Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.12257 del 09/05/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 28105-2016 R.G. proposto da:

B.G., e B.M.A., rappresentati e difesi dall’Avv.to Flaminio Sensi, con domicilio ex lege in Roma presso la Cancelleria della Corte di Cassazione;

– ricorrenti –

contro

O.A., rappresentato e difeso G.P.F., con domicilio eletto in Roma, via Pietro Borsieri n. 3, presso lo Studio di quest’ultimo;

– controricorrente –

e contro

M.A., T.F., T.E., nella qualità di eredi di T.G., titolare della Ditta individuale T.G. RESTAURI E IMPIANTISTICA, rappresentate e difese dall’Avv. Alfonso Di Benedetto, con domicilio eletto in Roma, via Isole del Capo Verde n. 26, presso lo Studio di quest’ultimo;

e contro

AVIVA ITALIA S.P.A., in persona del GII Director & COO, rappresentante legale pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. Maurizio Romagnoli, con domicilio etto in Roma, via Romeo Romei n. 27, presso lo Studio di quest’ultimo;

avverso la sentenza n. 5732/16 della Corte d’Appello di Roma, depositata il 29/09/2016.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 12 marzo 2019 dal Consigliere Dott. Marilena Gorgoni.

FATTI DI CAUSA

I proprietari, B.G. e M.A. e la conduttrice, D.M.G., dell’appartamento sito in *****, convenivano, dinanzi al Tribunale di Roma, C.M.U., proprietaria dell’appartamento sovrastante, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni derivanti dalla ristrutturazione dell’immobile di sua proprietà, quantificati quanto ai proprietari in Euro 50.000,00 e per la conduttrice in Euro 20.000,00.

La convenuta, oltre a contestare la legittimazione attiva della conduttrice, D.M.G., chiedeva che fosse accertava la responsabilità esclusiva della ditta T.G., esecutrice dei lavori, e di O.A., Direttore dei lavori e progettista; in riconvenzionale chiedeva che, accertata la precarietà del solaio divisorio tra i due appartamenti, i proprietari dell’appartamento sottostante fossero condannati all’esecuzione delle opere di rifacimento con assunzione del 50% dei relativi costi.

La Ditta T., per il tramite degli eredi del defunto titolare, negava ogni responsabilità e chiamava in manleva la Commercial Union SPA, poi Aviva SPA assicuratrice, la quale, costituitasi, contestava la ricorrenza di prove della responsabilità della Ditta T. e, in subordine, chiedeva la riduzione del 20% dell’indennizzo dovuto per tardiva comunicazione del sinistro.

Il Direttore dei lavori restava contumace.

Il Tribunale di Roma, espletata CTU, condannava C.M.U., gli eredi della Ditta T. nonchè il Direttore dei lavori al pagamento in solido, a favore dei proprietari, di Euro 128.254,85 ovvero di Euro 39.454,85, secondo che la Soprintendenza avesse considerato necessario il restauro del tavolato dipinto rinvenuto nel controsoffitto del salotto e, in aggiunta, al pagamento di Euro 3.000,00 a favore della conduttrice. Rigettava la domanda riconvenzionale. Accoglieva la domanda di manleva della convenuta nei confronti della ditta appaltatrice e del Direttore dei lavori. Condannava Aviva Italia SPA a tenere indenni le eredi della Ditta T.. Regolava la liquidazione delle spese di lite e di CTU, secondo il principio della soccombenza.

La sentenza veniva impugnata in via principale da C.M.U. e in via incidentale da O.A. nonchè dalle eredi della Ditta T. e dalla Società Aviva Italia.

La Corte d’Appello di Roma, con la sentenza oggetto dell’odierna impugnazione, n. 5732/2016, condannava C.M.U., le eredi della Ditta T. e il Direttore dei lavori al pagamento, in solido, a favore dei proprietari dell’appartamento danneggiato, della somma di Euro 33.311 o di Euro 80.733, comprensiva del restauro del tavolato, ove necessario; condannava gli eredi della Ditta T. e il Direttore dei Lavori a manlevare C.M.U.; condannava la società Aviva Italia al rimborso delle spese di lite affrontate dagli eredi della ditta assicurata, confermava la restante parte della sentenza gravata.

