LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ORICCHIO Antonio – Presidente –
Dott. SABATO Raffaele – Consigliere –
Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –
Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –
Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 3147/2015 proposto da:
F.C., F.G., FU.GI. e F.A., rappresentati e difesi dall’Avvocato FRANCO MALDONATO presso il cui studio a Roma, via Augusto Aubry 1, elettivamente domiciliano per procura speciale a margine del ricorso;
– ricorrenti –
contro
Z.V., I.D., L.C., L.V.M. e P.L., rappresentati e difesi, anche disgiunta mente, dall’Avvocato MICHELE ALDINIO e dall’Avvocato PAOLO GRIMALDI presso il cui studio a Roma, via S. Teresa 23, elettivamente domiciliano per procura speciale in calce al controricorso;
– controricorrenti –
nonchè
F.G. (fu E.), F.C. (fu E.) e, nella qualità di eredi di F.P. (fu E.), B.A.G., F.E. e F.A.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 294/2014 della CORTE D’APPELLO di POTENZA, depositata il 30/9/2014;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 14/11/2018 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DONGIACOMO.
FATTI DI CAUSA
Il tribunale di Lagonegro, con sentenza del 6/9/2010, ha accolto la domanda proposta da Z.V., I.D., L.C., L.V.M. e P.L. volta ad ottenere la costituzione di una servitù di passaggio per accedere all’edificio di proprietà dei medesimi, sito a ***** (cd. palazzo baronale L.), nonchè di passaggio di condotte idriche e cavi elettrici a servizio dell’edificio stesso, ed ha, per l’effetto: 1) dichiarato i proprietari del fondo servente (individuati nelle persone di F.C., A., G. e Gi., quali eredi di Fu.Co., e di F.G., C. e P., quali eredi di F.E.) tenuti a concedere, in favore dei proprietari del fondo dominante, il diritto di passaggio pedonale e carrabile, oltre che il passaggio delle condutture idriche e dei cavi elettrici, sulla cd. strada ” F.”, dettagliandone i termini anche con rinvio alla consulenza tecnica d’ufficio espletata in giudizio; 2) determinato l’indennità dovuta dai proprietari del fondo dominante ai proprietari del fondo servente, per la somma di Euro 8.234,34, subordinando l’esercizio del diritto di servitù al pagamento di tale somma.
F.C., F.A., F.G. e Fu.Gi., con citazione notificata il 14/4/2011, hanno proposto appello.
Z.V., I.D., L.C., L.V.M. e P.L. hanno resistito all’appello chiedendone il rigetto.
La corte d’appello di Potenza, dopo aver disposto l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli eredi di F.E. e cioè F.G., F.C. nonchè B.A.G., F.E. e F.A., gli ultimi tre quali eredi di F.P., rimasti contumaci, con la sentenza indicata in epigrafe ha rigettato l’appello.
F.C., F.A., F.G. e Fu.Gi., con ricorso spedito per la notifica il 21/1/2015, hanno chiesto, per sette motivi, la cassazione della sentenza resa dalla corte d’appello, dichiaratamente notificata il 22/11/2014.
Z.V., I.D., L.C., L.V.M. e P.L. hanno resistito con controricorso notificato in data 26.2.7/2/2015.
F.G. (fu E.), F.C. (fu E.) e, nella qualità di eredi di F.P. (fu E.), B.A.G., F.E. e F.A. sono rimasti intimati.
Le parti hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo, i ricorrenti, lamentando la violazione e la falsa applicazione dell’art. 102 c.p.c., art. 354 c.p.c., comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, la nullità della sentenza impugnata e del procedimento (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, l’erronea e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio (valutazione di indispensabilità della nuova documentazione anagrafica prodotta) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 e la violazione e falsa applicazione degli artt. 101,102,156,159 c.p.c., art. 354 c.p.c., comma 1, art. 24 Cost., comma 2, art. 111 Cost., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello, esaminando il motivo d’appello con il quale gli appellanti avevano sostenuto la nullità della sentenza del tribunale per violazione dell’art. 102 c.p.c., in conseguenza della mancata integrazione del contraddittorio nei confronti di un litisconsorte necessario, e cioè C.A., erede, in qualità di moglie, di F.E., hai ritenuto l’infondatezza della doglianza sul rilievo che la parte che eccepisce la non integrità del contraddittorio ha l’onere di indicare nominativamente le persone che debbono partecipare al giudizio quali litisconsorti necessari, di provarne l’esistenza e di documentare i presupposti di fatto che giustificano l’integrazione e che, nella specie, è risultato – sulla base di certificazione anagrafica depositata dagli appellati in conformità all’art. 345 c.p.c., comma 3, nel testo introdotto dalla L. n. 69 del 2009, trattandosi “di documento che rientra nelle eccezioni che… consentono la produzione di nuovi documenti in appello, in quanto indispensabile ai fini della decisione; e che, essendo formato necessariamente dopo l’inizio del giudizio di appello, può essere prodotto nel corso del medesimo” – che la C. è deceduta il *****. In tal modo, però, hanno osservato i ricorrenti, la corte non si è avveduta che gli appellanti avevano, in realtà, indicato il nominativo del soggetto pretermesso ( C.A.) e dimostrato, con la produzione del certificato di stato di famiglia, la sua esistenza in vita ed il titolo in forza del quale la stessa avrebbe dovuto partecipare al giudizio, e cioè la sua qualità di erede di F.E., spettando, quindi, alla controparte, una volta provata l’esistenza di altri eredi di quest’ultimo, dimostrare che, in realtà, costoro avevano rinunciato all’eredità ovvero erano a loro volta deceduti senza lasciare eredi. La corte, al riguardo, ha ritenuto che tale prova fosse stata fornita, essendo risultato, in ragione della certificazione anagrafica depositata dagli appellati in allegato alla comparsa conclusionale, che C.A. era deceduta il *****, laddove, al contrario, hanno aggiunto i ricorrenti, dimostrate le ragioni che imponevano l’integrazione del contraddittorio, la corte avrebbe dovuto rimettere la causa al primo giudice a norma dell’art. 354 c.p.c., comma 1, o, quanto meno, sollecitare il contraddittorio