LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –
Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –
Dott. PAGETTA Antonella – rel. Consigliere –
Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –
Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 12681/2017 proposto da:
IBM ITALIA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 114, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO VALLEBONA, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati ANNAMARIA PEDRONI, ANDREA NICOLO’
STANCHI;
– ricorrente –
contro
D.S.V., elettivamente domiciliato in ROMA, CORSO VITTORIO EMANUELE II 209, presso lo studio dell’avvocato LUCA SILVESTRI, rappresentato e difeso dall’avvocato ERNESTO MARIA CIRILLO;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2572/2017 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 24/03/2017 R.G.N. 4063/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/02/2019 dal Consigliere Dott. ANTONELLA PAGETTA;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CIMMINO Alessandro, che ha concluso per inammissibilità in subordine rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato LUIGI MARIA CACCIAPAGLIA per delega verbale Avvocato ANTONIO VALLEBONA;
udito l’Avvocato ERNESTO MARIA CIRILLO.
FATTI DI CAUSA
1. Con sentenza n. 2572/2017 la Corte d’appello di Napoli ha respinto il reclamo di IBM Italia s.p.a. avverso la sentenza di primo grado che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento per giusta causa, intimato con lettera del 22.10.2015 dalla detta società a D.S.V. e condannato la società datrice di lavoro alla reintegrazione del lavoratore ed al pagamento dell’indennità risarcitoria commisurata a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto.
1.1. Il giudice di appello, premesso che le condotte contestate ascrivevano al D.S. lo svolgimento, durante l’orario di lavoro, di attività lavorativa estranea a quella alla quale era contrattualmente impegnato in favore di IBM Italia s.p.a. con utilizzazione, nello svolgimento di tale attività, anche della mail della proprietaria IBM, premesso, inoltre, che soltanto cinque delle undici mail indicate nella lettera di contestazione risultavano elaborate, inviate o ricevute nel corso dell’orario che il D.S., autorizzato a svolgere la propria attività in forma di telelavoro per tre giorni a settimana, era tenuto a rispettare, ha ritenuto, con articolate argomentazioni, che la condotta del D.S., per non essere risultata concorrenziale a quella della società datrice, per avere avuto carattere sporadico, per non avere arrecato alcun nocumento alla società o determinato, comunque, un abbassamento della produttività, si prestava ad essere punita, alla stregua delle previsioni del contratto collettivo, con sanzione esclusivamente conservativa; ha, quindi, respinto la eccezione di aliunde perceptum, formulata in seconde cure dalla società, in assenza di riscontri probatori all’entità degli ulteriori compensi asseritamente conseguiti dal D.S..
2. Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso IBM Italia s.p.a. sulla base dei tre motivi; la parte intimata ha resistito con tempestivo controricorso.
3. Parte ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: violazione e falsa applicazione del contratto collettivo nazionale di lavoro per i lavoratori addetti all’industria metalmeccanica privata e installazione impianti 5.12.2012, in particolare Sezione IV “Titolo VII Rapporti in azienda” con riferimento alle disposizioni sui provvedimenti disciplinari: artt. 8, 9, art. 10, lett. B e A; violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 c.c. e segg., artt. 2104,2105 e 2106 c.c.. Censura la sentenza impugnata per non avere ricondotto la fattispecie accertata alle specifiche previsioni del contratto collettivo che sanzionavano con la misura espulsiva,con o senza preavviso, lo svolgimento, senza permesso, di lavoro per conto proprio o di terzi mediante impiego di beni aziendali. Osserva che, anche ove di lieve entità, la condotta del dipendente andava comunque sanzionata con una misura espulsiva (licenziamento con preavviso).
2. Con il secondo motivo deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. e degli artt. 2104,2105,2106,1175,1374c.c., nonchè degli artt. 115 e 116 c.p.c., censurando, in sintesi, la mancata applicazione dei principi affermati dal giudice di legittimità in tema di accertamento della sussistenza della giusta causa di licenziamento, sia in relazione alla necessità di estensione della relativa verifica anche a tutti i comportamenti accessori e alle cautele necessarie ad assicurare una gestione professionalmente corretta dei compiti assegnati, sia in relazione alla necessità di tenere conto di tutte le risultanze del caso concreto. Lamenta la mancata considerazione dei contenuti delle mail che assume espressivi, nel loro insieme, dell’attività espletata per conto terzi e della relativa consistenza, nonchè della particolare posizione rivestita dal D.S. nell’ambito della società, quale utente privilegiato con poteri di amministrazione di sistemi e sicurezza degli stessi. Argomenta, inoltre, diffusamente sul rapporto di collaborazione di durata pluriennale del D.S. con Hotel *****, il soggetto in favore del quale era stata espletata l’attività oggetto di contestazione.
