LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ARMANO Uliana – Presidente –
Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –
Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –
Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –
Dott. IANNELLI Domenico – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 16681/2017 R.G. proposto da:
M.C.A., rappresentata e difesa dall’Avv. Giovanni Clemente;
– ricorrente –
contro
M.V., rappresentato e difeso dall’Avv. Pasquale Pizzuti;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Salerno, Sezione Specializzata Agraria, n. 365/2017, pubblicata il 2 maggio 2017;
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 15 marzo 2019 dal Consigliere Dott. Emilio Iannello.
RILEVATO IN FATTO
1. Con ricorso depositato in data 31/8/2015 M.C.A. adì la Sezione Specializzata Agraria del Tribunale di Salerno.
Premesso di essere divenuta, nel 2013, comproprietaria iure hereditatis del fondo denominato ***** per la quota indivisa del 50% – dell’altra quota essendo titolare il proprio germano M.V. – chiese accertarsi che il contratto in virtù del quale quest’ultimo continuava a detenere in via esclusiva detto fondo (stipulato con le rispettive danti causa il 15/10/1997), benchè denominato “affitto di terreni agricoli”, era in realtà di natura gratuita (comodato) stante l’entità irrisoria del canone annuo convenuto (Euro 1.000.000) ed era da considerarsi pertanto cessato, in relazione alla quota ideale ad essa spettante, per effetto della richiesta allo stesso inviata in data 6/10/2014.
In subordine, per l’ipotesi in cui detta denominazione del contratto fosse ritenuta corrispondente al reale contenuto del negozio, chiese che lo stesso fosse comunque dichiarato cessato, essendo venuto a mancare l’oggetto a seguito del decesso delle concedenti e della divisione operata tra i coeredi con atto notarile del 29/6/2012.
Chiese conseguentemente la condanna di controparte ad immettere essa ricorrente nel compossesso del fondo oltre che al risarcimento del danno, da liquidarsi in separato giudizio.
Instaurato il contraddittorio, l’adita Sezione Specializzata Agraria, con sentenza del 4/3 – 8/7/2016, rigettò le domande.
2. Con la sentenza in epigrafe la Corte d’appello di Salerno, Sezione Specializzata Agraria, ha confermato tale decisione, rigettando il gravame interposto dalla soccombente.
Ha infatti rilevato, quanto alla prima causa petendi, che:
a) con essa si prospettava, sostanzialmente, una simulazione, in forza della quale sarebbe stato apparentemente concluso un contratto diverso (affitto) da quello realmente voluto dalle parti (comodato);
b) sul punto andava confermata la decisione del primo giudice là dove ha affermato che il canone pattuito non era irrisorio e che il contratto di affitto non dissimulava un contratto di comodato;
c) la misura del canone annuo stabilita nel contratto del 1997 non risulta infatti meramente simbolica, avuto riguardo sia al valore della moneta all’epoca della pattuizione sia alla estensione dei fondi, alla loro ubicazione e qualità culturale;
d) risulta testualmente dal contratto che lo stesso ha ad oggetto sia i fondi rustici ivi indicati sia i fabbricati rurali che in essi insistono;
e) il canone fu pattuito nel 1997, prima della sentenza n. 318 del 2002 con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del meccanismo di determinazione del canone di affitto previsto dalla L. 3 maggio 1982, n. 203, artt. 9 e 62 basato sul reddito dominicale risultante dal catasto terreni del 1939;
f) la qualificazione del contratto, come affitto agrario, fu peraltro esplicitamente confermata nel preliminare di divisione intercorso, in data 12/11/2011, tra i coeredi, tra i quali anche gli odierni contendenti;
g) l’appellante inoltre agisce in qualità di erede della originaria stipulante e soggiace pertanto alle relative limitazioni probatorie rispetto a un contratto di affitto stipulato in forma scritta;
h) rimane irrilevante l’eventuale mancato pagamento dei canoni, attesa la natura dell’azione esercitata tesa ad ottenere la declaratoria di simulazione del contratto di affitto, la immissione nel compossesso, il risarcimento del danno da mancata emissione nel compossesso del fondo, il riconoscimento della estinzione del rapporto per confusione;
i) dagli atti infine non emergono elementi per ritenere che il fondo concesso in affitto a M.V., con i suoi accessori, non potesse avere una destinazione agricola.