in merito alla documentazione prodotta: così, invece, non ha fatto, a nulla rilevando che il documento si sia formato successivamente. Il certificato comprovante il decesso della C., avvenuto il *****, del resto, avrebbe potuto essere prodotto già all’udienza di precisazione delle conclusioni del 26/11/2013 invece che allegato alla comparsa conclusionale del 22/1/2014. La corte, inoltre, hanno aggiunto i ricorrenti, ha omesso di valutare se il documento prodotto dagli appellati fosse, da un lato, indispensabile e, dall’altro, decisivo ai fini della decisione, in tal modo violando il principio per il quale la norma dell’art. 345 c.p.c., comma 3, consente al giudice di ammettere nuove prove purchè siano da lui ritenute indispensabili. Del resto, la certificazione anagrafica depositata non è sufficiente a dimostrare che la C. sia deceduta senza lasciare altri successori, con o senza testamento. I ricorrenti, inoltre, hanno censurato la sentenza impugnata anche nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto che, deceduta la C., la eventuale declaratoria di nullità della sentenza di primo grado e del relativo giudizio porterebbe a conseguire unicamente l’osservanza di formalità superflue, a fronte della necessità, nell’attuazione del principio della ragionevole durata del processo, di evitare la rinnovazione di atti certamente insuscettibili di offrire risultati diversi da quelli già dati, laddove, al contrario, ai sensi dell’art. 2697 c.c., spettava agli appellati, con la produzione di idonea documentazione, provare che la C. fosse deceduta ab intestato e che, tra l’altro, i figli avessero rinunciato all’eredità della madre in favore di altri eredi della stessa: onere che non può dirsi certo assolto con il mero certificato di morte della stessa. Del resto, hanno aggiunto i ricorrenti, la questione dell’integrità del contraddittorio e della mancata partecipazione al giudizio dei litisconsorti pretermessi deve essere risolta non in base all’esito della lite ma alla luce della formulazione della domanda.
2. Il motivo è infondato: ma la motivazione della sentenza impugnata dev’essere corretta. Intanto, non corrisponde al vero che la sentenza impugnata abbia omesso di valutare se il documento prodotto dagli appellati fosse, da un canto, indispensabile e, dall’altro, decisivo ai fini della decisione. La corte d’appello, infatti, ha espressamente ritenuto che il deposito della certificazione anagrafica da parte degli appellati (in allegato alla comparsa conclusionale del 22/1/2014) fosse ammissibile in quanto conforme alla norma dell’art. 345 c.p.c., comma 3, nel testo successivo alle modifiche apportate con la L. n. 69 del 2009, trattandosi di atto che “… rientra nelle eccezioni che… consentono la produzione di nuovi documenti in appello, in quanto indispensabile ai fini della decisione”. Nel giudizio ordinario, in effetti, con riguardo alla produzione di nuovi documenti in grado di appello, l’art. 345 c.p.c., comma 3, nel testo applicabile ratione temporis, e cioè successivo alle modifiche apportate dalla L. n. 69 del 2009 (cfr. la cit. L. n. 69, art. 58, comma 2, a norma del quale l’art. 345 c.p.c., nel testo modificato dalla stessa legge si applica ai giudizi che, come quello in esame, erano pendenti in primo grado al momento della sua entrata in vigore in data 4/7/2009), dev’essere interpretato nel senso che esso fissa sul piano generale il principio della inammissibilità di mezzi di prova “nuovi” (la cui ammissione, cioè, non sia stata richiesta in precedenza), indicando nello stesso tempo i limiti di tale regola, con l’indicazione, in via alternativa (e non concorrente), dei requisiti che tali documenti, al pari degli altri mezzi di prova, devono presentare per poter trovare ingresso in sede di gravame, vale a dire che si tratti di prove o di documenti che le parti dimostrino di non aver potuto proporre prima per causa ad esse non imputabile ovvero che, nel quadro delle risultanze istruttorie già acquisite, siano indispensabili ai fini della decisione della causa, vale a dire di per sè idonei ad eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia gravata, smentendola o confermandola senza lasciare margini di dubbio, a prescindere dal rilievo che la parte interessata sia incorsa, per propria negligenza o per altra causa, nelle preclusioni istruttorie del primo grado (Cass. SU n. 10790 del 2017, in motiv.; Cass. n. 24164 del 2017; Cass. n. 24129 del 2018). Resta, tuttavia, la necessità, in base alle norme previste dagli artt. 163 e 166, richiamati dall’art. 342 c.p.c., comma 1 e art. 347 c.p.c., comma 1, che i nuovi documenti (i quali, peraltro, possono avere ad oggetto tanto un fatto già allegato in primo grado, quanto, come nella specie, un fatto nuovo, vale a dire allegato per la prima volta in appello perchè sopravvenuto o perchè, pur preesistente, divenuto rilevante solo grazie al tenore della sentenza di primo grado) siano prodotti, a pena di decadenza, mediante specifica indicazione degli stessi nell’atto introduttivo del giudizio di secondo grado (Cass. n. 11510 del 2014): a meno che, come nel caso di specie, la loro formazione non sia successiva e la loro produzione non sia stata resa necessaria in ragione dello sviluppo assunto dal processo (Cass. SU n. 8203 del 2005, in motiv.). La corte d’appello, in effetti, ha evidenziato che la certificazione anagrafica depositata dagli appellati è stata legittimamente depositata sul rilievo che si tratta di atto che, in quanto “formato necessariamente dopo l’inizio del giudizio di appello, può essere prodotto nel corso del medesimo”. La produzione di nuovi documenti in appello, tuttavia, anche se ammissibili a norma dell’art. 345 c.p.c., comma 3, è preclusa una volta che la causa sia stata rimessa in decisione e non può essere, quindi, effettuata per la prima volta, come denunciato dai ricorrenti (v. il ricorso, p. 14, in fine), in comparsa conclusionale (Cass. n. 4338 del 1995). La sentenza impugnata, quindi, nella parte in cui ha ritenuto che la certificazione anagrafica depositata dagli appellati in allegato alla comparsa conclusionale fosse