3. Con il terzo motivo deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, comma 4, come sostituito dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 42 e dell’art. 113 c.p.c..
4. Il primo motivo di ricorso è infondato.
4.1. La sentenza impugnata, accertata la sussistenza del fatto materiale contestato solo in relazione all’invio di cinque mail, in luogo delle undici oggetto di addebito, premesso che, stante la consumazione di alcune condotte nel corso dell’orario di lavoro, solo in parte la vicenda potesse ricondursi alla fattispecie considerata dalla lett. i) dell’art. 9 c.c.n.l. (punita con sanzione conservativa), ha ritenuto che, comunque, tale previsione poteva fungere “da parametro di valutazione per l’applicazione di una misura conservativa, in considerazione delle entità del fatto relativa alla effettiva articolazione dell’orario, alla “lieve entità del lavoro svolto per conto proprio o di terzi… senza sottrazione di materiale dell’azienda, con uso di attrezzature dell’azienda stessa “. La Corte di merito ha, quindi, rilevato come le ipotesi nelle quali, a mente del contratto collettivo, era consentito il recesso senza preavviso si connotavano, in linea generale, per la presenza di circostanze che comportavano “un grave nocumento morale o materiale” oppure per condotte compiute in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro che costituivano delitto a termini di legge; presupposti non ricorrenti nel caso concreto. In ordine alla ipotesi di cui alla lett. g) dell’art. 10 c.c.n.l., costituita dall'” esecuzione senza permesso di lavori nell’azienda per conto proprio o di terzi, di non lieve entità e/o con l’impiego di materiale dell’azienda” il giudice del reclamo ha osservato che la stessa andava inquadrata sempre nel contesto della generale previsione ” di cui l’elencazione ha funzione chiarificatrice ed esemplificativa”; in particolare ha osservato che, non venendo in rilievo “lavori di non lieve entità”, la condotta non era riconducibile all’ipotesi in questione.
4.2. Le censure articolate con il motivo in esame non risultano idonee ad inficiare il ragionamento del giudice di merito nel pervenire alla conclusione, alla stregua delle ipotesi di rilievo disciplinare contemplate dal contratto collettivo, della non applicabilità della sanzione espulsiva. In particolare, l’assunto della parte ricorrente, in merito alla riconducibilità del fatto contestato alla ipotesi di cui alla lett. c) dell’art. 24 A Sezione IV Titolo VII c.c.n.l. – che sanzione con il licenziamento con preavviso l’esecuzione senza permesso di lavori nell’azienda per conto proprio o di terzi, di lieve entità senza impiego di materiale dell’azienda – non è dirimente alla luce della giurisprudenza di legittimità che si è espressa nel senso della non vincolatività delle tipizzazioni contenute nella contrattazione collettiva richiedendo, comunque, l’accertamento in concreto della proporzionalità tra sanzione ed infrazione, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo (Cass. 7/11/2018 n. 28492; Cass. 24/10/2018 n. 27004). Resta, fermo, tuttavia, che anche nel caso in cui proceda a valutazione autonoma della fattispecie contemplata dalla norma collettiva il giudice del merito non può prescindere dalla considerazione del contratto collettivo e dalla scala valoriale ivi espressa nella individuazione delle ipotesi di rilievo disciplinare e nella relativa graduazione delle sanzioni (Cass. n. 28492/2018 cit.).
4.3. La Corte di merito ha operato in conformità di tali indicazioni. All’esito dell’accertamento di tutte le circostanze del caso concreto, il cui apprezzamento è censurabile in sede di legittimità solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (v. tra le altre, Cass. 25/05/2012, n. 8293; Cass. 19/10/2007, n. 21965) e, quindi, trovando applicazione, ratione temporis, il testo attualmente vigente dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, solo mediante la denunzia dell’omesso esame di un fatto decisivo e controverso oggetto di discussione tra le parti, neppure formalmente dedotto dal ricorrente, ha ritenuto che le caratteristiche intrinseche della fattispecie concreta ne giustificavano, alla luce della stessa graduazione delle sanzioni disciplinari concordata tra le parti collettive, la riconducibilità nel novero dei fatti punibili con misura conservativa.