Con riferimento poi alla subordinata prospettazione ha rilevato che l’essere il M. divenuto comproprietario, per la quota indivisa del 50% del fondo a lui già concesso in affitto, in costanza di rapporto, non determina l’estinzione di quest’ultimo ma comporta solo che il predetto continua a detenere, quale affittuario, la quota indivisa del 50% del fondo a lui concesso in affitto, oltre ad essere comproprietario del fondo per la residua quota del 50%.
3. Avverso tale decisione M.C.A. propone ricorso per cassazione sulla base di tre motivi, cui resiste M.V., depositando controricorso.
La ricorrente deposita memoria ex art. 380-bis1 c.p.c..
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato:
– Violazione e falsa applicazione degli artt. 1346 e 1418 c.c. – art. 360 c.p.c., p.ti 3 e 4 – Errores in iudicando – Violazione e falsa applicazione della disposizione di cui all’art. 112 c.p.c. – Omessa pronuncia artt. 360 c.p.c., punti 3 e 4.
Con esso la ricorrente deduce la nullità del contratto del 15/10/1997 per mancanza del requisito di determinatezza o determinabilità dell’oggetto; assume infatti che detto contratto, e quello connesso, riguardante altri fondi, pure concessi in affitto a M.V. da M.A. e dalla moglie C.R., non contengono elementi che consentano di determinare l’ammontare del canone per i singoli beni.
Rileva in particolare che, essendo stato in contratto convenuto il canone di affitto in Lire 1.000.000 indistintamente sia per i fabbricati (costituiti da un palazzo di vaste proporzioni, composto da vari appartamenti e locali, per una superficie calpestabile di oltre 2490 m2) che per i terreni attigui (della superficie di 7,50 ha, di cui 4 ha circa cointestati, ora, al 50% tra essa ricorrente ed il resistente), non è possibile stabilire l’ammontare del canone da attribuire alla superficie di 2 ha ora appartenente ad essa ricorrente.
Lamenta omessa pronuncia per non avere la Corte d’appello rilevato d’ufficio detta nullità.
2. Occorre preliminarmente rimarcare che – com’è pacifico tra le parti – con l’esposto motivo la ricorrente lamenta il mancato rilievo ufficioso di questione non dedotta in primo grado e che, sebbene rilevabile d’ufficio, non aveva nemmeno formato oggetto in appello di eccezione volta a sollecitare l’esercizio, da parte del giudice d’appello, del relativo potere.
Diversamente da quanto eccepito dal controricorrente, deve ritenersi che proprio siffatto svolgimento del giudizio, da un lato, e, dall’altro, la rilevabilità ufficiosa della questione di nullità in ogni stato e grado del giudizio, escludono che possa ritenersi formato alcun giudicato interno preclusivo alla sua deducibilità/rilevabilità nel giudizio di cassazione.
Occorre al riguardo anzitutto rammentare che, secondo il principio affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte con le sentenze nn. 26242 e 26243 del 12/12/2014, “in appello e in Cassazione, in caso di mancata rilevazione officiosa della nullità in primo grado, il giudice ha sempre facoltà di rilevare d’ufficio la nullità”.
