LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –
Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giusepp – rel. Consigliere –
Dott. MELONI Marina – Consigliere –
Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –
Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 7585/2015 proposto da:
D.V.P., e S.F., elettivamente domiciliati in Roma, via della Bufalotta 174, presso lo studio dell’avvocato Patrizia Barlettelli, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato Leonardo Scardigno;
– ricorrenti –
contro
Intesa Sanpaolo Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in Roma, piazza Cavour, presso la Cancelleria civile della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avv. Antonio Ferraguto;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 162/2014 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 17/02/2014;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 17/01/2019 dal Consigliere Dott. UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE SCOTTI.
FATTI DI CAUSA
1. Con atto di citazione notificato il 20/1/2005 D.V.P. e S.F. hanno convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Trani, Sezione Distaccata di Ruvo di Puglia, la Banca Intesa s.p.a., esponendo di aver intrattenuto con il Banco Ambrosiano Veneto s.p.a., società poi incorporata nella società convenuta, un contratto di deposito mobiliare, custodia e amministrazione, da essi utilizzato per l’acquisto di titoli di Stato con assenza di rischio di perdita di capitale; gli attori hanno sostenuto di essere stati indotti da funzionari della Banca ad acquistare bond argentini ad elevato rendimento, già nel portafoglio dello stesso Istituto di credito, per complessivi Euro 49.715,94, senza essere stati previamente informati del rischio dell’investimento; gli attori hanno aggiunto anche di essere stati dissuasi dal disinvestimento, nonostante che dal luglio 2000 gli intermediari finanziari fossero a conoscenza del rischio di insolvenza dell’Argentina, fortemente indebitata con l’estero, e che i titoli si erano integralmente svalutati per default a fine 2001.
Gli attori hanno dedotto la violazione degli obblighi informativi a carico dell’intermediario finanziario, il dolo della Banca per il conflitto di interessi derivante dalla previa sottoscrizione dei titoli, la mancanza di diligenza della Banca, tenuto conto della loro qualità di piccoli risparmiatori e del rischio dell’operazione.
D.V.P. e S.F. hanno pertanto richiesto la dichiarazione di nullità o l’annullamento dell’ordine di acquisto e comunque l’accertamento dell’inadempimento della Banca con la condanna alla restituzione della somma investita con gli accessori.
La Banca ha messo in rilievo che nel contratto quadro da essi sottoscritto gli attori avevano rifiutato di fornire indicazioni sulla loro situazione finanziaria; ha sostenuto che gli attori avevano deciso di procedere all’acquisto, benchè il funzionario li avesse espressamente avvertiti dei rischi elevati connessi all’investimento; ha sottolineato la propria qualità di mero custode dei titoli, senza gestione patrimoniale, escludendo pertanto di essere tenuta a informare l’investitore delle perdite subite, cosa che comunque aveva fatto costantemente; ha eccepito la prescrizione dell’azione di annullamento, comunque infondata; ha escluso la sussistenza di un conflitto di interessi, assumendo che i clienti erano stati debitamente informati del fatto che l’acquisto avveniva in contropartita diretta; ha prospettato, in subordine, una corresponsabilità colposa degli attori nella causazione del danno.
Per il caso di ritenuta nullità dell’operazione di acquisto, la Banca ha chiesto, infine, di escludere la ripetizione dell’importo delle cedole incassate dagli investitori.
Previa conversione del rito, la causa, cancellata dal ruolo, è stata riassunta dinanzi al Tribunale di Trani ed è stata quindi decisa con sentenza del 30/10-15/11/2007, con il rigetto della domanda degli attori e la compensazione integrale delle spese di lite.
2. Avverso la predetta sentenza del Tribunale di Trani hanno proposto appello, in via principale e nel merito, S.F. e D.V.P. e, in via incidentale, la Banca convenuta, con riferimento alla statuizione di compensazione delle spese di lite.
Con sentenza del 17/2/2014 la Corte di appello di Bari ha respinto sia l’appello principale, sia l’appello incidentale, condannando gli appellanti principali alla rifusione delle spese del giudizio di secondo grado.