4.4. Tale valutazione resiste alle censure articolate in quanto coerente con il complessivo articolato disciplinare del contratto collettivo ed in particolare con le ipotesi che regolano le condotte punibili con il licenziamento con preavviso. E’ sufficiente ricordare che tra queste sono annoverate – con implicita valutazione di equiparabilità quanto alle ricadute sul rapporto di lavoro -, tra le altre, la rissa nello stabilimento fuori dai reparti di lavorazione, l’abbandono del posto di lavoro da parte di personale con mansioni di sorveglianza, controllo, custodia ecc., le assenze ingiustificate prolungate oltre quattro giorni consecutivi o assenze ripetute per tre volte in un anno nel giorno seguente alle festività o alle ferie. Si tratta di condotte connotate sotto il profilo oggettivo dalla concreta idoneità delle stesse a influire in vario modo sulla funzionalità dell’organizzazione dell’impresa o sulla serenità dell’ambiente di lavoro, caratteristiche obiettivamente non riscontrabili nell’invio sporadico da parte del dipendente di alcune mail relative ad altra attività, mediante l’utilizzo della mail di proprietà aziendale. A rigore tale situazione non è neppure collocabile nell’ambito della richiamata lett. c) la quale, laddove fa riferimento all’esecuzione senza permesso di lavori nell’azienda per conto proprio o di terzi, sembra alludere allo svolgimento di attività materiali che abbiano un minimo di consistenza, consistenza obiettivamente non riscontrabile, sul piano fattuale, nella condotta ascritta.
4.5. In base alle considerazioni che precedono il primo motivo di ricorso deve essere respinto.
5. Il secondo motivo di ricorso è anch’esso infondato. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell’elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale, dall’altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare; quale evento “che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, la giusta causa di licenziamento integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall’interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici e giuridici. (v., tra le altre, Cass. 26/04/2012 n. 6498).
5.1. Parte ricorrente, pur formalmente denunziando violazione di norme di diritto sotto il profilo della corretta applicazione delle clausole generali di cui agli artt. 2119 e 2104 c.c. e segg., non individua alcuno specifico contrasto con i criteri e principi desumibili dall’ordinamento generale nei parametri astratti ai quali ha fatto riferimento il giudice di merito nel ritenere non proporzionata la sanzione espulsiva; le critiche articolate, infatti, tendono, piuttosto, a contestare la valutazione di non proporzionalità del licenziamento sotto il profilo della mancata considerazione di alcune circostanze di fatto, che – si sostiene- avrebbero condotto ad affermare l’applicabilità della sanzione espulsiva. In altri termini, ciò che viene in concreto criticato è l’apprezzamento di fatto delle circostanze del caso concreto ed il connesso giudizio di proporzionalità del licenziamento, il quale, come noto, è censurabile in sede di legittimità solo per vizio di motivazione (v. tra le altre, Cass. 25/05/2012, n. 8293; Cass. 19/10/2007, n. 21965); in conseguenza, pertanto e, quindi, trovando applicazione ratione temporis il testo attualmente vigente dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, solo mediante la denunzia dell’omesso esame di un fatto decisivo e controverso oggetto di discussione tra le parti, neppure formalmente prospettata dalla parte ricorrente la quale si limita a denunziare l’omesso esame di una serie di circostanze, non evocate nel rispetto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e delle quali non è chiarita, con riferimento alle emergenze di causa, la decisività, come invece, prescritto (Cass. Sez. Un. 7/4/2014 n. 8053).
6. Il terzo motivo di ricorso è inammissibile per genericità delle censure le quali, nel dedurre la inconferenza e contrarietà alle risultanze di causa degli argomenti che sostengono il decisum del giudice del reclamo, non individuano lo specifico errore di diritto in tesi allo stesso ascritto ma si limitano a contrapporre alla complessiva valutazione di questi una diversa valutazione in punto di rilevanza e pertinenza delle argomentazioni alla base della sentenza impugnata.
7. Al rigetto del ricorso segue la regolamentazione delle spese di lite secondo soccombenza.
8. Sussistono i presupposti per l’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in complessivi Euro 4.500,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Con distrazione. Sussistono i presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.
Così deciso in Roma, il 26 febbraio 2019.
Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2019
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