LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –
Dott. MARULLI Marco – Consigliere –
Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. NAZZICONE Loredana – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 9384/2015 proposto da:
I.G., elettivamente domiciliata in Roma, Via Bocca di Leone n. 78, presso lo studio dell’avvocato Cicala Curzio, rappresentata e difesa dall’avvocato Gadaleta Mauro, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
I.P., in proprio e nella qualità di legale rappresentante della s.a.s. F.lli I. di I.P., elettivamente domiciliato in Roma, Via Nizza n. 46, presso lo studio dell’avvocato Fusco Carlo, rappresentato e difeso dagli avvocati Angelini De Miccolis Gianvincenzo Maria, Di Muro Gaetano, giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 302/2014 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 12/03/2014;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 21/02/2019 dal Cons. Dott. NAZZICONE LOREDANA.
FATTI DI CAUSA
La Corte d’appello di Bari con sentenza del 12 marzo 2014, in riforma della decisione di primo grado di declinatoria della competenza in favore degli arbitri, ha condannato la F.lli Intini di I.P. & C. s.a.s. al pagamento in favore della socia receduta I.G. della somma di Euro 5.700,00, oltre interessi legali dal 22 dicembre 2005, a titolo di liquidazione della quota, respingendo la domanda di risarcimento del danno nei confronti dell’amministratore I.P..
Ha ritenuto la corte territoriale – per quanto ancora rileva – che detto valore sia stato ragionevolmente determinato dal C.T.U., attesa la situazione contabile estremamente carente, sulla base della considerazione del bilancio di esercizio del 2001 (recante una perdita di Euro 48.934,00), del volume di affari dell’esercizio stesso (pari ad Euro 654.600,00) e del più alto fatturato, sempre superiore ad Euro 1.000.000, negli anni precedenti e successivo: onde ha ritenuto che correttamente il valore non sia stato valutato come pari a zero, alla stregua quindi del solo bilancio del 2001 recante la perdita di esercizio, ma potesse essere ricostruito come positivo, tenuto conto degli elementi esposti, che palesano un rilevante avviamento dell’azienda agricola, dovendosi peraltro pure considerare che nel 2002 comunque il bilancio recava ancora un perdita (di Euro 21.112,00).
Ha altresì disatteso l’istanza di rinnovazione della C.T.U. avanzata dalla socia uscente, che pretende di ricercare condotte fraudolente dell’amministratore, ed atteso che la pretesa della medesima di un valore assai superiore urta contro l’acquisto della quota per il prezzo di Euro 3.098,00 in data 18 giugno 2001, a fronte del recesso attuato il 18 giugno 2002.
Avverso questa pronuncia propone ricorso l’ex socia, sulla base di cinque motivi. Resiste l’intimata con controricorso. Le parti hanno depositato le memorie, peraltro la ricorrente fuori termine.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – I motivi di ricorso possono essere così riassunti:
1) violazione dell’art. 2289 c.c., comma 2 e vizio di motivazione, perchè la corte del merito ha tenuto conto del prezzo di acquisto della quota di Euro 3.098,00, senza considerare che si trattò di cessione dal proprio genitore a prezzo simbolico, indicato a puri scopi fiscali;
2) violazione dell’art. 2289 c.c., artt. 112,116 c.p.c. e art. 167 c.p.c., comma 1, per essere stato considerato il bilancio chiuso al 31 dicembre 2002, successivo alla data del recesso del 18 giugno 2001, quando avrebbe dovuto invece determinarsi il valore della quota a tale data; inoltre, il bilancio del 2002 recava dati falsi, come il finanziamento dei soci, il quale era voce artificiosamente predisposta, allo scopo di bilanciare la voce positiva di un contributo a fondo perduto ex L. n. 488 del 1992, a fini fiscali, ed evidenziava falsamente delle perdite, onde al riguardo la motivazione della corte d’appello è contraddittoria;
3) “violazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5”, per avere il C.T.U. utilizzato il metodo patrimoniale-reddituale con riguardo al valore della quota ed il metodo fiscale-redditurale per l’avviamento, mentre il metodo misto non era razionale nella specie, in quanto più affidabile;
4) violazione dell’art. 2289 c.c., comma 4, perchè la liquidazione della quota va effettuata dalla società entro sei mesi dal recesso, avvenuto il *****, mentre la corte del merito ha liquidato solo gli interessi legali e non il danno da svalutazione;
5) violazione dell’art. 91 c.p.c., per avere la sentenza impugnata compensato le spese del primo grado, sebbene la decisione sia stata da essa riformata per intero, e “ritenuto di applicare il riconoscimento parziale delle stesse in favore di entrambe le parti in causa” per il secondo grado.
2. – Il ricorso è inammissibile.
L’art. 819-ter c.p.c., che si applica nella specie, prevede al comma 1, che “La sentenza, con la quale il giudice afferma o nega la propria competenza in relazione a una convenzione d’arbitrato, è impugnabile a norma degli artt. 42 e 43”.
Questa Corte ha già chiarito (cfr. Cass. 19 ottobre 2018, n. 26525; Cass. 7 luglio 2017, n. 16863) che nel giudizio di cassazione va rilevata d’ufficio la causa di inammissibilità dell’appello, che il giudice di merito non abbia riscontrato, con conseguente cassazione senza rinvio della sentenza di secondo grado, non potendosi riconoscere al gravame inammissibilmente spiegato alcuna efficacia conservativa del processo di impugnazione: e ciò, proprio in vicenda in cui la corte territoriale si sia pronunciata, sebbene il tribunale avesse declinato la propria competenza in relazione alla clausola di compromissione in arbitri contenuta nello statuto della società, di cui le parti erano socie, e la pronuncia fosse perciò impugnabile soltanto col regolamento di competenza.
Considerato il tempo della pronuncia di prime cure (14 dicembre 2006), l’appello definito dalla Corte territoriale era dunque del tutto inammissibile poichè la decisione del primo giudice, con la quale si declinava la propria competenza a decidere in favore degli arbitri, poteva essere oggetto solo di regolamento di competenza.
Inoltre, questa Corte (Cass. 25 ottobre 2016, n. 21523) ha enunciato il principio di diritto secondo cui “in tema di arbitrato rituale, l’art. 819-ter c.p.c., introdotto dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 22, il quale prevede l’impugnabilità con il solo regolamento di competenza delle pronunce affermative o negative della competenza in relazione ad una convenzione di arbitrato, si applica a tutte le sentenze pronunciate dopo l’entrata in vigore della citata disposizione (2 marzo 2006), a prescindere dalla data di instaurazione del relativo processo”.
Ne discende che, dovendo la Corte esaminare d’ufficio la corretta impugnazione con l’appello della statuizione di declinatoria della competenza del giudice ordinario, la sentenza impugnata deve essere cassata senza rinvio, ex art. 382 c.p.c., u.c..
3. – La peculiarità della vicenda sostanziale sottesa induce alla compensazione delle spese del giudizio di appello e di quelle di legittimità.
P.Q.M.
La Corte decidendo sul ricorso, cassa senza rinvio la sentenza impugnata perchè il giudizio di appello non poteva essere proseguito; compensa per intero tra le parti le spese del giudizio di appello e del presente giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 21 febbraio 2019.
Depositato in Cancelleria il 9 maggio 2019