Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.13833 del 22/05/2019

Pubblicato il

Condividi su FacebookCondividi su LinkedinCondividi su Twitter

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi – rel. Consigliere –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6223/2015 proposto da:

B.M.I., e E.P.C., elettivamente domiciliati in Roma, via E. Faà Di Bruno, 4 presso lo studio dell’avvocato Sergio Nicola Aldo Scicchitano, che li rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

Banca Popolare Commercio Industria Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via Igino Giordani 80, presso lo studio dell’avvocato Pier Paolo Perin che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato Giulio Bocci;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1956/2014 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 27/05/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 17/01/2019 dal Consigliere Dott. UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE SCOTTI.

FATTI DI CAUSA

1. Con atto di citazione notificato il 7/6/2007 E.P. e B.M.I. hanno convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Milano la Banca Popolare Commercio e Industria s.p.a., con la quale avevano stipulato un contratto di negoziazione, aprendo anche un conto corrente e un conto titoli, lamentando la violazione degli obblighi informativi previsti dal D.Lgs. n. 58 del 1998, e dal Regolamento Consob n. 11522 del 1998 e domandando conseguentemente la risoluzione del contratto per inadempimento della Banca e la sua condanna al risarcimento dei danni derivanti da un ordine di acquisto di titoli di *****, in contropartita diretta, per un valore di Euro 26.000,00.

La Banca convenuta si è costituita e ha chiesto il rigetto della domanda e in via subordinata la valorizzazione a scomputo o la restituzione dei titoli.

Con sentenza del 23/1/2009 il Tribunale di Milano ha dichiarato il difetto di legittimazione passiva di E.P., divenuto cointestatario del conto solo successivamente all’operazione di acquisto in questione; ha ritenuto adeguata al profilo dell’attrice l’operazione di investimento; ha escluso che fosse stato denunciato dagli attori un conflitto di interessi, che non è configurato, di per sè, dalla vendita in contropartita diretta dei titoli; non ha reputato provato il nesso causale fra inadempimento informativo e il danno subito, perchè all’epoca dell’operazione il titolo di ***** non presentava una rischiosità diversa da quella di altri Paesi emergenti.

2. Nei confronti della sentenza è stato proposto appello dai due attori, a cui ha resistito la Banca.

Con sentenza del 27/5/2014 la Corte di appello di Milano ha riformato parzialmente la sentenza di primo grado, ravvisando la legittimazione attiva di E.P., ma l’ha confermata nel merito quanto al rigetto delle domande attrici, ribadendo l’esclusione della violazione degli obblighi informativi gravanti sull’intermediario finanziario, con aggravio delle spese del grado.

3. Avverso la sentenza della Corte di appello di Milano, non notificata, hanno proposto ricorso per cassazione E.P. e B.M.I., notificato il 5/3/2015, svolgendo tre motivi.

Ha resistito con controricorso, notificato il 14/4/2015, la Banca Popolare Commercio e Industria.

Con memoria del 31/12/2018 ex art. 380 bis c.p.c., comma 1, i ricorrenti hanno illustrato le proprie tesi con numerosi richiami giurisprudenziali.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo proposto ex art. 360 c.p.c., n. 5, i ricorrenti lamentano omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio per aver la Corte territoriale ritenuto erroneamente che all’epoca dell’acquisto del 23/2/2001 il declassamento dei titoli argentini non fosse ancora avvenuto, escludendo di conseguenza qualsiasi responsabilità in capo all’Istituto bancario.

1.1. I ricorrenti osservano che invece in quel momento (fine febbraio 2001) il declassamento dei titoli era già noto agli operatori del settore, come risultava da una sentenza del Tribunale di Bologna del 29/12/2009; le principali agenzie internazionali di rating dal 1997-1999 avevano espresso dubbi sul rimborso dei titoli *****; nel 2000-2001 i titoli erano stati progressivamente declassati sino al default.

Ulteriori conferme in tal senso, secondo i ricorrenti, si potevano rinvenire nelle sentenze n. 6142 del 19/4/2012 e n. 330 del 9/1/2013 della Corte di Cassazione e nella relazione stilata dalla Commissione Finanze della Camera dei Deputati del 27/4/2004.