B.G. e M.A. ricorrono per la cassazione della sentenza, deducendo due motivi.

Resistono con autonomo controricorso le eredi della Ditta T., O.A., Direttore dei Lavori, Aviva Italia S.p.a..

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), in relazione agli artt. 112 e 324 c.p.c. e per violazione dell’art. 2909 c.c., le ricorrenti imputano al giudice a quo di avere erroneamente ridotto l’ammontare del risarcimento a favore di tutti gli obbligati in solido, nonostante sul quantum debeatur la sentenza fosse stata impugnata solo dal Direttore dei Lavori e quindi si fosse formato il giudicato sul quantum debeatur rispetto agli altri appellanti che avevano contestato esclusivamente il fondamento o il grado delle rispettive responsabilità.

La questione sollevata in sostanza è se la contestazione in radice del fondamento della pretesa creditoria assorba quella relativa al quantum ovvero se la contestazione del quantum conservi una sua autonomia.

La soluzione dipende dalla specificità delle contestazioni e quindi varia in ragione dei fatti contestati: se i fatti allegati ai fini della contestazione del quantum debeatur sono compatibili con la contestazione dei fatti costitutivi del diritto contestato, la contestazione sull’an rende superfluo prendere posizione sul quantum debeatur, sicchè il comportamento processuale omissivo – cioè la mancata contestazione del quantum debeatur – non è suscettibile di essere apprezzato dal giudice al fine di identificare il thema decidendum e il thema probandum.

Viceversa, ove i fatti relativi alla misura del risarcimento presentino margini di autonomia rispetto alla contestazione dei fatti costitutivi del credito risarcitorio la contestazione del quantum assume rilievo ai fini della determinazione del thema decidendum.

Tanto premesso, va rilevato che le eredi della Ditta T. avevano contestato in via principale la fondatezza della pretesa risarcitoria e in via subordinata la misura della responsabilità attribuita al loro congiunto, titolare della ditta appaltatrice.

Ne consegue, ad avviso di questa Corte, che la contestazione in radice dell’an debeatur implicasse la contestazione circa il quantum; per di più, anche il fatto che, in via subordinata, le eredi della ditta T. avessero chiesto una riduzione della misura percentuale della propria responsabilità comportava la contestazione del quantum debeatur.

Si perviene a tale conclusione in considerazione del fatto che la misura del risarcimento del danno non poggia, in questo caso, su elementi diversi e dotati di autonomia rispetto ai fatti costitutivi posti a fondamento della richiesta risarcitoria; la condanna risarcitoria deriva dall’accertamento della responsabilità dei convenuti e il quantum risarcitorio dipende dalla misura della efficienza causale del fatto illecito imputato a ciascuno dei corresponsabili e non dalla applicazione di criteri di liquidazione del danno che meritassero una specifica contestazione.

Il motivo, dunque, va rigettato.

2. Con il secondo motivo i ricorrenti deducono: a) la violazione dell’art. 115 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., per avere accertato un fatto non allegato dalle parti (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4); b) la violazione degli artt. 1226 e 2048 c.c., per aver proceduto alla liquidazione equitativa del danno senza indicare i parametri (ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5); c) la motivazione perplessa e/o apparente nonchè l’omesso esame delle risultanze della CTU relativamente al quantum risarcibile (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 5).

Gli errori attribuiti al giudice a quo sono i seguenti: a) l’aver reputato l’antico soffitto già deteriorato prima dei lavori di ristrutturazione, senza che tale fatto fosse stato dedotto in giudizio; b) l’aver posto a loro carico l’onere di dimostrare lo stato di conservazione preesistente del soffitto; c) la riduzione equitativa della misura risarcitoria in ragione della compensatio lucri cum damno senza alcuna base oggettiva e senza discussione tra le parti; d) la riduzione dei costi di ripristino del soffitto secondo le indicazioni della soprintendenza, senza motivazione; e) l’aver ritenuto non necessario il rifacimento dell’intero soffitto, ma solo del 25% crollato, senza disporre nuova CTU.

