Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.12261 del 09/05/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 21428/2017 R.G. proposto da:

F.M., rappresentato e difeso dall’Avv. Paolo Bevilacqua;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate e Z.C.;

– intimate –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Trieste, n. 97/2017, pubblicata il 9 febbraio 2017;

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 5 aprile 2019, dal Consigliere Dott. Emilio Iannello.

RILEVATO IN FATTO

1. Con sentenza del 26 febbraio 2015 il Tribunale di Gorizia, in accoglimento della domanda proposta dall’Agenzia delle entrate, ex art. 2901 c.c., a tutela della garanzia patrimoniale del credito vantato nei confronti di F.M. per un importo di Euro 161.658, ha dichiarato inefficace nei confronti dell’attrice l’accordo di separazione intervenuto tra lo stesso e la coniuge Z.C. nella parte in cui trasferiva a quest’ultima la proprietà di alcune unità immobiliari.

Con la sentenza in epigrafe la Corte d’appello di Trieste ha rigettato i gravami interposti dai soccombenti, rilevando in sintesi che nel momento in cui i coniugi addivennero alla separazione consensuale la moglie era certamente a conoscenza della grave situazione economica in cui versava il marito;

la scientia damni richiesta dalla legge in capo al debitore ed al terzo può prescindere dalla specifica conoscenza del credito per la cui tutela l’azione viene proposta e comunque dalla esistenza di una collusione del terzo con il debitore;

essa può essere ricavata anche da presunzioni semplici, ivi compresa la sussistenza di un vincolo parentale tra il debitore ed il terzo, quando tale vincolo renda estremamente inverosimile il contrario;

sono irrilevanti le eventuali diverse ragioni che indussero i coniugi a porre fine al rapporto; quand’anche infatti, seguendo la tesi degli appellanti, la cessione dei beni fosse avvenuta in adempimento di un obbligo di mantenimento nei confronti del coniuge, l’attribuzione deve comunque qualificarsi a titolo oneroso e ai fini del suddetto requisito soggettivo è sufficiente la consapevolezza, in capo al debitore alienante ed al terzo acquirente, della diminuzione della garanzia generica conseguente alla riduzione della consistenza patrimoniale del primo, non occorrendo la conoscenza, da parte del terzo, dello specifico credito per cui è proposta l’azione.

Ha soggiunto che incombeva al terzo, ossia alla coniuge acquirente, la prova della non conoscenza della situazione debitoria del marito: prova nella specie non offerta, essendo tutti i capitoli di prova sostanzialmente diretti a provare la crisi coniugale o comunque circostanze irrilevanti ai fini della proposta azione revocatoria.

3. Avverso tale decisione F.M. propone ricorso per cassazione sulla base di due motivi.

Gli intimati non svolgono difese nella presente sede.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione e falsa applicazione dell’art. 711 c.p.c. e art. 1321 c.c., nonchè omesso esame “del thema probatorio essenziale relativo al vaglio dell’elemento soggettivo in capo alla destinataria/acquirente”.

Lamenta la mancata ammissione dei mezzi istruttori dedotti al fine di superare, attraverso la prova della non coabitazione degli ex coniugi, la presunzione di conoscenza effettiva, da parte della moglie, della posizione debitoria del marito.

Sul punto rileva peraltro che l’assunto secondo cui la moglie era a perfetta conoscenza dell’esposizione debitoria del marito è sfornito di conforto probatorio ed è frutto di un giudizio del tutto personale ed opinabile del giudicante.

Si duole altresì della ritenuta gratuità del trasferimento immobiliare, obliterante il complesso delle statuizioni che riguardano la definizione dell’assetto familiare.

2. La censura si appalesa inammissibile.

2.1. Lo è, per aspecificità, nella parte in cui assume che a fondamento della statuizione sia posta l’affermazione della gratuità del trasferimento immobiliare: l’esatto contrario si ricava della sentenza appellata, là dove si evidenzia a chiare lettere (pag. 5, righi 8-14) che “l’attribuzione deve qualificarsi a titolo oneroso”, traendosene la conseguenza – perfettamente corretta in punto di diritto (v. ex multis da ultimo Cass. 18/01/2019, n. 1286) – che, sul piano soggettivo, ai fini della revocatoria dell’atto, è sufficiente la consapevolezza, in capo al debitore alienante ed al terzo acquirente, della diminuzione della garanzia generica conseguente alla riduzione della consistenza patrimoniale del primo.

2.2. Nella restante parte la censura, lungi dal prospettare a questa Corte un vizio della sentenza rilevante sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, mediante una specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che si assumono in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie astratta applicabile alla vicenda processuale, si volge piuttosto ad invocare una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertate e ricostruite dalla Corte territoriale, muovendo all’impugnata sentenza censure del tutto irricevibili, volta che la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle – fra esse – ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito.

2.3. Anche il vizio di motivazione viene dedotto in modo difforme da quanto disposto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo applicabile ratione temporis, e cioè quale omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza (rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza anche del dato extratestuale), che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo (cioè che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia), del quale il ricorrente dovrà altresì indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1 n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2 n. 4 – il come e il quando (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti (Cass. Sez. U. 07/04/2014, n. 8053; Id. 22/09/2014, n. 19881).

Oneri nella specie evidentemente non assolti essendosi limitato il ricorrente a fare generico richiamo alle “istanze istruttorie” contenute in “memoria 22 novembre 2012 depositata nel giudizio di primo grado”, senza riportarne, neanche alla stregua di esaustiva sintesi, il contenuto e senza comunque adeguatamente localizzarne la collocazione nel fascicolo processuale, ossia di indicare se e dove essi sono esaminabili, ove prodotti, in questo giudizio di legittimità.

In proposito varrà rammentare che, come chiarito da Cass. Sez. U. 03/11/2011, n. 22726, in tema di giudizio per cassazione, l’onere del ricorrente, di cui all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, così come modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 7, di produrre, a pena di improcedibilità del ricorso, “gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda” è soddisfatto, sulla base del principio di strumentalità delle forme processuali, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo di parte, anche mediante la produzione del fascicolo nel quale essi siano contenuti e, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo d’ufficio, mediante il deposito della richiesta di trasmissione di detto fascicolo presentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata e restituita al richiedente munita di visto ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 3, ferma, in ogni caso, l’esigenza di specifica indicazione, a pena di inammissibilità ex art. 366 c.p.c., n. 6, degli atti, dei documenti e dei dati necessari al reperimento degli stessi; nel caso di specie non solo non si è indicato come prodotti gli atti di parte del giudizio di primo grado richiamati a fondamento della censura, ma nemmeno si è detto di voler fare riferimento alla loro presenza nel fascicolo d’ufficio di secondo grado, il che avrebbe, fra l’altro, supposto l’acquisizione del fascicolo d’ufficio di primo grado.

Può soggiungersi che detto onere non risulta soddisfatto anche con riferimento al requisito di decisività.

La circostanza (che si assume essere stata dedotta ad oggetto di capitolo di prova) della non coabitazione dei due coniugi, appare invero in sè neutra e priva di significato in mancanza di specificazione alcuna, quantomeno, della data cui essa risalga, in relazione a quella dei fatti posti a fondamento della pretesa tributaria a tutela della quale l’amministrazione agisce in revocatoria.

8. Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile.

Non avendo l’amministrazione intimata svolto difese nella presente sede, non v’è luogo a provvedere in ordine al regolamento delle spese processuali.

Ricorrono le condizioni di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per l’applicazione del raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 5 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 maggio 2019

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