ammissibile solo perchè l’atto di era formato dopo l’inizio del giudizio d’appello, non si è attenuta al predetto principio: essa, tuttavia, avendo un dispositivo conforme a diritto, dev’essere semplicemente corretta a norma dell’art. 384 c.p.c., u.c.. Rileva, infatti, la Corte, per un verso, che sono gli stessi ricorrenti ad aver espressamente ammesso che C.A. è deceduta il ***** (v. il ricorso, p. 14, in fine), e, per altro verso, che la sentenza impugnata ha accertato, in fatto, in mancanza di deduzioni contrarie, che i figli della stessa ne sono anche gli eredi: ed è noto, in effetti, come sia la parte che eccepisce la non integrità del contraddittorio ad avere l’onere di indicare nominativamente le persone che debbono partecipare al giudizio quali litisconsorti necessari, di provarne l’esistenza e di documentare i presupposti di fatto che giustificano l’integrazione (Cass. n. 13571 del 2006; Cass. n. 12740 del 2001; Cass. n. 3975 del 1997) con la conseguenza che, in caso di decesso di uno di essi, tale onere non può che risolversi nel dovere della stessa parte di indicare nominativamente e di dimostrare l’esistenza delle persone (in ipotesi, diverse da quelle che abbiano già preso parte al giudizio) che ne abbiano acquistato l’eredità. Nel caso di specie, tuttavia, tale prova è mancata: il giudizio, quindi, essendosi svolto con la partecipazione di G., C.e.(.e.d.Fulco Pietro ,.e.t.d.p.Ettore, quanto (a questo punto) della madre C.A., è stato deciso con sentenza correttamente pronunciata nei confronti tutti i relativi litisconsorti necessari. Le altre censure sono, per l’effetto, assorbite.
.Fulco Giovanni,.Fulco Antonio,.Fulco Clementina e. F.G. di concedere agli attori il passaggio carrabile e pedonale lungo la strada meglio indicata nella C.T.U. acquisita al processo cautelare (cd. strada F.), onde poter accedere al fondo sul quale insiste il Palazzo Baronale L., porzione immobile sita nel Comune di ***** – distinta al catasto al foglio di mappa n. *****, particella *****, riconoscendo agli stessi il diritto al passaggio coattivo perpetuo pedonale e carrabile sulla strada F. oltre a concedere servitù sul medesimo percorso per il passaggio di cavi elettrici e condotte dell’acqua da servire il palazzo… al fine di abitare ed utilizzare il palazzo stesso, previo, se ritenuto di giustizia, idoneo indennizzo a carico degli attori”. A fronte di una domanda così formulata, la corte d’appello ha ritenuto che “la domanda introduttiva è volta chiaramente ad ottenere (non solo la conferma del provvedimento cautelare, ma anche) il riconoscimento del diritto “al passaggio coattivo perpetuo pedonale e carrabile sulla strada F.” ex art. 1051 c.c. e del diritto “al passaggio di cavi elettrici e condotte dell’acqua””: si tratta, com’è evidente, di un’interpretazione tutt’altro che scorretta o implausibile se non altro perchè, com’è noto, l’interpretazione della domanda deve essere diretta a cogliere, al di là delle espressioni letterali utilizzate, il contenuto sostanziale della stessa, desumibile dalla situazione dedotta in giudizio e dallo scopo pratico perseguito dall’istante con il ricorso all’autorità giudiziaria (Cass. SU n. 10840 del 2003; Cass. SU n. 3041 del 2007): il giudice del merito, infatti, nell’indagine diretta all’individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è tenuto ad uniformarsi al tenore letterale degli atti nei quali esse sono contenute, ma deve, per converso, avere riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante (Cass. n. 21087 del 2015; conf., Cass. n. 19002 del 2017; Cass. n. 26159 del 2014; Cass. n. 23794 del 2011; in precedenza, in tal senso Cass. n. 27428 del 2005; Cass. n. 5442 del 2006), mentre incorre nel vizio di omesso esame ove limiti la sua pronuncia alla sola prospettazione letterale della pretesa, trascurando la ricerca dell’effettivo suo contenuto sostanziale (Cass. n. 118 del 2016; Cass. n. 26159 del 2014). E tale, comunque, è l’interpretazione di questa Corte (il principio per cui l’interpretazione delle domande, eccezioni e deduzioni delle parti dà luogo ad un giudizio di fatto, riservato al giudice di merito, non trova applicazione quando si assume che tale interpretazione abbia determinato un vizio riconducibile nell’ambito dell’error in procedendo: in tale ipotesi, infatti, ove si assuma che l’interpretazione degli atti processuali di secondo grado abbia determinato l’omessa pronuncia su una domanda che si assume proposta, la Corte di cassazione ha il potere-dovere di procedere all’esame e all’interpretazione degli atti processuali e, in particolare, delle istanze e delle deduzioni delle parti: Cass. n. 25259 del 2017): la domanda proposta dagli attori, infatti, per come sopra testualmente riprodotta, facendo riferimento all’interclusione del fondo di loro proprietà ed al conseguente diritto degli stessi al passaggio coattivo, pedonale e carrabile, sulla strada ” F.”, appartenente ai convenuti, previa determinazione dell’indennizzo da loro eventualmente dovuto, al dichiarato fine di abitare ed utilizzare il palazzo che insiste sul fondo intercluso, contiene, com’è evidente, tutti gli elementi fattuali e giuridici che qualificano l’azione costitutiva di servitù coattiva di passaggio prevista dagli artt. 1051 c.c. e segg., e cioè: 1) l’interclusione del fondo dominante (nella specie: il Palazzo baronale); 2) il conseguente diritto del relativo proprietario “di ottenere il passaggio il passaggio sul fondo vicino” (art. 1051, comma 1, c.c.); 3) la strumentalità del passaggio attraverso il fondo servente (nella specie: la porzione di terreno sulla quale insiste la strada ” F.”) all’uso (che può anche essere quello abitativo: cfr. Cass. n. 8817 del 2018) dell’immobile che insiste sul fondo dominante; 4) l’attribuzione con sentenza (art. 1032 c.c., comma 1), e, quindi, in via “coattiva” (artt. 1032 c.c. e segg. e artt. 1051 e 1052 c.c.), del diritto di passaggio sul fondo vicino; 5) la determinazione, inequivocamente rimessa alla sentenza (art. 1032 c.c., comma 2), dell’indennità dovuta dagli attori quali proprietari del fondo dominante (art. 1053 c.c.).