Si tratta, nonostante le censure formulate siano state prospettate in termini di violazione di legge, di errores in procedendo e di vizi motivazionali, di contestazioni che attengono prevalentemente alla valutazione dei fatti, postulandone una con esito diverso rispetto a quella fatta propria dal giudice del gravame, fondata su una spiegazione di tali fatti e delle risultanze istruttorie secondo una logica alternativa presentata come l’unica possibile.

A riprova di ciò si consideri che la violazione delle norme di legge, peraltro, indicate in modo non sempre pertinente, perchè prive di ogni attinenza con la natura della controversia (si veda l’incomprensibile richiamo dell’art. 2048 c.c., verosimilmente indicato peterrore in luogo dell’art. 2056 c.c.), non è sorretta da alcun confronto con la parte motivazionale della sentenza gravata; in questi casi il motivo di ricorso è reputato inammissibile: mancando una valutazione comparativa tra opposte soluzioni la Corte non si trova nella condizione di verificare il fondamento della denunciata violazione (Cass. 12/01/2016, n. 287).

Il vizio di cui all’art. 112 c.p.c., in combinato disposto con l’art. 2697 c.c., si prefigura soltanto nelle ipotesi in cui il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti e pronunciando oltre i limiti della domanda, ovvero su questioni non proposte e non rilevabili d’ufficio, attribuisca alla parte un bene non richiesto cioè non compreso neanche virtualmente nella domanda. Nel caso di specie, invece, il giudice si è limitato ad interpretare il thema decidendum e quello probandum pronunciandosi entro i limiti della domanda.

Peraltro, la violazione dell’art. 2697 c.c., per avere il giudice di merito ritenuto sussistente il deterioramento dell’antico soffitto dipinto senza che la parte gravata dall’onere della prova di esso l’avesse assolto, implicava l’evidenziazione che il fatto era stato oggetto di contestazione, perchè l’onere della prova concerne solo fatti contestati: il ricorrente avrebbe dovuto indicare se e quando il fatto assunto come provato dal giudice era stato contestato (Cass. 28/06/2012, n. 10853).

L’espletamento della CTU e quindi la nomina del consulente per determinare il danno, una volta ritenuto non necessario ripristinare l’intero soffitto, ma solo il suo 25%, rientravano nel potere discrezionale del giudice, il cui esercizio, di norma, è sottratto allo scrutinio di legittimità” (da ultimo, Cass. 17/01/2019, n. 1044); ad ogni modo, i ricorrenti non hanno mai dedotto di avere richiesto una CTU, sì da gravare il giudice dell’obbligo di motivare il rigetto della relativa istanza, dimostrando di poter risolvere, sulla base di corretti criteri, i problemi tecnici connessi alla valutazione degli elementi rilevanti ai fini della decisione, come espressamente denunciato alle pp. 24-25 del ricorso (Cass. 20/02/2019, n. 4947).

Taluni fatti asseritamente non esaminati dal giudice sono stati dedotti in violazione del disposto di cui all’art. 366 c.p.c., comma 4, perchè, ad esempio, non è stato indicato esattamente nel ricorso in quale fase processuale ed in quale fascicolo di parte si trovassero le vincolanti prescrizioni della soprintendenza. I requisiti di contenuto-forma previsti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c., comma 1, devono essere assolti necessariamente con il ricorso e non possono essere ricavati da altri atti, dovendo il ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata con l’indicazione precisa dei fatti processuali alla base del vizio denunciato, producendo in giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza (Cass. 13/11/2018, n. 29093).

3. Ne consegue il rigetto del ricorso.

4. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

5. Si dà atto della ricorrenza dei presupposti per porre a carico della parte ricorrente l’obbligo di pagamento del doppio del contributo unificato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese in favore di ciascun controricorrente, liquidandole in Euro 3.200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 12 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 maggio 2019

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