Secondo i ricorrenti, occorreva partire dal presupposto che la Banca, a differenza della cliente, era un interlocutore qualificato, ragione per la quale, se pure il definitivo declassamento risaliva al marzo del 2001, la Banca convenuta in data 23/2/2001 poteva disporre degli elementi necessari per rendersi conto della reale situazione finanziaria dei titoli di *****.

Inoltre la circostanza che il direttore della Banca avesse assicurato alla sig.ra B. che le obbligazioni argentine erano un investimento sicuro in titoli garantiti da uno stato straniero con ottimo rendimento, non era mai stata contestata dalla Banca, che si era difesa assumendo di non essere stata all’epoca dei fatti a conoscenza del grado di rischio dei titoli.

1.2. I ricorrenti lamentano omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio.

Al presente procedimento, in cui la sentenza di appello è stata pubblicata il 27/5/2014, si applica il testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, risultante dalle modifiche apportate sul previgente testo introdotto dal D.Lgs. n. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2, dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito, con modificazioni in L. 7 agosto 2012, n. 134, che consente l’impugnazione solo “per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”; tale disposizione infatti, ai sensi del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 3 si applica “alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto” (e quindi dal 25/9/2012).

Il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5 in tema di ricorso per vizio motivazionale deve essere interpretato, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, nel senso della riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione; secondo la nuova formula, è denunciabile in Cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Sez. un., 07/04/2014, n. 8053; Sez. un., 22/09/2014, n. 19881; Sez. un., 22/06/2017, n. 15486).

Inoltre, secondo le Sezioni Unite, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e dell’art. 369c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

1.3. I ricorrenti sostengono che la sentenza impugnata aveva ragionato come se il “declassamento” dei titoli di ***** ad opera delle agenzie internazionali non fosse ancora avvenuto in data 23/2/2001, come invece risulterebbe da una pluralità di fonti informative evocate nel ricorso.

La censura appare inammissibile sotto vari profili.

In primo luogo, i ricorrenti si riferiscono ad un fatto storico, ossia il declassamento dei titoli ***** preso in considerazione dalla sentenza impugnata e prospettano tutta una serie di elementi probatori, che giustificherebbero una diversa conclusione, senza dimostrarne la decisività e senza allegare con precisione il quando e il come della loro sottoposizione al contraddittorio processuale.

In secondo luogo, per un verso, la Corte milanese ha dato atto di una serie progressiva di declassamenti del rating dei titoli *****, che aveva condotto all’inserimento finale nella categoria del default e ha dato rilievo ai fini della responsabilità della Banca allo specifico declassamento avvenuto nel marzo 2001, prima del quale gli Istituti di credito non disponevano di informazioni qualificate per assegnare alle obbligazioni emesse dallo ***** un indice di affidabilità diverso da quello attribuibile a quelle emesse dagli altri Paesi emergenti non occidentali; per altro verso, la Corte territoriale ha valorizzato l’ulteriore elemento rappresentato dall’affidamento concesso alla ***** dal Fondo Monetario Internazionale, per concludere che alla data della negoziazione le obbligazioni ***** non suscitavano particolari sospetti.

La censura, riferendosi in generale al declassamento, come se fosse stato uno solo, e ignorando lo specifico riferimento al declassamento operato a marzo del 2001, al pari dell’ulteriore motivazione della sentenza basata sul comportamento del Fondo Monetario Internazionale, pecca di pertinenza e specificità, rivelandosi così, già di per sè solo, inammissibile.

1.4. Per altro verso, infine, i ricorrenti richiamano una serie di fonti di asserita prova (numerose sentenze e una relazione della Commissione Finanze della Camera dei deputati) in modo non autosufficiente, senza indicare la collocazione di tali evidenze probatorie negli atti processuali e richiamandone solo molto genericamente il contenuto.

In virtù del principio di autosufficienza, il ricorso per cassazione deve contenere in sè tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito e a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, sicchè il ricorrente ha l’onere di indicare specificamente, a pena di inammissibilità, oltre al luogo in cui ne è avvenuta la produzione, gli atti processuali ed i documenti su cui il ricorso è fondato mediante un sintetico, ma completo, resoconto del loro contenuto (Sez. 1, Sent. n. 5478 del 07/03/2018, Rv. 647747 01).