5. Con il terzo motivo, i ricorrenti, lamentando la violazione e la falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha dichiarato l’inammissibilità, per difetto di specificità, del terzo motivo d’appello, con il quale gli appellanti hanno denunciato l’insussistenza dei presupposti della servitù di passaggio per difetto di interclusione del fondo degli attori, sul rilievo che, a fronte della motivazione della sentenza impugnata, che sulla base degli accertamenti del consulente tecnico d’ufficio ha concluso per l’interclusione dell’edificio degli appellati e della conseguente necessità di costituire la servitù sulla strada ” F.”, gli appellanti avevano affermato l’esistenza di una diversa strada comunale e di due sentieri pedonali senza, però, dedurre sostanzialmente argomenti di segno contrario a quelli della decisione del tribunale. La corte d’appello, in particolare, hanno proseguito i ricorrenti, ha sinteticamente ritenuto, per un verso, che dei sentieri pedonali non è stata indicata neppure l’ubicazione, mentre, per altro verso, che l’idoneità della strada comunale è stata sostenuta dagli appellanti in modo asserivo risultando, piuttosto, accertato che la strada in questione si articola in due direzioni: quella verso nord esiste solo sulle mappe catastali, essendone incerto il tracciato sul terreno, quella verso sud consiste in uno stretto sentiero con forti pendenze adatto solo per attività sportive. Gli appellanti, invece, hanno proseguito i ricorrenti, avevano articolato un motivo di gravame con il quale avevano dedotto che, diversamente da quanto sostenuto dal tribunale, il fondo non era affatto intercluso essendo, al contrario, raggiungibile non solo attraverso la strada comunale con carreggiata pari a due metri (la cui disagevole percorribilità è imputabile all’incuria del Comune di Maratea, che di fatto si è disinteressato di mantenere la strada, e non può cedere a carico dei convenuti), ma anche attraverso ben due sentieri pedonali, evidenziando che il tribunale aveva recepito in toto le conclusioni del consulente tecnico d’ufficio senza considerare che la consulenza era stata resa nell’ambito di un procedimento cautelare e che dal relativo elaborato traspariva chiaramente che lo stato dei luoghi e le soluzione prospettate erano stati scrutinati alla luce dell’urgenza di concludere i lavori in corso. Il consulente, infatti, nel dare atto della presenza di ben due strade comunali (quella di ***** e quella di *****), ne ha escluso l’utilizzo assumendo, in particolare, che il ripristino di una strada con larghezza di circa due metri sarebbe comunque insufficiente al transito dei mezzi meccanici e, quindi, al trasporto dei materiali da costruzione: tuttavia, concludevano gli appellanti, l’esigenza di procedere al completamento dei lavori, che il tribunale ha condiviso, avrebbe potuto determinare il riconoscimento del diritto di transito a norma dell’art. 843 c.c., ma non l’imposizione di una servitù di passaggio.