La Corte di appello ha ritenuto che la prova orale sui capi da 17 a 30 formulati per la prima volta nell’istanza di fissazione di udienza D.Lgs. n. 5 del 2003, ex art. 8, fosse inammissibile per tardività; ha ritenuto che i capitoli di prova relativi alla violazione degli obblighi informativi da parte dell’intermediario fossero inammissibili perchè l’abusivo riempimento absque pactis esigeva la proposizione della querela di falso; ha sottolineato l’esistenza della prova documentale sia dell’informazione fornita dalla Banca ai clienti circa l’inadeguatezza dell’operazione e il rischio di perdita del capitale, sia del rifiuto opposto dagli attori a fornire le informazioni richieste dalla Banca; ha sostenuto che alla data del 27/4/1999 la Banca non disponeva di dati certi e precisi da cui desumere una elevata rischiosità dei titoli, giudizio da effettuarsi ex ante e non ex post; ha ritenuto tardivo il disconoscimento degli attori della dichiarazione resa sul loro profilo e dell’ordine (doc. 5 e 6 di parte convenuta), dopo il decorso del termine di cui all’art. 215 c.p.c., n. 2; ha rigettato la domanda di nullità, escludendo che la violazione di norme di comportamento da parte dell’intermediario potesse incidere sulla genesi dell’atto negoziale; ha rigettato la domanda di annullamento per errore o per dolo, assumendo che la Banca avesse agito nel completo rispetto delle disposizioni legislative e regolamentari; ha escluso il conflitto di interessi della Banca in considerazione dell’espressa autorizzazione conferita dal cliente ad effettuare l’operazione in contropartita diretta; ha ritenuto che la Banca non avesse uno specifico interesse a concludere l’operazione perchè si era procurata i titoli sul mercato (e non li deteneva anteriormente) e comunque aveva praticato un prezzo conforme a quello di mercato; ha ritenuto giustificata la compensazione delle spese del giudizio di primo grado per la controvertibilità di molti profili della lite; ha ritenuto che il rigetto dell’appello incidentale avesse un rilievo marginale e secondario nell’economia del giudizio di appello, tale da non giustificare la compensazione delle spese anche del giudizio di secondo grado.
3. Avverso la sentenza della Corte di appello di Bari del 17/2/2014, non notificata, hanno proposto ricorso per cassazione D.V.P. e S.F. con atto notificato il 9/3/2015, svolgendo tre motivi.
Ha resistito con controricorso notificato il 17/4/2015 Intesa San Paolo s.p.a., chiedendo di dichiarare il ricorso inammissibile, improponibile o comunque infondato.
In data 7/1/2019 i ricorrenti hanno depositato memoria ex art. 380 bis c.p.c., comma 1, illustrando le proprie tesi con numerosi richiami giurisprudenziali.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione degli artt. 244 e 345 c.p.c., art. 2697 c.c. e degli artt. 61,191 e 194 c.p.c..
1.1. I ricorrenti assumono che la Corte di appello di Bari ha rigettato la loro richiesta di prove orali sulla base di due presupposti macroscopicamente errati. Infatti, non era vero che i capitoli di prova da 17 a 30 fossero stati formulati solo nell’istanza di fissazione dell’udienza perchè essi erano identici a quelli articolati in atto di citazione 17/1/2005 (pag. 1-4), prima memoria 3/1/2006 (pagg. 1-3), memoria di replica 20/3/2006 (pag. 24), istanza di fissazione di udienza del 27/4/2006 (pag-21-25), comparsa conclusionale 21/5/2007 e atto di appello 18/6/2008.
1.2. Con il motivo, rubricato sotto la classificazione della violazione di legge, e che in realtà deduce un supposto travisamento degli atti processuali da parte della Corte territoriale (che avrebbe ritenuto erroneamente proposti per la prima volta con l’istanza di fissazione di udienza una serie di capitoli di prova, perfettamente conformi a quelli già dedotti in precedenza), i ricorrenti lamentano un duplice macroscopico errore, anche se in realtà ne descrivono uno solo (la predetta supposizione di novità delle deduzioni di prova di cui alla istanza di fissazione di udienza).