Come questa Corte ha già avuto occasione di evidenziare, tale principio va coordinato con l’indirizzo, consolidato, per cui le questioni esaminabili di ufficio, che, invece, abbiano formato oggetto nel corso del giudizio di merito di una specifica domanda od eccezione, non possono più essere riproposte nei gradi successivi del giudizio, sia pure sotto il profilo della sollecitazione dell’organo giudicante ad esercitare il proprio potere di rilevazione ex officio, qualora la decisione o l’omessa decisione di tali questioni da parte del giudice non abbia formato oggetto di specifica impugnazione, ostandovi un giudicato interno che il giudice dei gradi successivi deve in ogni caso rilevare (Cass. 17/01/2017, n. 923 e, ivi richiamati, i precedenti di Cass. 04/03/1998, n. 2388; 26/06/2006, n. 14755; 10/01/2014, n. 440, quest’ultimo con particolare riferimento al giudizio di appello; v. anche, Cass. 10/05/2018, n. 11259).
Si è infatti osservato che “quando venga proposta in appello un’eccezione relativa a questione rilevabile d’ufficio anche dal giudice… tale questione diventa punto controverso, con la conseguenza che, se il giudice d’appello ometta di pronunciarsi su di essa, la parte interessata, per impedire che si formi un giudicato interno processuale sull’omessa decisione e la conseguente espunzione della questione dal novero di quelle esaminabili in sede di legittimità nonostante il suo regime di rilevabilità d’ufficio, è tenuta a censurare l’omissione di pronuncia con il ricorso per cassazione e non può, nel presupposto che la questione era rilevabile d’ufficio, riproporla direttamente come motivo di cassazione della sentenza” (Cass. n. 440 del 2014, cit.).
Indicazioni convergenti si ricavano del resto anche dal menzionato arresto di Cass. Sez. U. n. 26243 del 2014, là dove (pagg. 85 – 87; p.p. da 8.3.1 a 8.6.2) si osserva testualmente quanto segue:
“8.3.1…. E’ pressochè superfluo rammentare che, in sede di gravame, il thema decidendum resta definitivamente cristallizzato dal contenuto della decisione impugnata.
“E’ altrettanto noto che l’art. 345 c.p.c. detta il principio della inammissibilità, da dichiararsi d’ufficio, delle domande nuove proposte dinanzi al giudice dell’impugnazione.
“La norma va tuttavia coordinata, nella sua portata precettiva, con il perdurante obbligo di rilevare di ufficio una causa di nullità negoziale imposto al giudice di appello (al pari di quello di legittimità) dall’art. 1421 c.c.., che non conosce nè consente limitazioni di grado. “8.4. Ne consegue:
– Da un canto, che al giudice di appello investito di una domanda nuova volta alla declaratoria di nullità di un negozio del quale in primo grado si era chiesta l’esecuzione, la risoluzione, la rescissione, l’annullamento (senza che il giudice di prime cure abbia rilevato nè indicato alle parti cause di nullità negoziale), è preclusa la facoltà di esaminarla perchè inammissibile.
– Dall’altro, che a quello stesso giudice è fatto obbligo di rilevare d’ufficio una causa di nullità non dedotta nè rilevata in primo grado, indicandola alle parti ai sensi dell’art. 101, comma 2 (norma di portata generale e dunque applicabile anche in sede di appello);
– Dall’altro ancora, che tale obbligo deve ritenersi altresì attivabile da ciascuna delle parti ai sensi dell’art. 345 c.p.c., comma 2, che consente la proposizione di eccezioni rilevabili di ufficio.
“8.5. La corretta coniugazione di tali, distinti aspetti processuali conduce:
1) Alla declaratoria di inammissibilità della domanda di nullità per novità della questione, che peraltro non ne impedisce (secondo consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte) la conversione e l’esame sub specie di eccezione di nullità, legittimamente proposta dall’appellante in quanto rilevabile di ufficio.
2) Alla (eventuale) rilevazione della nullità, nell’esercizio di un potere-dovere officioso, e alla indicazione del nuovo tema da esplorare in questa nuova fase del giudizio, se nessuna delle parti abbia sollevato la relativa eccezione.
“8.6. Non può pertanto ritenersi preclusa al giudice, rilevata in limine la inammissibilità della domanda nuova, la facoltà di motivare in ordine alla ritenuta validità del contratto (…), con argomentazioni perfettamente speculari rispetto a quelle che avrebbe svolto se quella nullità egli stesso avesse autonomamente rilevato.