1.5. Inoltre la gran parte dei documenti citati attengono a decisioni giurisdizionali, comunque richiamate in modo del tutto generico, senza adeguata ostensione del loro contenuto e dello specifico contesto fattuale e processuale in cui sono state pronunciate, che potrebbero essere fatte valere semmai come meri elementi indiziari e non rappresentano quindi, in ogni caso, prove decisive invocabili ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

E’ infatti consolidato il principio che le sentenze pronunciate in altro processo tra parti diverse hanno valore di documentazione delle risultanze dei mezzi di prova allora esperiti, da cui il giudice può attingere elementi di giudizio, senza però essere vincolato alla valutazione fattane dal giudice della causa precedente, sì che l’omesso esame di tali risultanze non concreta un vizio di motivazione, in quanto, trattandosi di prove svoltesi in giudizio diverso, alle stesse può attribuirsi valore di meri indizi, che non possono assurgere a fonti determinanti per l’accertamento del fatto controverso, in mancanza di un adeguato raffronto critico con le altre risultanze del processo (Sez. lav., 11/12/1999, n. 13889; Sez.1, 22/04/1993, n. 4763).

1.6. Infine, il fatto notorio, derogando al principio dispositivo ed al principio del contraddittorio e dando luogo a prove non fornite dalle parti e relative a fatti non da esse vagliati e controllati, va inteso in senso rigoroso, ossia come fatto acquisito dalla collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile, e non quale evento o situazione oggetto della mera cognizione del singolo giudice, come in ipotesi di fatti conosciuti in conseguenza dell’avvenuta disamina di analoghe controversie (Sez. 1, Sent. n. 6299 del 19/03/2014, Rv. 629937 – 01; Sez. 6 – 5, Ord. n. 2808 del 06/02/2013, Rv. 625457 – 01; Sez. L, Sent. n. 4223 del 07/04/1992, Rv. 476638 – 01).

Le affermazioni dei ricorrenti invocano una presunta notorietà dell’elevata rischiosità delle obbligazioni statuali *****, in data anteriore al marzo 2001, senza però fornirne la dimostrazione.

La violazione dell’art. 115 c.p.c. può essere dedotta come vizio di legittimità in riferimento all’apprezzamento delle risultanze probatorie operato dal giudice di merito solo sotto due profili: qualora il medesimo, esercitando il suo potere discrezionale nella scelta e valutazione degli elementi probatori, ometta di valutare le risultanze di cui la parte abbia esplicitamente dedotto la decisività, salvo escluderne in concreto, motivando sul punto, la rilevanza; ovvero quando egli ponga alla base della decisione fatti che erroneamente ritenga notori o la sua scienza personale (Sez. 1, Ord. n. 4699 del 28/02/2018, Rv. 647432 – 01); nel giudizio di cassazione, il riconoscimento o il disconoscimento di un fatto come notorio può essere censurato solo per vizio di motivazione dipendente dall’erronea determinazione dei criteri di notorietà, mentre sfugge al sindacato di legittimità l’erroneo giudizio sulla notorietà che non sia desumibile dalla motivazione, non dipendendo dall’utilizzazione di criteri impropri (Sez. 1, Sent. n. 5089 del 15/03/2016, Rv. 639057 – 01).

2. Con il secondo motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 4, i ricorrenti lamentano nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c. e omessa pronuncia su di una parte della domanda, con cui gli attori avevano chiesto di accertare la violazione del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 21 e degli artt. 27, 28 e 29 del Regolamento Consob 11522/1998.

2.1. A tal proposito i Giudici del merito si erano limitati a escludere il nesso di causalità fra violazione degli obblighi informativi e pregiudizio patito dagli attori, non rispondendo alla domanda di accertamento della violazione degli obblighi informativi incombenti sull’intermediario.

2.2. La doglianza è infondata, anche a prescindere dalla mancata deduzione di un interesse concreto e attuale, rilevante ex art. 100 c.p.c. dei ricorrenti all’accertamento della violazione dell’obbligo informativo incombente sull’intermediario, privo di incidenza causale in concreto sulla determinazione di un pregiudizio risarcibile.