1.3. L’apprezzamento del giudice del merito, che abbia ritenuto pacifica e non contestata una circostanza di causa, qualora sia fondato sulla mera assunzione acritica di un fatto, può configurare un travisamento, denunciabile solo con istanza di revocazione, ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4, mentre è sindacabile in sede di legittimità, sotto il profilo del vizio di motivazione, ove si ricolleghi ad una valutazione ed interpretazione degli atti del processo e del comportamento processuale delle parti (Sez. 3, Sent. n. 4893 del 14/03/2016, Rv. 639444-01; Sez. 2, Sent. n. 19921 del 14/11/2012, Rv. 624476-01; Sez. 2, Sent. n. 1427 del 25/01/2005, Rv. 578757-01; Sez. Lav. Sent. n. 2529 del 09/02/2016, Rv. 638935-01).
1.4. Tuttavia, il ricorso, quand’anche riqualificato, alla stregua del principio iura novit curia, come volto a denunciare un vizio motivazionale da travisamento nella lettura degli atti del processo, per un verso, pecca di aspecificità e autosufficienza, perchè si limita a indicare la pretesa corrispondenza fra i capitoli di prova dell’istanza di fissazione dell’udienza e quelli della memoria in riassunzione, senza illustrare nel dettaglio il contenuto dei capitoli e senza raffrontarli in modo specifico.
1.5. Inoltre, per altro verso, anche ipoteticamente concedendo la correttezza dell’assunto circa il fatto processuale asseritamente travisato, vi è da considerare che i ricorrenti propongono un motivo di carattere “istruttorio”, volto a lamentare la mancata ammissione di una prova.
Secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte, la mancata ammissione di prove può essere denunciata per cassazione solo nel caso in cui abbia determinato l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, quindi, se la prova non ammessa sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento (Sez. 2, 23/04/2018, n. 9985; Sez. 1, 20/06/2017, n. 15200; Sez. 6-1, Ord. n. 5654 del 07/03/2017, Rv. 643989-01; Sez. 2, 04/12/2015, n. 24754).
Inoltre, qualora con il ricorso per cassazione siano denunciati la mancata ammissione di mezzi istruttori e vizi della sentenza derivanti dal rifiuto del giudice di merito di dare ingresso a mezzi istruttori ritualmente richiesti, il ricorrente ha l’onere di indicare specificamente i mezzi istruttori, trascrivendo le circostanze che costituiscono oggetto di prova, nonchè di dimostrare sia l’esistenza di un nesso eziologico tra l’omesso accoglimento dell’istanza e l’errore addebitato al giudice, sia che la pronuncia,senza quell’errore, sarebbe stata diversa, così da consentire al giudice di legittimità un controllo sulla decisività delle prove (Sez. 6-1, Ordinanza n. 23194 del 04/10/2017, Rv. 645753-01; Sez. 6-3, Ordinanza n. 19985 del 10/08/2017, Rv. 645357-01).
La censura contenuta nel ricorso per cassazione relativa alla mancata ammissione della prova testimoniale è pertanto inammissibile quando con essa il ricorrente si duole della valutazione rimessa al giudice del merito, come quella di non pertinenza della denunciata mancata ammissione della prova orale rispetto ai fondamenti della decisione, senza allegare le ragioni che avrebbero dovuto indurre ad ammettere tale prova, nè adempiere agli oneri di allegazione necessari a individuare la decisività del mezzo istruttorio richiesto e la tempestività e ritualità della relativa istanza di ammissione (Sez. 6-Lav, Ord. n. 8204 del 04/04/2018, Rv. 647571-01).
1.6. Nella specie i ricorrenti si sono sottratti a tale onere, non illustrando il contenuto e la decisività dei capitoli di prova non ammessi; in ogni caso, anche andando a cogliere il contenuto dei capitoli 25 e 26, riportato nel contesto del secondo motivo di ricorso, non risulta affatto che con tali capitoli fosse stata dedotta la sussistenza di un patto ad scribendum di uno specifico contenuto, in ipotesi violato dal funzionario bancario C.D..
Il capo 25 si limita ad assumere che il doc. 5 prodotto dalla Banca (“Documento sui rischi generali degli investimenti finanziari”) era stato sottoscritto dagli attori prima della compilazione; il capo 26, molto genericamente, si limita ad assumere che gli attori avevano apposto le loro firme “sulla modulistica prestampata”, seguendo pedissequamente le indicazioni e rassicurazioni del funzionario C..