“8.6.1. Lungi da risultare “sovrabbondante o illegittima”, una tale motivazione si configura come doverosa disamina della (domanda inammissibile convertita in) eccezione di nullità negoziale formulata dalla parte appellante.
“8.6.2. Egli non potrà, pertanto, limitarsi ad una declaratoria di inammissibilità in ragione della novità della domanda di nullità emanando una pronuncia che racchiuderebbe, in tal caso, un significante esplicito (l’inammissibilità della domanda) ed un implicito significato (la validità negoziale) -, ma deve, in conseguenza della conversione della domanda (inammissibile) in eccezione (ammissibile) di accertamento della nullità, esaminare il merito della questione”.
Si ricava chiaramente da tali precedenti il principio secondo cui la preclusione al rilievo in cassazione della nullità contrattuale (come di qualsiasi altra eccezione rilevabile d’ufficio), si determina solo ove in appello sia stata formulata la relativa domanda/eccezione e la corte di merito non si sia pronunciata, poichè in tal caso sull’omessa pronuncia (ove non espressamente denunciata come tale) si determina un giudicato processuale preclusivo della riproposizione della questione in cassazione.
Nel caso invece – qual è quello in esame – in cui la parte non abbia proposto in appello alcuna eccezione, non si determina alcun vizio di omessa pronuncia (preclusivo di un successivo esame in cassazione ove non dedotto come tale) e l’errore del giudice è denunciabile in cassazione, ex art. 360, n. 3, per violazione delle norme che prevedono (nel caso della nullità contrattuale, l’art. 1421 c.c.) la rilevabilità d’ufficio della questione medesima.
Proprio per tale motivo Cass. n. 923 del 2017, cit., ha accolto, nel caso ivi esaminato, la censura di violazione di legge per mancato rilievo officioso di una nullità, osservando che la questione non poteva considerarsi preclusa da un giudicato processuale di omessa pronuncia, dal momento che essa non era stata dalla parte eccepita in appello.
3. Ciò premesso deve comunque rilevarsi, sotto altro profilo, l’inammissibilità del motivo e comunque la sua manifesta infondatezza (previa la necessaria avvertenza che, sebbene per quanto detto, la questione di nullità non sia stata esaminata dalla Corte di merito, sulla stessa può pronunciarsi questa Corte, ex art. 384 c.p.c., comma 2, non richiedendosi al riguardo ulteriori accertamenti di fatto).
3.1. L’inammissibilità discende dall’inosservanza degli oneri di specificità a autosufficienza imposti dall’art. 366 c.p.c., n. 6: la ricorrente infatti omette di trascrivere o anche solo esaustivamente sintetizzare il contenuto del contratto d’affitto, pur ad esso ovviamente facendo continuo riferimento nell’illustrare la doglianza.
3.2. In ogni caso questa si appalesa come detto priva di pregio.
E’ da escludere infatti che il solo fatto (in astratto considerato e nei termini stessi in cui è dedotto, indipendentemente dalla verifica in concreto dei termini contrattali non consentita in questa sede) che il canone d’affitto sia in contratto riferito indistintamente a beni immobili di diversa natura e consistenza valga a rendere lo stesso indeterminato o non determinabile, posto che, al contrario, proprio l’essere tale canone precisamente individuato nella misura suindicata costituisce la premessa fattuale per le doglianze della ricorrente che si muovono sul piano della congruità di tale commisurazione nel sinallagma contrattuale.
Inoltre non è precisata dalla ricorrente, nè si vede, la ragione per la quale occorrerebbe nella specie procedere a una specifica imputazione del canone così come pattuito in contratto ai singoli beni, terreni e relativi fabbricati, unitariamente considerati e in tal modo concessi in affitto.