6. Il motivo è infondato. L’esercizio del potere di esame diretto degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un error in procedendo, presuppone, infatti, l’ammissibilità del motivo di censura, per cui il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare (a pena, appunto, di inammissibilità) il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, e tale specificazione deve essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione, per il principio di autosufficienza di esso. Pertanto, ove il ricorrente censuri la statuizione di inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, ha l’onere di specificare, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione del giudice di appello e sufficientemente specifico, invece, il motivo di gravame sottoposto a quel giudice, e non può limitarsi a rinviare all’atto di appello, ma deve riportarne il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità (Cass. n. 22880 del 2017; Cass. n. 20405 del 2006). Nel caso di specie, invece, i ricorrenti, pur avendo trascritto il motivo d’appello che la corte distrettuale ha dichiarato inammissibile per difetto di specificità, non hanno, tuttavia, riprodotto in ricorso, con la dovuta compiutezza, la parte della motivazione della sentenza del tribunale che a mezzo di quel motivo avevano inteso impugnare, rendendo, in tal modo, impossibile alla Corte la verifica, sulla base del solo ricorso e senza ulteriori indagini (a partire dall’accesso diretto agli atti del giudizio di merito), della effettiva specificità, o meno, delle censure ad essa rivolte. In effetti, con riguardo al testo dell’art. 342 c.p.c., comma 1, nel testo applicabile ratione temporis, e cioè antecedente alle modifiche apportate dal D.L. n. 83 del 2012, conv. con L. n. 134 del 2012, un capo di sentenza può ritenersi validamene impugnato solo se l’atto di appelli contenga una parte argomentativa che, contrapponendosi alla motivazione della sentenza impugnata, con espressa e motivata censura, miri ad incrinarne il fondamento logico-giuridico (Cass. SU n. 23299 del 2011; Cass. n. 12280 del 2016). Ed è, quindi, inammissibile, per difetto di specificità dei motivi, l’atto di appello che, limitandosi a riprodurre le argomentazioni poste a sostegno della domanda disattesa dal giudice di primo grado, senza il minimo riferimento alle statuizioni di cui è chiesta la riforma, non contenga alcuna parte argormentativa che, mediante censura espressa e motivata, miri a contestare il percorso logico-giuridico della sentenza impugnata (Cass. n. 1461 del 2017). I ricorrenti, quindi, avrebbero dovuto far emergere, in questa sede di legittimità, come il requisito di specificità del motivo d’appello fosse stato soddisfatto, riportando le argomentazioni all’uopo svolte e correlandole con le motivazioni della sentenza gravata, in tal modo offrendo dimostrazione di aver adeguatamente contestato il fondamento logico-giuridico della decisione, sfavorevole alle tesi dagli stessi sostenute. Il motivo d’appello articolato dai convenuti, per come risulta dal ricorso, a fronte di una sentenza che aveva incontestatamente ritenuto – sulla base degli accertamenti eseguiti dal consulente tecnico d’ufficio – la sussistenza dell’interclusione dell’edificio degli appellati, si è limitato, del resto, ad affermare che il fondo non era intercluso, potendo essere raggiunto per il tramite di una via comunale e di due sentieri pedonali, senza confrontarsi in alcun modo, censurandoli, con l’esito degli accertamenti svolti dal tribunale in ordine all’interclusione.
7. Con il quarto motivo, i ricorrenti, lamentando l’omesso circa un fatto decisivo per il giudizio (interclusione relativa, danni derivanti dalla concessione della servitù di passaggio, servitù carrabile), in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, nonchè la violazione la falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 1051 c.c., commi 1 e 2 e art. 1052 c.c., in connessione con il sopra denunciato vizio motivazionale, ai sensi, rispettivamente, dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha omesso qualsiasi accertamento circa l’interclusione e l’inesistenza di percorsi alternativi rispetto a quello giudizialmente richiesto. La verifica effettuata mediante la consulenza tecnica d’ufficio espletata nel corso della fase cautelare, infatti, non consentiva – hanno evidenziato i ricorrenti – di ritenere adempiuto l’onere probatorio che grava sull’attore, e cioè dimostrare, quale fatto costitutivo della pretesa, l’interclusione del fondo, mentre le acquisizioni probatorie operate nel corso del giudizio fornivano la prova che i percorsi alternativi proposti dal convenuti costituivano un’alternativa effettiva al passaggio sulla strada ” F.”. Innanzitutto, il consulente tecnico d’ufficio ha ritenuto che il tratto di strada comunale che dal palazzo L. prosegue in direzione nord-est (*****) è di fatto chiuso al transito anche pedonale da recinzioni e cancello in corrispondenza della intersezione della strada comunale con lo spigolo sud della particella ***** del foglio ***** e che da tale punto il tracciato della strada, pur essendo ben definito sulla planimetria catastale, sul terreno è incerto. Il consulente, però, non ha dato minimamente corso ad alcuna verifica sulla strada comunale nè in merito alla individuazione del suo tracciato, nè alle sue caratteristiche nè alla onerosità connessa al ripristino del percorso in questione, laddove, al contrario, solo le operazioni di rilevamento in loco e di trasferimento sul terreno dei confini catastali avrebbero consentito di valutare la valida alternativa per l’accesso all’immobile degli attori e di individuare il percorso corretto della strada comunale al fine dell’esercizio del diritto di esigere la rimozione dei rilevati sbarramenti. Il giudice di merito, poi, hanno aggiunti i ricorrenti, ha omesso di scrutinare le deduzioni connesse al ripristino della strada (tratto in direzione nord dalla ***** alla SS n. *****), sebbene fosse incontroverso che detto ripristino era già stato iniziato da Z.V. e cioè una delle comproprietarie attrici, con il consenso del Comune di Maratea, pur trattandosi di deduzioni rilevanti per il giudizio, perchè idonee a privare di qualsiasi fondamento l’ipotesi dell’interclusione. La Z., infatti, hanno osservato i ricorrenti, dopo aver iniziato i lavori di recupero della strada comunale il 15/3/2006, ha riferito al Comune di Maratea, in data 10/4/2006, di aver iniziato i lavori di decespugliamento della via iniziando l’intervento dall’accesso esistente sulla SS n. ***** e che, in conseguenza degli stessi, i primi 550 ml erano percorribili per l’intera larghezza, i successivi 120 ml era stati esplorati e che i successivi e finali 500 ml erano perfettamente agibili fino al palazzo baronale. I giudici di merito, inoltre, nel formulare l’opzione per l’alternativa sussistente tra le diverse soluzioni, ha adottato la prospettazione del consulente tecnico d’ufficio, ispirata all’unico criterio dell’interesse delle controparti, e cioè la maggiore brevità della strada F., non comportante opere aggiuntive e quindi maggiori oneri, senza compiere alcuna valutazione circa il minor aggravio per quello servente, laddove, alla luce dei criteri stabiliti dall’art. 1051 c.c., la servitù deve essere costituita in modo che ne risulti garantita la libera esplicazione per l’utilità del fondo dominante ma in modo che la condizione del fondo servente sia aggravata nel minor grado possibile, specie se si tiene conto degli oneri che i ricorrenti subirebbero se il loro fondo-azienda fosse attraversato liberamente. Il conveniente uso del fondo, previsto dall’art. 1051 c.c., consente la costituzione coattiva della servitù di passaggio, hanno infine evidenziato i ricorrenti, solo a fronte di situazioni di effettiva necessità e non di maggiore comodità, laddove, nel caso di specie, la concessione della servitù non avrebbe alcuna utilità concreta per il fondo dominante posto che il palazzo L. risulta privo di pertinenze esterne, come cortili, autorimesse o spazi per parcheggi, per cui la servitù carrabile richiesta e ottenuta dei ricorrenti in favore di un immobile sprovvisto della possibilità di parcheggio, è inutiliter data.