Nessuno degli altri capi concerne il patto di riempimento dei documenti sottoscritti in bianco; essi riguardano piuttosto svariate deduzioni sul livello di esperienza finanziaria degli attori e sulla loro propensione al rischio, sulla conoscenza da parte della Banca di tali elementi, sulla mancata somministrazione di informazioni sul rischio dell’investimento.
Ed allora occorre considerare che la sentenza impugnata a pagina 9 ha fondato la reiezione delle deduzioni attoree di prova orale afferenti le circostanza della sottoscrizione in bianco dei documenti n. 5 e 6 delle produzioni della convenuta (per vero evocando il doc. 6 solo attraverso il generico riferimento alla modulistica contrattuale) sulla base del fatto che l’abusivo riempimento sarebbe avvenuto absque pactis (nel qual caso la giurisprudenza pacifica esige la proposizione della querela di falso a norma dell’art. 221 c.p.c.) e non già, come sostenevano i ricorrenti, contra pacta (ipotesi nella quale non è necessaria la querela di falso ed è ammissibile la prova orale).
Il punto – rilevato dalla Corte territoriale – è che gli attori non avevano dedotto quale fosse il contenuto del patto violato, cosa che avrebbe implicato la dimostrazione di un accordo dal contenuto diverso rispetto a quello rappresentato nel documento. Deduzione questa totalmente mancata e non indicata neppure nel contesto del motivo istruttorio in esame, privo, per l’effetto, della necessaria attitudine dirimente del diniego di ammissione delle prove proposte, comunque inammissibili per la ragione non censurata sopra esposta.
1.7. La denunzia di abusivo riempimento di un foglio firmato in bianco con sottoscrizione riconosciuta (o autenticata) richiede l’esperimento della querela di falso, ai sensi dell’art. 2702 c.c., nel caso in cui il riempimento stesso sia avvenuto absque pactis, ovvero senza che il suo autore sia stato autorizzato dal sottoscrittore con un patto preventivo. Diversamente, non è richiesto l’esperimento della querela di falso nella ipotesi in cui il riempimento sia stato eseguito contra pacta, cioè in modo difforme da quello consentito dall’accordo intervenuto preventivamente. La diversa disciplina si spiega perchè nella prima ipotesi l’abuso incide sulla provenienza e sulla riferibilità della dichiarazione al sottoscrittore, mentre nella seconda si traduce in una mera disfunzione interna del procedimento di formazione della dichiarazione medesima, in relazione allo strumento adottato (mandato ad scribendum), la quale implica solo la non corrispondenza tra ciò che risulta dichiarato e ciò che si intendeva dichiarare (Sez. 3, Sent. n. 2524 del 07/02/2006, Rv. 586909-01; Sez. 3, Sent. n. 5417 del 07/03/2014, Rv. 630010-01).
Il riempimento absque pactis consiste in una falsità materiale realizzata trasformando il documento in qualcosa di diverso da quel che era in precedenza, mentre il riempimento contra pacta (o abuso di biancosegno) consiste in un inadempimento derivante dalla violazione del mandatum ad scribendum, il quale può avere un contenuto sia positivo che negativo (Sez. 3, Ord. n. 899 del 17/01/2018, Rv. 647124-01).
Il disconoscimento non costituisce mezzo processuale idoneo a dimostrare l’abusivo riempimento del foglio in bianco, sia che si tratti di riempimento absque pactis, sia che si tratti di riempimento contra pacta, dovendo, invece, essere proposta la querela di falso, se si sostenga che nessun accordo per il riempimento sia stato raggiunto dalle parti, e dovendo invece essere fornita la prova di un accordo dal contenuto diverso da quello del foglio sottoscritto, se si sostenga che l’accordo raggiunto fosse, appunto, diverso (Sez. 3, Sent. n. 25445 del 16/12/2010, Rv. 614986-01).
1.8. I ricorrenti nella rubrica del motivo si riferiscono anche alla violazione delle norme in materia di ammissione della consulenza tecnica d’ufficio (artt. 61,191 e 194 c.p.c.) affermando che il ricorso alla consulenza tecnica non sarebbe valso a sopperire alla carenza di un onere probatorio, già documentalmente adempiuto ma solo a conoscere e interpretare dati finanziari e contabili propri della Banca.