Ove tale ragione debba intendersi riferita alla divisione intervenuta tra le parti nel 2012 del compendio ereditario relitto dalle originarie concedenti, si tratterebbe di prospettazione a tal fine inammissibile e comunque irrilevante, atteso che:
– i giudici di merito hanno affermato che i condividenti ebbero espressamente a far salvo il contratto di affitto del 15/10/1997, alla stregua di un accertamento in fatto in sè non fatto segno di alcuna specifica censura in ricorso;
– del contenuto di tale divisione la ricorrente omette di dare alcuna specifica indicazione in ricorso, in violazione degli oneri di specificità ed autosufficienza imposti dall’art. 366 c.p.c., n. 6;
– a tutto concedere le dedotte ragioni di indeterminatezza potrebbero al più riguardare il contratto di divisione (tema estraneo al presente giudizio) e non quello originario di affitto.
4. Il secondo motivo è così rubricato:
a) Violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale ex artt. 1362 c.c. e segg. – art. 360 c.p.c., punto 3 e 4;
b) Violazione e falsa applicazione dell’art. 1803 c.c. e ss. – art. 360 c.p.c., punto 3 e 4.
c) Violazione e falsa applicazione degli artt. 1615 – 1631 e 1639 c.c. ed L. n. 203 del 1982, artt. 1 – 9 – 10 – 13 e 24 – art. 360 c.p.c., p.ti 3 e 4.
d) Omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia in relazione all’art. 360 c.p.c., anche per violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. – in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4.
Con esso la ricorrente lamenta che il contratto del 15/10/1997 è stato (male) interpretato e qualificato dalla Corte territoriale “senza valutare che il mero pagamento di taluni oneri attinenti al fondo o ad altri beni non (vale, n. d.r.) a qualificare il rapporto giuridico quale contratto di affitto mentre, non avendo natura sinallagmatica, (detti oneri, n. d.r.) sono elementi compatibili con il contratto di comodato (modale) che trova la sua causa nel rapporto di condiscendenza e di fiducia tra i contraenti.
Afferma che, così operando, i giudici d’appello hanno omesso di accertare “gli elementi essenziali dell’attività negoziale e le finalità pratiche perseguite dalle parti”, così incorrendo nel vizio di omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c..
Lamenta ancora che la Corte d’appello, uniformandosi acriticamente alla decisione del primo giudice, ha erroneamente ritenuto che non fosse stata offerta prova dell’irrisorietà del canone pattuito, posto che invece nell’atto d’appello era stato illustrato che, già nel 1997, pur nella vigenza delle norme poi dichiarate incostituzionali, detto canone non copriva neppure i costi della irrigazione consortile per ogni ettaro di terreno e gli ulteriori oneri.
Deduce che in tal modo la Corte ha violato l’art. 115 c.p.c., avendo omesso di esaminare le prove documentali esibite, dirette a dimostrare l’entità del patrimonio dato in gestione a M.V. e l’esiguità del canone convenuto.
Contesta il rilievo attribuito in sentenza al preliminare di divisione del 12/11/2011 rilevando che in esso le parti, pur parlando di contratto di affitto, non ne hanno determinato il contenuto.
Sostiene che avendo le parti, nella scrittura del 1997, affermato che “i fondi rustici sono già detenuti in fitto in virtù di autonomi contratti”, avrebbe dovuto escludersi che avessero inteso cedere in affitto i terreni di fabbricati anche al congiunto M.V..