8. Il motivo è infondato. Intanto, i ricorrenti cadono nell’equivoco di ritenere che la violazione o la falsa applicazione di norme di legge processuale dipendano o siano ad ogni modo dimostrate dall’erronea valutazione del materiale istruttorio, laddove, al contrario, un’autonoma questione di malgoverno degli artt. 115 e 116 c.p.c., può porsi, rispettivamente, solo allorchè il ricorrente alleghi che il giudice di merito: 1) abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposte d’ufficio al di fuori o al di là dei limiti in cui ciò è consentito dalla legge; 2) abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova che invece siano soggetti a valutazione (Cass. n. 27000 del 2016). Del resto, affinchè sia rispettata la prescrizione desumibile dal combinato disposto dell’art. 132, n. 4 e degli artt. 115 e 116 c.p.c., non si richiede al giudice del merito di dar conto dell’esito dell’avvenuto esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettategli, ma di fornire una motivazione logica ed adeguata all’adottata decisione, evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla ovvero la carenza di esse (Cass. 24434 del 2016). Nè sussiste il denunciato vizio di omesso esame del fatto decisivo costituito dall’interclusione del fondo: la sentenza impugnata è stata, infatti, depositata in data 4/12/2013 e ricade, pertanto, nella formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, quale risulta dalle modifiche introdotte dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b), conv. con la L. n. 134 del 2012. Ed è noto che, secondo le Sezioni Unite di questa Corte (n. 8053 del 2014), tale disposizione non contempla più il vizio di insufficiente o contraddittoria motivazione della decisione circa un punto decisivo, ma una censura del tutto autonoma, che ha riguardo all’omesso esame di un fatto materiale, principale o secondario, risultante dagli atti ed avente carattere decisivo, idoneo a determinare un diverso esito del giudizio con carattere di certezza e non di mera probabilità del giudizio. Ne consegue che, nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 del 2017, in motiv.; Cass. n. 9253 del 2017, in motiv.). Nel caso in esame, invece, i ricorrenti non hanno indicato il modo e il tempo in cui avrebbero dedotto, innanzi ai giudici di merito, il “fatto storico” (e cioè la sussistenza, o meno, dell’interclusione), che, nei termini prospettati in ricorso, la corte d’appello avrebbe omesso di esaminare. L’omesso esame di elementi istruttori, peraltro, non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora, com’è accaduto nel caso in esame, il fatto storico, rilevante in causa (vale a dire l’interclusione del fondo), sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. La valutazione degli elementi istruttori costituisce, infatti, un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione (Cass. n. 11176 del 2017, in motiv.). La sentenza impugnata, del resto, pur dichiarando l’inammissibilità del relativo motivo d’appello, ha nondimeno indicato le ragioni per le quali ha ritenuto che sussistesse l’interclusione del fondo appartenente agli appellati, evidenziando, per un verso, che gli appellanti non avevano indicato neppure l’ubicazione dei sentieri pedonali mentre, quanto alla strada comunale, gli accertamenti risultanti dagli atti dimostravano che tale strada si articolava in due direzioni delle quali, però, quella verso nord esiste solo sulle mappe catastali, essendone incerto il tracciato sul terreno, mentre quella verso sud consiste in uno stretto sentiero con forti pendenze adatto solo per attività sportive. Quanto al resto, la Corte rileva che l’appello che i ricorrenti hanno, a suo tempo, proposto, per come incontestatamente ricostruito nella sentenza impugnata, non risulta aver investito, a parte l’interclusione e i percorsi alternativi, le innumerevoli questioni articolate nel motivo in esame. Ed è, invece, noto che i motivi del ricorso per cassazione devono investire questioni che abbiano formato oggetto del thema decidendum del giudizio di secondo grado, come fissato dalle impugnazioni e dalle richieste delle parti: in particolare, non possono riguardare nuove questioni di diritto se esse postulano indagini ed accertamenti in fatto non compiuti dal giudice del merito ed esorbitanti dai limiti funzionali del giudizio di legittimità (Cass. n. 16742 del 2005; Cass. n. 22154 del 2004; Cass. n. 2967 del 2001). Pertanto, secondo il costante insegnamento di questa Corte (cfr. Cass. n. 20518 del 2008; Cass. n. 6542 del 2004), qualora una determinata questione giuridica, che implichi un accertamento di fatto, non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa: ciò che, nella specie, non risulta essere accaduto. E non solo: in tema di ricorso per cassazione, per infirmare, sotto il profilo della insufficienza argomentativa, la motivazione della sentenza che recepisca le conclusioni di una relazione di consulenza tecnica d’ufficio di cui il giudice dichiari di condividere il merito, è necessario che la parte alleghi di avere rivolto critiche alla consulenza stessa già dinanzi al giudice a quo, e ne trascriva, poi, per autosufficienza, almeno i punti salienti onde consentirne la valutazione in termini di decisività e di rilevanza, atteso che, diversamente, una mera disamina dei vari passaggi dell’elaborato peritale, corredata da notazioni critiche, si risolverebbe nella prospettazione di un sindacato di merito inammissibile in sede di legittimità (Cass. n. 11482 del 2016; Cass. n. 19427 del 2017). Le conclusioni assunte dal consulente tecnico, inoltre, sono impugnabili con ricorso per cassazione solamente qualora le censure ad esse relative siano state tempestivamente prospettate avanti al giudice del merito, alla stregua di quanto si evinca dalla sentenza impugnata ovvero dell’atto del procedimento di merito – da specificamente indicarsi da parte del ricorrente – ove le stesse risultino essere state formulate, e vengano espressamente indicate nel motivo di ricorso, in modo che al giudice di legittimità risultino consentito il controllo ex actis della relativa veridicità nonchè la valutazione della decisività della questione (Cass. n. 2707 del 2004; Cass. n. 7696 del 2006; Cass. n. 12532 del 2C)11; Cass. n. 20636 del 2013, per la quale “le contestazioni difensive della consulenza tecnica d’ufficio… devono essere sollevate nella prima udienza successiva al deposito della relazione…”). Nel caso in esame, i ricorrenti, se, da un lato, hanno riprodotto, nel ricorso per cassazione, alcuni passi della consulenza tecnica d’ufficio, non hanno, dall’altro lato, indicato specificamente in quale atto del procedimento di merito tali conclusioni siano state (tempestivamente) censurate.