La deduzione è totalmente generica poichè non esplicita neppure il contenuto del mandato peritale auspicato e disatteso e tradisce le sue stesse premesse, posto che in realtà la predetta consulenza, secondo le indicazioni contenute alle pagine 11-12 del ricorso, avrebbe dovuto valere ad acquisire una serie molto articolata di elementi conoscitivi di fatto.
In secondo luogo, la censura non tiene conto in alcun modo della ratio decidendi della sentenza impugnata, fondata sul rifiuto dei clienti di fornire informazioni sul loro profilo finanziario e sulla documentata valutazione di inadeguatezza dell’operazione, comunque disposta dagli investitori avvertiti per iscritto.
2. Con il secondo motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione degli artt. 221 c.p.c. e art. 2697 c.c..
2.1. I ricorrenti osservano che i capitoli di prova respinti dalla Corte territoriale attenevano a circostanze di fatto più ampie e articolate che il mero abusivo riempimento dei documenti, volte a chiarire il contesto in cui l’ordine di acquisto era stato sottoscritto dai ricorrenti: si è già detto dell’inammissibilità di tale censura perchè inidonea a demolire l’impianto decisorio della sentenza impugnata.
2.2. I ricorrenti affermano di aver sempre sostenuto di essersi limitati a rimettere al funzionario bancario la compilazione del questionario mediante apposizione delle crocette, con atteggiamento “fidelistico”, in ragione dei pregressi rapporti e della loro totale ignoranza in materia finanziaria, sapendo ben nota all’istituto bancario la loro totale assenza di propensione al rischio.
La compilazione del questionario sarebbe avvenuta perciò non già absque pactis, ma contra pacta, da parte del funzionario, che aveva perseguito un interesse antitetico a quello dei ricorrenti, che gli avevano demandato la compilazione secondo le sue pregresse conoscenze circa le loro effettive propensioni, e non già perchè egli attestasse un rifiuto, mai opposto, dagli anziani coniugi a fornire informazioni e a fronte delle rassicurazioni circa la tranquillità dell’operazione.
A questo proposito è sufficiente il richiamo delle considerazioni in precedenza esposte: i ricorrenti, da un lato, non indicano quando e come, e con quali atti processuali, avrebbero dedotto il contenuto del mandato di riempimento al funzionario bancario; in ogni caso, non deducono, se non in negativo, il contenuto del mandato asseritamente conferito.
2.3. Contrariamente a quanto assunto dalla sentenza, i ricorrenti sostengono di non aver affatto rifiutato di fornire alla Banca le informazioni da essa richieste.
Contraddittoriamente la Corte di appello avrebbe, correttamente, escluso la valenza confessoria della dichiarazione dei clienti di rifiuto di fornire informazioni, che non poteva manlevare l’intermediario finanziario dai suoi obblighi di corretta e adeguata informativa, ma aveva poi fatto leva sulla dichiarazione dei clienti di rifiuto di fornire informazioni, considerata di valenza dirimente.
2.4. I ricorrenti confondono due prospettive ben distinte.
Una cosa è la valenza confessoria della dichiarazione dei clienti investitori di aver rifiutato di fornire all’intermediario informazioni sulle proprie conoscenze, propensioni e obiettivi, documentalmente provata da ben due documenti sottoscritti dai ricorrenti, non tempestivamente disconosciuti nella sottoscrizione e non aggrediti con la necessaria querela di falso; altro tema è invece se tale rifiuto escludeva radicalmente la sussistenza dell’obbligo informativo in capo alla Banca.
In ogni caso, la Corte barese non ha affatto escluso la valenza confessoria della dichiarazione dei ricorrenti, allorchè a pagina 13, ha proposto un’argomentazione rafforzativa di tipo concessivo, facendo leva sul carattere dirimente della segnalazione scritta di inadeguatezza dell’operazione.
2.5. E’ pur vero che l’intermediario finanziario, convenuto nel giudizio di risarcimento del danno per violazione degli obblighi informativi, non è esonerato dall’obbligo di valutare l’adeguatezza dell’operazione di investimento nel caso in cui l’investitore, nel contratto-quadro, si sia rifiutato di fornire le informazioni sui propri obiettivi di investimento e sulla propria propensione al rischio; in tal caso infatti l’intermediario deve comunque compiere quella valutazione, in base ai principi generali di correttezza e trasparenza, tenendo conto di tutte le notizie di cui egli sia in possesso, come, ad esempio, l’età, la professione, la presumibile propensione al rischio alla luce delle operazioni pregresse e abituali, la situazione di mercato (Sez. 1, Sent. n. 5250 del 16/03/2016, Rv. 638899-01; Sez. 1, Sent. n. 18039 del 19/10/2012, Rv. 624751-01).