Infatti a pagina 9, p. 26, esaminando il quarto motivo di appello, la Corte milanese ha qualificato il deficit informativo come eventuale e comunque privo di rilevanza nel caso concreto, in considerazione del complessivo contesto dell’operazione, caratterizzato dall’adeguatezza dell’investimento rispetto alle condizioni economiche dell’investitrice e al profilo di rischio apprezzato.

Non sussiste quindi il vizio di omessa pronuncia, perchè per integrare gli estremi di tale vizio non è sufficiente la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendosi in tal caso ravvisare una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia (Sez.3, 21/06/2018, n. 16326; Sez.2, 18/04/2018, n. 9535).

3. Con il terzo motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, i ricorrenti lamentano falsa applicazione di norme di diritto, e in particolare degli artt. 28 e 29 del regolamento CONSOB 11522 del 1998 e dell’art. 21 T.U.F., nonchè omesso esame di fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione fra le parti per aver ritenuto non provato il nesso causale fra inadempimento e danno.

3.1. I ricorrenti non comprendono come la Corte milanese abbia potuto considerare adeguato l’investimento, basandosi solo sul fattore dimensionale e tipologico, senza valutare gli aspetti soggettivo e di frequenza, pure previsti dal Regolamento CONSOB: l’operazione consigliata non era conforme al profilo conservativo desumibile dai precedenti investimenti della signora B.; inoltre la tipologia di investimento non era stata bilanciata con i parametri soggettivi del cliente.

3.2. I ricorrenti denunciano la falsa applicazione di norme con riferimento al D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 21 e agli artt. 28 e 29 Reg.Consob 11522/1998.

Il D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 21, comma 1, detta i criteri generali ai quali i soggetti abilitati debbono attenersi nella prestazione dei servizi e delle attività di investimento e accessori; essi devono: a) comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza, per servire al meglio l’interesse dei clienti e per l’integrità dei mercati; b) acquisire le informazioni necessarie dai clienti e operare in modo che essi siano sempre adeguatamente informati; c) utilizzare comunicazioni pubblicitarie e promozionali corrette, chiare e non fuorvianti; d) disporre di risorse e procedure, anche di controllo interno, idonee ad assicurare l’efficiente svolgimento dei servizi e delle attività.

Gli artt. 28 e 29 del Regolamento Consob 11522 del 1998 mirano ad attuare più specificamente gli obblighi dettati dall’art. 21 predetto.

L’art. 28 in tema di “Informazioni tra gli intermediari e gli investitori”, per quanto rileva impone agli intermediari autorizzati, prima della stipulazione del contratto di gestione e di consulenza in materia di investimenti e dell’inizio della prestazione dei servizi di investimento e dei servizi accessori a questi collegati, di: a) chiedere all’investitore notizie circa la sua esperienza in materia di investimenti in strumenti finanziari, la sua situazione finanziaria, i suoi obiettivi di investimento, nonchè circa la sua propensione al rischio, con la previsione che l’eventuale rifiuto di fornire le notizie richieste deve risultare dal contratto ovvero da apposita dichiarazione sottoscritta dall’investitore; b) consegnare agli investitori il documento sui rischi generali degli investimenti in strumenti finanziari di cui all’Allegato n. 3.

Inoltre gli intermediari autorizzati non possono effettuare o consigliare operazioni o prestare il servizio di gestione se non dopo aver fornito all’investitore informazioni adeguate sulla natura, sui rischi e sulle implicazioni della specifica operazione o del servizio, la cui conoscenza sia necessaria per effettuare consapevoli scelte di investimento o disinvestimento.

L’art. 29 in tema di “Operazioni non adeguate” prescrive agli intermediari autorizzati di astenersi dall’effettuare con o per conto degli investitori operazioni non adeguate per tipologia, oggetto, frequenza o dimensione. A tali fini, gli intermediari autorizzati tengono conto delle informazioni di cui all’art. 28 e di ogni altra informazione disponibile in relazione ai servizi prestati.

Gli intermediari autorizzati, quando ricevono da un investitore disposizioni relative ad una operazione non adeguata, lo informano di tale circostanza e delle ragioni per cui non è opportuno procedere alla sua esecuzione. Qualora l’investitore intenda comunque dare corso all’operazione, gli intermediari autorizzati possono eseguire l’operazione stessa solo sulla base di un ordine impartito per iscritto ovvero, nel caso di ordini telefonici, registrato su nastro magnetico o su altro supporto equivalente, in cui sia fatto esplicito riferimento alle avvertenze ricevute.