9. Con il quinto motivo, i ricorrenti, lamentando la violazione e la falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, con riferimento alla costituzione delle servitù di acquedotto ed elettrodotto, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto inammissibile la doglianza relativa alle servitù accessorie, in quanto, a fronte della motivazione della sentenza di primo grado sul punto, del tutto generica, laddove, al contrario, con l’atto d’appello i convenuti avevano dedotto che le doglianze evidenziate valessero anche per le servitù di acquedotto e di elettrodotto, imposte senza che gli attori avessero fornito alcuna prova in ordine alla fondatezza delle relative pretese sul rilievo che i presupposti costitutivi di tali servitù non erano stati oggetto di alcuna attività istruttoria ed in alcun modo valutati dal consulente nella fase cautelare.
10. Il motivo è infondato. Come in precedenza evidenziato, ove il ricorrente censuri la statuizione di inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, ha l’onere di specificare, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione del giudice di appello e sufficientemente specifico, invece, il motivo di gravame sottoposto a quel giudice, e non può limitarsi a rinviare all’atto di appello, ma deve riportarne il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità (Cass. n. 22880 del 2017; Cass. n. 20405 del 2006). Nel caso di specie, invece, i ricorrenti, pur avendo trascritto il passo della sentenza del tribunale che avevano inteso impugnare con il motivo di gravame che la corte d’appello ha dichiarato inammissibile per genericità, non hanno, tuttavia, riprodotto in ricorso, con la dovuta compiutezza, la relativa censura, rendendo, in tal modo, impossibile alla Corte la verifica, sulla base del solo ricorso e senza ulteriori indagini (a partire dall’accesso diretto agli atti del giudizio di merito), della specificità, o meno, della stessa. E si è già detto, invece, che, con riguardo al testo dell’art. 342 c.p.c., comma 1, nel testo applicabile ratione temporis, e cioè antecedente alle modifiche apportate dal D.L. n. 83 del 2012, conv. con L. n. 134 del 2012, un capo di sentenza può ritenersi validamene impugnato solo se l’atto di appello contenga una parte argomentativa che, contrapponendosi alla motivazione della sentenza impugnata, con espressa e motivata censura, miri ad incrinarne il fondamento logico-giuridico (Cass. SU n. 23299 del 2011; Cass. n. 12280 del 2016).
11. Con il sesto motivo, i ricorrenti, lamentando la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1051 e 1052 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio (non interclusione del fondo), in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello, esaminando il quarto motivo, con il quale gli appellanti avevano dedotto che sarebbe stata applicabile la norma dell’art. 1052 c.c., i cui presupposti tuttavia non era stati dimostrati dagli attori, ha ritenuto che il motivo fosse infondato sul rilievo che, una volta riconosciuta l’interclusione ed applicato l’art. 1051 c.c., restava assorbita la diversa fattispecie di cui all’art. 1052 c.c., come il più contiene il meno. In realtà, hanno osservato i ricorrenti, il Palazzo Baronale non può considerarsi assolutamente intercluso ma neppure vi sono i presupposti per considerarlo relativamente intercluso: premesso che tale ipotesi si verifica nel caso in cui vi sia un itinerario funzionalmente destinato al passaggio, le cui caratteristiche siano in concreto insufficienti per l’esplicazione del transito stesso, hanno rilevato i ricorrenti che il consulente tecnico d’ufficio ha riscontrato l’esistenza di una via di accesso al fabbricato L., vale a dire la strada comunale in direzione della spiaggia di *****, pur evidenziando che si tratta di un sentiero lungo circa 600 mt., di cui i primi 270 facilmente percorribili mentre i restanti 330 “si volgono lungo il costone roccioso con parete quasi verticale con l’ampiezza del sentiero sovente di poche decine di centimetri irto di rocce ed a strapiombo sul mare” e che “il sentiero termina sulla spiaggia di *****” e che “da questo punto… bisogna percorrere la spiaggia a ridosso della scarpata per ulteriore mml 400 fino a raggiungere la strada comunale che dalla spiaggia conduce alla S.S. *****”, ed aggiungendo che “tale tratto di spiaggia a ridosso della scarpata è stato recentemente interessato dalla caduta di massi, che negli ultimi mesi hanno interrotto la SS ***** tra il Comune di ***** e di *****…”. Ne consegue, hanno aggiunto i ricorrenti, che, trattandosi di sentiero che conduce alla via pubblica, con funzione di passaggio, la fattispecie applicabile, trattandosi di ipotesi di non interclusione del fondo, era quella di cui all’art. 1052 c.c., a norma del quale, però, il passaggio può essere concesso solo quando sia riconosciuto che la domanda risponda alle esigenze attuali e concrete dell’economia e dell’industria, laddove, al contrario, gli attori hanno genericamente dedotto in citazione che non possono accedere al Palazzo, non possono ristrutturarlo, non possono abitarvi, non possono creare le condizioni, eventualmente, per utilizzarlo economicamente onde sfruttarne le potenzialità turistiche.