Tuttavia tali considerazioni non travolgono la ratio decidendi della sentenza impugnata, che, a prescindere dall’adempimento o meno dell’obbligo informativo circa il coefficiente di rischio dell’investimento da parte della Banca, ha considerato dirimente la formulazione dell’espresso avvertimento di inadeguatezza dell’operazione, ai sensi e per gli effetti dell’art. 29 Reg. Consob n. 11522 del 1998 e dell’esplicita disposizione per iscritto rilasciata dai clienti a procedere comunque alla negoziazione in acquisto del titolo.
2.6. Il D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 21, comma 1 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria: T.U.F.) detta i criteri generali ai quali i soggetti abilitati debbono attenersi nella prestazione dei servizi e delle attività di investimento e accessori; essi devono: a) comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza, per servire al meglio l’interesse dei clienti e per l’integrità dei mercati; b) acquisire le informazioni necessarie dai clienti e operare in modo che essi siano sempre adeguatamente informati; c) utilizzare comunicazioni pubblicitarie e promozionali corrette, chiare e non fuorvianti; d) disporre di risorse e procedure, anche di controllo interno, idonee ad assicurare l’efficiente svolgimento dei servizi e delle attività.
Gli artt. 28 e 29 del Regolamento Consob n. 11522 del 1998 mirano ad attuare più specificamente gli obblighi dettati dall’art. 21 predetto.
L’art. 28, in tema di “Informazioni tra gli intermediari e gli investitori”, per quanto rileva impone agli intermediari autorizzati, prima della stipulazione del contratto di gestione e di consulenza in materia di investimenti e dell’inizio della prestazione dei servizi di investimento e dei servizi accessori a questi collegati, di: a) chiedere all’investitore notizie circa la sua esperienza in materia di investimenti in strumenti finanziari, la sua situazione finanziaria, i suoi obiettivi di investimento, nonchè circa la sua propensione al rischio, con la previsione che l’eventuale rifiuto di fornire le notizie richieste deve risultare dal contratto ovvero da apposita dichiarazione sottoscritta dall’investitore; b) consegnare agli investitori il documento sui rischi generali degli investimenti in strumenti finanziari di cui all’Allegato n. 3.
Inoltre gli intermediari autorizzati non possono effettuare o consigliare operazioni o prestare il servizio di gestione se non dopo aver fornito all’investitore informazioni adeguate sulla natura, sui rischi e sulle implicazioni della specifica operazione o del servizio, la cui conoscenza sia necessaria per effettuare consapevoli scelte di investimento o disinvestimento.
L’art. 29, in tema di “Operazioni non adeguate” prescrive agli intermediari autorizzati di astenersi dall’effettuare con o per conto degli investitori operazioni non adeguate per tipologia, oggetto, frequenza o dimensione. A tali fini, gli intermediari autorizzati tengono conto delle informazioni di cui all’art. 28 e di ogni altra informazione disponibile in relazione ai servizi prestati.
Gli intermediari autorizzati, quando ricevono da un investitore disposizioni relative ad una operazione non adeguata, lo informano di tale circostanza e delle ragioni per cui non è opportuno procedere alla sua esecuzione. Qualora l’investitore intenda comunque dare corso all’operazione, gli intermediari autorizzati possono eseguire l’operazione stessa solo sulla base di un ordine impartito per iscritto ovvero, nel caso di ordini telefonici, registrato su nastro magnetico o su altro supporto equivalente, in cui sia fatto esplicito riferimento alle avvertenze ricevute.