5. Il secondo motivo è inammissibile sotto diversi profili.
5.1. Anzitutto per l’evidente mescolanza di censure eterogenee.
La sovrapposizione di censure di diritto, sostanziali e processuali, non consente alla Corte di cogliere con certezza le singole doglianze prospettate (Cass. Sez. U. n. 9100 del 2015; Sez. U. n. 16990 del 2017; conf. Cass. n. 3554 del 2017). La tipizzazione dei motivi di ricorso comporta, infatti, che il generale requisito della specificità si moduli, in relazione all’impugnazione di legittimità, nel senso particolarmente rigoroso e pregnante, sintetizzato con l’espressione della c.d. duplice specificità, essendo onere del ricorrente argomentare la sussunzione della censura formulata nella specifica previsione normativa alla stregua della tipologia dei motivi di ricorso tassativamente stabiliti dalla legge. Nella specie la tendenziale promiscuità della formulazione delle censure in esame avviluppa gli asseriti vizi strutturali della motivazione, ma anche l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge sostanziale e processuale. Si tratta, dunque, di mezzi d’impugnazione difficilmente sovrapponibili e cumulabili in riferimento al medesimo costrutto argomentativo che sorregge la sentenza impugnata.
5.2. Indipendentemente da tale assorbente rilievo può comunque osservarsi che sulla qualificazione del contratto del 15/10/1997 come contratto di affitto deve ritenersi formato il giudicato interno in quanto presupposta dalla stessa qualificazione della domanda, come diretta all’accertamento di simulazione relativa, già operata in primo grado e in sè non fatta segno di motivo di gravame.
Varrà rammentare in proposito che, secondo principio costantemente affermato nella giurisprudenza di questa Corte, il potere-dovere del giudice di qualificazione della domanda nei gradi successivi al primo va coordinato con i principi propri del sistema delle impugnazioni, sicchè deve ritenersi precluso al giudice dell’appello di mutare d’ufficio – violando il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunziato – la qualificazione ritenuta dal primo giudice in mancanza di gravame sul punto ed in presenza, quindi, del giudicato formatosi su tale qualificazione (v. Cass. 03/07/2014, n. 15223; 01/12/2010, n. 24339; 30/07/2008, n. 20730; 12/07/2005 n. 14573).
5.3. Può ancora ad abundantiam rilevarsi che comunque la ricorrente allega presunti errori di interpretazione del contratto in modo generico e apodittico e comunque senza il rispetto dei limiti entro i quali tali errori possono essere dedotti nel giudizio di cassazione.
Mette conto al riguardo ricordare che, secondo principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, l’interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata costituisce un’attività riservata al giudice di merito, ed è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione (nei limiti, peraltro, in cui l’allegazione è oggi consentita dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).
Pertanto, onde far valere in cassazione tali vizi della sentenza impugnata, non è sufficiente che il ricorrente per cassazione faccia puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione, mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti (indicazione peraltro anch’essa nella specie mancante), ma è altresì necessario che egli precisi in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato ovvero ne abbia dato applicazione sulla base di argomentazioni censurabili per omesso esame di fatto controverso e decisivo (v. Cass. 20/08/2015, n. 17049; 09/10/2012, n. 17168; 31/05/2010, n. 13242; 20/11/2009, n. 24539); con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme ermeneutiche o sul vizio di motivazione e si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa (Cass. 26/10/2007, n. 22536).
Sul punto, va altresì ribadito il principio secondo cui, per sottrarsi al sindacato di legittimità, non è necessario che l’interpretazione data alla dichiarazione negoziale dal giudice del merito sia l’unica interpretazione possibile o la migliore in astratto, ma è sufficiente che sia una delle possibili e plausibili interpretazioni.
Nella specie, non si ricava dalla motivazione della sentenza alcuna affermazione che si ponga in contrasto con i criteri legali di ermeneutica negoziale.
Piuttosto le censure mosse col ricorso si risolvono nella prospettazione di questioni di merito, comunque eccedenti dai limiti in cui al riguardo ne è consentita la deduzione: in ultima analisi nella mera assertiva contrapposizione di un esito diverso dell’attività esegetica riservata al giudice del merito e legittimamente nella specie compiuta.
5.4. Analogamente è a dirsi per quanto riguarda la dedotta violazione degli artt. 1803 c.c. e ss. (in tema di comodato), degli artt. 1615, 1631 e 1639 (in tema di affitto) e della L. n. 203 del 1982, artt. 1,9,10,13 e 24.