12. Il motivo è infondato. L’accertamento dell’interclusione assoluta del fondo dominante, oramai definitivo in conseguenza del rigetto dei motivi in precedenza esaminati, comporta, infatti, l’assorbimento, per implicazione, della censura articolata. D’altra parte, l’impossibilità di accedere o uscire da un fondo, sebbene dotato di un’apertura sulla via pubblica, per la impraticabilità di questa, può essere assimilata, sotto il profilo della ratio che sorregge l’imposizione della servitù di passaggio coattivo, ai casi di interclusione assoluta del fondo dominante espressamente indicati dall’art. 1051, comma 1, c.c., salvo il caso in cui si tratti di una impraticabilità occasionale o transitoria della pubblica via (Cass. n. 311 del 1999, in motiv.). Nel caso di specie, sono gli stessi ricorrenti ad aver evidenziato come il consulente tecnico d’ufficio ha riscontrato l’esistenza di una via di accesso al fabbricato L., vale a dire la strada comunale in direzione della spiaggia di *****, rilevando, però, che si tratta di un sentiero lungo circa 600 mt., di cui i primi 270 facilmente percorribili mentre i restanti 330 “si volgono lungo il costone roccioso con parete quasi verticale con l’ampiezza del sentiero sovente di poche decine di centimetri irto di rocce ed a strapiombo sul mare” e che “il sentiero termina sulla spiaggia di *****” e che “da questo punto… bisogna percorrere la spiaggia a ridosso della scarpata per ulteriore mml 400 fino a raggiungere la strada comunale che dalla spiaggia conduce alla S.S. *****”, ed aggiungendo che “tale tratto di spiaggia a ridosso della scarpata è stato recentemente interessato dalla caduta di massi, che negli ultimi mesi hanno interrotto la SS ***** tra il Comune di ***** e di *****…”. Del resto, ai sensi dell’art. 1052 c.c. – da leggere alla luce della sentenza n. 167 del 1999 della Corte costituzionale – la costituzione di una servitù di passaggio in favore di un fondo non intercluso può avvenire non soltanto in presenza di esigenze dell’agricoltura o dell’industria, bensì anche ai fini di consentire una piena accessibilità alla casa di abitazione (Cass. n. 10045 del 2008; conf., Cass. n. 14103 del 2012; Cass. n. 8817 del 2018).
13. Con il settimo motivo, i ricorrenti, lamentando la violazione e la falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c., con riferimento all’art. 1153 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio (sull’equo indennizzo), in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello, esaminando il quinto motivo d’appello, con il quale gli appellanti si erano doluti dell’importo dell’indennità ad essi riconosciuta sul rilievo che il loro fondo è utilizzato per lo svolgimento di un’attività turistica, ha ritenuto che l’impugnazione fosse inammissibile nella parte in cui ha allegato, in modo meramente assertivo, che il diritto determinerebbe il notevole deprezzamento del proprio fondo, in tal modo disattendendo i criteri di specificità imposti dall’art. 342 c.p.c.. In realtà, hanno osservato i ricorrenti, se si considera, in particolare, che il loro fondo è utilizzato per lo svolgimento di un’attività turistica, i danni che la concessione del passaggio sulla strada F. comporta in termini economici sono agevolmente individuabili in ragione non solo del danno che può risultare dall’esercizio del passaggio ma anche del deprezzamento che il fondo servente subisce per effetto dell’onere che grava su di esso.
14. Il motivo è inammissibile. Come più volte in precedenza evidenziato, il ricorrente che censuri la statuizione di inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, ha l’onere di specificare, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione del giudice di appello e sufficientemente specifico, invece, il motivo di gravame sottoposto a quel giudice, e non può limitarsi a rinviare all’atto di appello, ma deve riportarne il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità (Cass. n. 22880 del 2017; Cass. n. 20405 del 2006). Nel caso di specie, invece, i ricorrenti non hanno provveduto a trascrivere in ricorso nè il passo della sentenza del tribunale che avevano inteso impugnare con il motivo di gravame che la corte d’appello ha dichiarato inammissibile per genericità, nè – salvo che per il riferimento alla utilizzazione del fondo per lo svolgimento di un’attività turistica – la relativa censura, rendendo, in tal modo, impossibile alla Corte la verifica, sulla base del solo ricorso e senza ulteriori indagini (a partire dall’accesso diretto agli atti del giudizio di merito), della specificità, o meno, della stessa: ed infatti, sia pur con riguardo al testo dell’art. 342 c.p.c., comma 1, nel testo applicabile ratione temporis, e cioè antecedente alle modifiche apportate dal D.L. n. 83 del 2012, conv. con L. n. 134 del 2012, un capo di sentenza può ritenersi validamente impugnato solo se l’atto di appello contenga una parte argomentativa che, contrapponendosi alla motivazione della sentenza impugnata, con espressa e motivata censura, miri ad incrinarne il fondamento logico-giuridico (Cass. SU n. 23299 del 2011; Cass. n. 12280 del 2016).
15. Il ricorso deve essere, quindi, rigettato.
16. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
17. La Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per l’applicabilità del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.
P.Q.M.
La Corte così provvede: rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti a rimborsare ai controricorrenti le spese di lite, che liquida in Euro 5.400,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali nella misura del 15%; dà atto della sussistenza dei presupposti per l’applicabilità del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 14 novembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 10 maggio 2019
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