Nell’ipotesi in cui un investimento finanziario sia stato qualificato anche dall’intermediario come operazione inadeguata, l’assolvimento degli obblighi informativi cui quest’ultimo è tenuto, in mancanza della prova dell’osservanza delle cogenti prescrizioni contenute negli artt. 28 e 29 del Regolamento Consob, n. 11522 del 1998, attuative dell’art. 21 del T.U.F., non può essere desunta in via esclusiva dal profilo soggettivo del cliente, dal suo rifiuto di fornire indicazioni su di esso o soltanto dalla sottoscrizione dell’avvenuto avvertimento dell’inadeguatezza dell’operazione in forma scritta, essendo necessario che l’intermediario, a fronte della sola allegazione contraria dell’investitore sull’assolvimento degli obblighi informativi, fornisca la prova positiva, con ogni mezzo, del comportamento diligente della banca. Tale prova può essere integrata dal profilo soggettivo del cliente o da altri convergenti elementi probatori ma non può essere desunta soltanto da essi. (Sez. 1, Sent. n. 19417 del 03/08/2017, Rv. 645175-02).
2.7. In ogni caso, i ricorrenti non hanno svolto alcuna pertinente censura avverso i passaggi motivazionali della sentenza impugnata (pag. 14-15), secondo la quale al momento dell’acquisto operato dai ricorrenti, ossia in data 27/4/1999, non sussisteva alcun motivo di specifico allarme relativamente ai titoli di stato argentini che facesse presagire una elevata rischiosità dei titoli e addirittura il rischio di perdita del capitale, alla luce di un giudizio prognostico doverosamente formulato ex ante sulla base delle informazioni note in quel momento.
2.8. I ricorrenti sostengono che la mancata informazione al cliente influenzava la validità del contratto ai sensi dell’art. 1418 c.c., al pari della successiva inottemperanza agli obblighi protettivi dopo l’esplosione del caso “bond argentini”.
I ricorrenti osservano che anche ammesso, come non era, che i clienti avessero rifiutato di fornire le necessarie informazioni, l’intermediario non sarebbe stato comunque esonerato, alla luce delle regole generali in materia contrattuale e del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 21 e art. 29 del Regolamento Consob n. 11522/1998 dal valutare l’adeguatezza dell’operazione alla luce di tutti gli elementi in suo possesso, circa le caratteristiche soggettive e tipologiche degli investitori, le operazioni di investimento precedentemente compiute, la natura dell’operazione.
Il principio invocato è del tutto corretto, ma non appare pertinente al caso di specie, laddove esiste la prova documentale che Intesa San Paolo s.p.a. ha valutato l’operazione inadeguata e l’ha comunicato per iscritto ai clienti che, avvertiti, hanno comunque espressamente disposto di procedere egualmente all’acquisto del titolo de quo.
2.9. Secondo i ricorrenti, l’obbligo informativo aveva carattere continuativo e non si esauriva all’atto dell’operazione di acquisto.
Tuttavia i ricorrenti non deducono di aver proposto un motivo di appello sul punto, la cui formulazione non risulta documentata dalla sentenza impugnata, che, peraltro, puntualizza che non era stato stipulato fra le parti un contratto di gestione, ma solo un contratto di negoziazione di titoli.
E’ quindi il caso di ricordare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, l’intermediario destinatario di un incarico per negoziare strumenti finanziari non ha l’obbligo, dopo la conclusione del contratto, ovvero nella fase esecutiva, di tenere informato l’investitore sulla eventuale variazione dei profili di rischio. Un simile obbligo, difatti, sussiste solo nel caso di contratti di gestione e di consulenza in materia di investimenti, trovando giustificazione nel fatto stesso dell’affidamento da parte del cliente all’intermediario del governo del proprio patrimonio mobiliare; infatti gli obblighi informativi gravanti sull’intermediario, ai sensi del D.Lgs. 24 febbraio 1998, art. 58, art. 21, comma 1, lett. b), sono finalizzati a consentire all’investitore di operare investimenti pienamente consapevoli, sicchè tali obblighi, al di fuori del caso del contratto di gestione e di consulenza in materia di investimenti, vanno adempiuti in vista dell’investimento e si esauriscono con esso (Sez. 1, Ord. n. 10112 del 24/04/2018, Rv. 648554-02).
2.10. Secondo i ricorrenti, del tutto contraddittoriamente, la sentenza impugnata aveva assunto, smentendo il fulcro stesso delle sue argomentazioni (il rifiuto dei ricorrenti di fornire le informazioni richieste) che la categoria speculativa dell’investimento fosse del tutto compatibile con il profilo manifestato e le esigenze dichiarate dagli investitori.
