 11, presso lo studio dell’avvocato Benzi Emiliano, rappresentato e difeso dall’avvocato Ballerini Alessandra, giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
Procura Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello Di Genova;
– intimato –
avverso la sentenza n. 1604/2017 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, del 14/12/2017;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 21/03/2019 dal Cons. Dott. MELONI MARINA.
FATTI Dl CAUSA La Corte di Appello di Genova con sentenza in data 14/12/2017, ha rigettato il ricorso proposto da K.M. nato in *****, volto, in via gradata, ad ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato, del diritto alla protezione sussidiaria ed il riconoscimento del diritto alla protezione umanitaria.
Il ricorrente aveva riferito alla Commissione Territoriale per il riconoscimento della Protezione Internazionale di Torino, sezione di Genova, di essere fuggito dal proprio paese per sottrarsi all’arresto da parte della polizia che lo cercava a causa di una infondata denuncia di furto da parte del suo datore di lavoro. Quest’ultimo infatti lo aveva accusato di aver sottratto alcune merci che invece erano state oggetto di furto da parte di terzi. Avverso la sentenza della Corte di Appello di Genova il ricorrente ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi.
Il Ministero dell’Interno non ha spiegato difese.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8,comma 3 e del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto la Corte di Appello di Genova ha totalmente omesso di attivare i poteri di cooperazione ufficiosa per accertare la sussistenza dei requisiti previsti per ottenere la concessione della protezione umanitaria.
Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5,comma 6, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto il Giudice Territoriale non aveva ravvisato i presupposti per la concessione della protezione umanitaria.
Il ricorso è infondato in ordine ad ambedue i motivi proposti i quali contengono tutta una serie di critiche agli accertamenti in fatto espressi nella motivazione della Corte territoriale che, come tali, si palesano inammissibili, in quanto dirette a sollecitare un riesame delle valutazioni riservate al giudice del merito, che del resto ha ampiamente e rettamente motivato la statuizione impugnata, esponendo le ragioni e le fonti del proprio convincimento.
La censura si risolve in una generica critica del ragionamento logico posto dal giudice di merito a base dell’interpretazione degli elementi probatori del processo e, in sostanza, nella richiesta di una diversa valutazione degli stessi, ipotesi integrante un vizio motivazionale non più proponibile in seguito alla modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 apportata dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito in L. n. 134 del 2012 (v. Cass., sez. un., n. 8053/2014).
La sentenza impugnata che ritiene anzitutto non credibili le dichiarazioni del ricorrente, ha ritenuto con motivazione coerente ed esaustiva l’assenza di situazioni di violenza indiscriminata e di una situazione di conflitto armato o di violenza generalizzata nel paese di provenienza del ricorrente, cioè il Mali escludendo così il diritto alla protezione sussidiaria ed umanitaria.
In ordine al dovere del giudice di attivare poteri officiosi di indagine, nella specie, la Corte territoriale ha adempiuto al dovere di cooperazione istruttoria officiosa che incombe sul giudice, così come previsto dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 e art. 27, comma 1 bis, in ordine all’accertamento della situazione oggettiva relativa al Paese di origine, avendo ritenuto, a monte, dopo aver consultato i siti internet delle organizzazioni internazionali maggiormente accreditate, che i fatti lamentati non costituiscano un ostacolo al rimpatrio nè integrino una minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona nei casi previsti dall’art. 14, lett. C) e cioè “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, tenuto anche conto della concreta possibilità di accesso alla protezione interna da pericoli derivanti da soggetti non statuali, non risultando dimostrata l’assenza di una tale tutela e l’incapacità dello Stato di origine del ricorrente di offrire adeguata protezione ai suoi cittadini. In ordine in particolare alla verifica delle condizioni per il riconoscimento della protezione umanitaria – al pari di quanto avviene per il giudizio di riconoscimento dello status di rifugiato politico e della protezione sussidiaria – il giudice anche avvalendosi dei poteri di cooperazione istruttoria officiosa, così come previsto dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, ha escluso con accertamento di fatto insindacabile in questa sede l’esistenza di una situazione di particolare vulnerabilità del ricorrente alla luce della disciplina antecedente al D.L. 4 ottobre 2018, n. 13, convertito nella L. 1 dicembre 2018, n. 132, non applicabile alla fattispecie non avendo tale normativa efficacia retroattiva secondo l’orientamento recentemente espresso da questa Corte (Cass. 19/2/2019 n. 4890).
Quanto poi al parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero è appena il caso di osservare che esso non integra da solo nè prima nè adesso, nel vigore della nuova normativa, motivo idoneo al riconoscimento del diritto dello straniero alla protezione umanitaria.
In ogni caso il ricorrente non solo non ha provato di aver trovato un lavoro in Italia, ma nemmeno ha allegato elementi che consentano di stabilire se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza (Cass. 4455/2018). Il ricorso proposto deve pertanto essere rigettato. Nulla per le spese in assenza di attività difensiva. Non ricorrono i presupposti per l’applicazione del doppio contributo di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, essendo il ricorrente stato ammesso al patrocinio a spese dello Stato.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Nulla spese.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima della Corte di Cassazione, il 21 marzo 2019.
Depositato in Cancelleria il 8 maggio 2019