Lungi dal denunciare l’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, delle fattispecie astratte recate dalle norme di legge richiamate, la ricorrente allega infatti un’erronea ricognizione, da parte del giudice a quo, della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa: operazione che non attiene all’esatta interpretazione della norma di legge, inerendo bensì alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, unicamente sotto l’aspetto del vizio di motivazione (cfr., ex plurimis, Cass. 26/03/2010, n. 7394; 30/12/2015, n. 26110), neppure coinvolgendo, la prospettazione critica della ricorrente, l’eventuale falsa applicazione delle norme richiamate sotto il profilo dell’erronea sussunzione giuridica di un fatto in sè incontroverso, insistendo propriamente la M.C. nella prospettazione di una diversa ricostruzione dei fatti di causa, rispetto a quanto operato dal giudice a quo.
Si tratta, dunque, come appare manifesto, di argomentazioni critiche dirette a censurare una (tipica) erronea ricognizione della fattispecie concreta, di necessità mediata dalla contestata valutazione delle risultanze probatorie di causa; e pertanto di una tipica censura diretta a denunciare il vizio di motivazione in cui sarebbe incorso il provvedimento impugnato.
5.5. Anche le censure mosse su tale piano si appalesano poi (oltre che come detto indistinguibili nell’impianto e nella illustrazione dalle altre, comunque) eccedenti dai presupposti e dai limiti entro i quali una tale censura è consentita dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e cioè quale omesso esame di fatto decisivo e controverso.
Per il resto va rammentato che il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (Cass. 10/06/2016, n. 11892).
5.6. E’ infine ripetuto il riferimento, nella illustrazione del motivo, ad atti o documenti dei quali si omette di trascrivere, o anche solo esaustivamente sintetizzare, il contenuto e di indicarne la localizzazione nel fascicolo processuale, in palese violazione degli oneri imposti dall’art. 366 c.p.c., n. 6.
6. Con il terzo motivo infine la ricorrente denuncia Violazione art. 112 c.p.c. – Omessa pronuncia su motivi di appello – Error in procedendo – art. 360 c.p.c., punti 3 e 4.
Lamenta che, nel confermare il rigetto della subordinata domanda volta all’accertamento dell’estinzione del rapporto di affitto per confusione nello stesso soggetto delle qualità di conduttore e del locatore, la Corte di appello ha fatto acriticamente propria la decisione del giudice di primo grado, omettendo di considerare che nel motivo d’appello al riguardo proposto era stato precisato che “il contratto originario di comodato o di affitto agrario era cessato per il venir meno della causa e dell’oggetto” (lamentandosi in particolare che il giudice di primo grado aveva ritenuto ancora sussistente l’originario fondo concesso in affitto, mentre la quota residua è di appena 4 ha circa, di cui il 50% di proprietà della ricorrente).
7. Anche tale doglianza è inammissibile.
La Corte d’appello, come evidenziato anche in ricorso, prende espressamente in esame il motivo d’appello con il quale si reiterava la subordinata prospettazione causale, rappresentata dalla asserita estinzione del contratto d’affitto per confusione.
Ciò basta ad escludere la sussistenza del dedotto vizio di omessa pronuncia. Questo infatti è configurabile solo allorchè manchi completamente il provvedimento del giudice indispensabile per la soluzione del caso concreto e non allorchè una pronuncia sul capo di cui si lamenta l’omissione sia stata adottata dal giudice del merito, sia pure con motivazione che non abbia preso specificamente in esame alcune delle argomentazioni svolte come motivi di censura sul punto (v. Cass. 05/04/2004, n. 6656; 07/05/2004, n. 8713).
La doglianza si rivela pertanto diretta in sostanza a sollecitare, inammissibilmente, una nuova valutazione di merito.
8. In ragione delle considerazioni il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.
Trattandosi di controversia agraria il processo risulta esente dal contributo unificato; non si applica pertanto il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 10.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 15 marzo 2019.
Depositato in Cancelleria il 9 maggio 2019
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