I ricorrenti rimproverano alla Corte di appello di aver considerato solo due dei criteri di valutazione dell’adeguatezza dell’operazione indicati dall’art. 29 predetto, ossia quelli per tipologia e dimensione, trascurando quelli per oggetto e frequenza.

La doglianza è espressa in termini assolutamente generici, per giunta senza chiarire se i ricorrenti si dolgono di una errata interpretazione della norma o della sua applicazione ad una fattispecie concreta erroneamente ricostruita.

In ogni caso, non è vero che la Corte di appello non si è confrontata con il parametro oggettivo di valutazione dell’adeguatezza dell’investimento poichè ha ritenuto, per le ragioni sopra ricordate in sede di esame del primo motivo di ricorso, che l’operazione non fosse particolarmente rischiosa e speculativa, alla luce delle informazioni in quel momento disponibili e della natura imprevedibile del successivo collasso economico che aveva portato al default dei titoli di *****. Da qui è scaturita la valutazione di adeguatezza anche in rapporto al profilo, prevalentemente conservativo, attribuito agli investitori.

I ricorrenti fraintendono poi chiaramente il criterio della frequenza, ascrivendogli lo stesso significato del criterio tipologico incrociato con i parametri soggettivi del cliente; al contrario, il criterio in questione attiene alla distribuzione nel tempo dell’investimento, perchè un investimento adeguato se raro, occasionale o poco frequente può divenire inadeguato se ripetuto, reiterato o abituale.

Il profilo dell’adeguatezza per dimensione o frequenza riguarda infatti il rapporto tra l’entità dell’investimento ed il portafoglio del cliente (in questi termini Sez.1, 26/8/2016, n. 17353), o meglio il suo complessivo patrimonio mobiliare.

La censura sotto tale profilo è priva di attinenza alla fattispecie concreta che riguarda un investimento del tutto circoscritto e, a quanto risulta, non ripetuto.

3.3. I ricorrenti sostengono che l’onere di provare che l’effettiva somministrazione delle informazioni corrette avrebbe portato a una scelta differente, in tal modo evitando il danno patito, non gravava sull’investitore, altrimenti assoggettato ad una prova diabolica, ma sull’intermediario.

Al cliente sarebbe stato quindi sufficiente allegare l’inadempimento dell’intermediario, gravato dall’onere ex art. 1218 c.c. di dimostrarne la non imputabilità.

La Banca, conoscendo il carattere rischioso dell’operazione, non aveva segnalato l’inadeguatezza, il che è sufficiente a far presumere che l’investitrice se ne sarebbe astenuta ove tempestivamente e diligentemente avvisata.

Da un lato, la censura si fonda su di un presupposto indimostrato, escluso dalla sentenza impugnata e non confutato dai ricorrenti con i precedenti motivi: ossia che la Banca avrebbe dovuto segnalare alla cliente l’inadeguatezza dell’operazione di investimento in questione.

Dall’altro, la tesi proposta dai ricorrenti, secondo la quale l’onere probatorio relativamente al nesso causale fra violazione dell’obbligo informativo e pregiudizio economico configurante il danno risarcibile graverebbe sull’intermediario finanziario, è palesemente infondata.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, la disciplina dettata dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23, comma 6, in armonia con la regola generale stabilita dall’art. 1218 c.c., impone all’investitore, il quale lamenti la violazione degli obblighi informativi posti a carico dell’intermediario, nel quadro dei principi che regolano il riparto degli oneri di allegazione e prova, di allegare specificamente l’inadempimento di tali obblighi, mediante la pur sintetica, ma circostanziata, individuazione delle informazioni che l’intermediario avrebbe omesso di somministrare, nonchè di fornire la prova del danno e del nesso di causalità tra inadempimento e danno, nesso che sussiste se, ove adeguatamente informato, l’investitore avrebbe desistito dall’investimento rivelatosi poi pregiudizievole; l’intermediario, a sua volta, deve provare l’avvenuto adempimento delle specifiche obbligazioni poste a suo carico, allegate come inadempiute dalla controparte, e, sotto il profilo soggettivo, di avere agito con la specifica diligenza richiesta (Sez. 1, Ord. n. 10111 del 24/04/2018, Rv. 648553 – 01; Sez. 1, Sent. n. 3773 del 17/02/2009, Rv. 606918 – 01).