Quanto alle richieste di disinvestimento asseritamente proposte dai ricorrenti, la deduzione, a cui fanno riferimento i capi di prova da 14 a 16, risulta formulata in modo inammissibilmente generico, tanto da evocare, oltretutto senza riferimenti temporali e circostanziali precisi e determinati, una serie di generiche considerazioni – e non già un ordine inequivocamente formulato, a cui sarebbero seguite altrettanto generiche rassicurazioni da parte del funzionario bancario.
Non risulta tuttavia, anche in questo caso, che sia stato dedotto, in modo specifico e puntuale, un motivo di appello sul punto.
3. Con il terzo motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 5, i ricorrenti denunciano omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione fra le parti, in relazione all’inadempimento dei doveri dell’intermediario anche post-vendita, alla luce dell’art. 26, lett. f) del Regolamento Consob tanto nella fase di induzione all’acquisto, quanto nei momenti successivi, con violazione anche dell’art. 26, lett. d), del Regolamento.
3.1. Valgono al proposito le considerazioni precedentemente espresse al p. 2.9.
3.2. L’art. 26, lett. d), del Regolamento Consob 11522/1998 disponeva che gli intermediari autorizzati, nell’interesse degli investitori e dell’integrità del mercato mobiliare eseguissero con tempestività le disposizioni loro impartite dagli investitori.
Manca tuttavia non solo la prova, ma anche la deduzione di un preciso ordine di disinvestimento impartito dai ricorrenti e disatteso dalla Banca, come pure la proposizione di rituale motivo di appello sul punto.
3.3. I ricorrenti ricordano che la Banca era poi tenuta alla best execution ai sensi dell’art. 32, comma 3, Regolamento CONSOB 11522/1998 per cui la diligenza dell’intermediario era osservata solo offrendo le condizioni migliori avuto riguardo a tutti i profili rilevanti.
La censura non appare agevolmente comprensibile.
Il citato art. 32, comma 3, prevedeva che, ferma restando la disciplina di cui al regolamento previsto dall’art. 25, comma 2, del Testo Unico, gli intermediari autorizzati eseguissero, in conto proprio o in conto terzi, le negoziazioni alle migliori condizioni possibili con riferimento al momento, alle dimensioni e alla natura delle operazioni stesse. Nell’individuare le migliori condizioni possibili si doveva aver riguardo ai prezzi pagati o ricevuti e agli altri oneri sostenuti direttamente o indirettamente dall’investitore.
La norma è invocata senza alcuna attinenza a circostanze specifiche e a precise parti della sentenza impugnata, oggetto di censura.
3.4. L’ulteriore riferimento dei ricorrenti a una situazione di conflitto di interessi in cui avrebbe versato la Banca (pag. 35) è stato introdotto in modo del tutto generico, senza confrontarsi in modo pertinente e specifico con il tessuto motivazionale del provvedimento impugnato, e in particolare con le motivazioni esposte a pagina 17, in ordine al fatto che l’acquisto era stato negoziato dalla Banca in contropartita diretta, previo approvvigionamento dei titoli sul mercato, non detenuto in portafoglio in sovrabbondanza, mediante acquisti ad hoc sul mercato.
E’ quindi superfluo ricordare che tale statuizione non è stata censurata con specifico motivo di ricorso e, del resto, è perfettamente conforme alla giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale la negoziazione in contropartita diretta costituisce uno dei servizi di investimento al cui esercizio l’intermediario è autorizzato, al pari della negoziazione per conto terzi, come si evince dalle definizioni contenute nel D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 1, essendo essa una delle modalità con le quali l’intermediario può dare corso ad un ordine di acquisto o di vendita di strumenti finanziari impartito dal cliente; sicchè l’acquisto in contropartita diretta di titoli obbligazionari non dà luogo a conflitto di interessi, giacchè l’intermediario finanziario non fa altro che acquistare il titolo, che non è nel suo portafoglio, per trasferirlo all’investitore (Sez. 1, Sent. n. 11876 del 09/06/2016, Rv. 639905-01; Sez. 1, 26/08/2016, n. 17353).
4. Il ricorso deve essere rigettato e i ricorrenti soccombenti, in solido fra loro, debbono essere condannati alla rifusione delle spese di lite sostenute dalla controricorrente, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte:
rigetta il ricorso;
condanna i ricorrenti al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 17 gennaio 2019.
Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2019