In sintesi, spetta in primo luogo all’investitore dedurre l’inadempimento consistente nella violazione degli obblighi informativi ai quali l’intermediario finanziario è tenuto, con conseguente collocazione a carico dello stesso intermediario finanziario dell’onere probatorio di avere esattamente adempiuto, nei termini previsti dalla normativa applicabile ed in relazione all’inadempimento così come dedotto. Dopo di che, grava sul cliente investitore l’onere della prova del nesso di causalità tra l’inadempimento e il danno: onere della prova la cui osservanza, versandosi in ipotesi di causalità omissiva, va scrutinata, in ossequio alla regola del “più probabile che non”, attraverso l’impiego del giudizio controfattuale, e, cioè, collocando ipoteticamente in luogo della condotta omessa quella legalmente dovuta, sì da accertare, secondo un giudizio necessariamente probabilistico condotto sul modello della prognosi postuma, giudizio che ben può muovere dalla stessa consistenza dell’informazione omessa, riguardata attraverso la lente dell’id quod plerumque accidit, se, ove adeguatamente informato, l’investitore avrebbe desistito dall’investimento rivelatosi poi pregiudizievole.

Tale giudizio, per sua natura, non si presta alla prova diretta, ma solo a quella presuntiva, occorrendo desumere (nel rispetto del paradigma di gravità, precisione e concordanza previsto dall’art. 2729 c.c.) dai fatti certi emersi in sede istruttoria se l’investitore avrebbe tenuto una condotta, quella consistente nel recedere all’investimento, ormai divenuta nei fatti non più realizzabile (Sez. 1, Sent. n. 3773 del 17/02/2009, Rv. 606918 01; Sez.1, Sent. 19/8/2016, n. 1719).

La Corte milanese si è attenuta a tali principi, erroneamente denunciati come non conformi a legge dai ricorrenti, che non aggrediscono invece con il loro motivo la valutazione di assenza di prova formulata dal Giudice del merito, per vero ininfluente in quanto espressa ad abundantiam, dopo aver già previamente escluso la sussistenza di un inadempimento da parte dell’intermediario dell’obbligo informativo.

3.4. I ricorrenti osservano infine che il nesso di causalità doveva ritenersi in re ipsa per le operazioni condotte in conflitto di interessi, situazione tuttavia esclusa dalla sentenza impugnata con riferimento al terzo motivo di appello (p. 21-23 di pagina 8), affermando che il conflitto di interessi non era configurabile per il solo fatto che la vendita fosse stata eseguita “in contropartita diretta”, in difetto di prova di azione dell’intermediario a detrimento del cliente, D.Lgs. n. 58 del 1998, ex art. 1, comma 5, e art. 32 Reg. Consob 11522/1998.

Tale statuizione non è stata censurata con specifico motivo di ricorso e, del resto, è perfettamente conforme alla giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale la negoziazione in contropartita diretta costituisce uno dei servizi di investimento al cui esercizio l’intermediario è autorizzato, al pari della negoziazione per conto terzi, come si evince dalle definizioni contenute nel D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 1 poichè essa è una delle modalità con le quali l’intermediario può dare corso ad un ordine di acquisto o di vendita di strumenti finanziari impartito dal cliente; pertanto l’acquisto in contropartita diretta di titoli obbligazionari non dà luogo a conflitto di interessi, giacchè l’intermediario finanziario non fa altro che acquistare il titolo, che non è nel suo portafoglio, per trasferirlo all’investitore (Sez. 1, Sent. n. 11876 del 09/06/2016, Rv. 639905 – 01; Sez. 1, 26/08/2016, n. 17353).

4. Il ricorso deve pertanto essere rigettato e i ricorrenti soccombenti debbono essere condannati in solido alla rifusione delle spese di lite del giudizio di legittimità in favore della Banca contro ricorrente, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso;

condanna i ricorrenti al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima civile, il 17 gennaio 2019.

Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2019

©2024 misterlex.it - [email protected] - Privacy - P.I. 02029690472