Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.13871 del 22/05/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. CIRIELLO Antonella – Consigliere –

Dott. PICCONE Valeria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2111/2018 proposto da:

C.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 38, presso lo studio dell’avvocato BARBARA AQUILANI, rappresentato e difeso dall’avvocato FRANCESCO ANTONINI;

– ricorrente –

contro

LAS MOBILI S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA POMPEO MAGNO 23/A, presso lo studio dell’avvocato GIAMPIERO PROIA, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato FRANCO DI TEODORO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 867/2017 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 02/11/2017, R.G.N. 505/2017;

Il P.M., ha depositato conclusioni scritte.

RILEVATO

che:

1. La Corte di appello dell’Aquila ha accolto l’appello proposto dalla s.r.l. Las Mobili ed in riforma della sentenza del Tribunale di Teramo ha dichiarato la legittimità del licenziamento intimato a C.R., compensando tra le parti le spese del giudizio.

1.1. Il giudice di appello ha ritenuto che la scelta di licenziare il C. fosse stata effettuata nel pieno rispetto dei criteri di scelta come stabiliti dalla L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 3, secondo l’interpretazione offertane dalla Corte di legittimità escludendo, in capo al dipendente, l’esistenza di un “concreto interesse ad agire” in relazione alla domanda avanzata.

2. Per la cassazione della sentenza ricorre C.R. che articola tre motivi ai quali resiste con controricorso la s.r.l. Las Mobili.

2.1. Il Sostituto Procuratore Generale ha presentato conclusioni scritte.

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo parte ricorrente censura la decisione della Corte d’Appello di L’Aquila deducendo la violazione e falsa applicazione dell’art. 100 c.p.c., nonchè della L. n. 223 del 1991, artt. 4, 5 e 17, nonchè dell’art. 1441 c.c., in combinato disposto con l’art. 2697 c.c..

1.1. Con il secondo motivo si deducono l’omessa motivazione e la violazione dell’art. 132 c.p.c., mentre con il terzo si allegano difetto di motivazione su un punto decisivo della controversia nonchè motivazione apparente.

2. Il primo motivo del ricorso è infondato.

2.1. Nell’escludere l’esistenza di un “concreto interesse ad agire”, il giudice di merito, richiamando la pronuncia di questa Corte n. 24558 dell’1.12.2016, muove dalla premessa secondo cui l’invalidità del licenziamento collettivo per violazione dei criteri di scelta rientra nel novero dell’annullabilità ex art. 1441 c.c., comma 1 e non in quello della nullità, talchè l’azione per l’annullamento può essere proposta non da chiunque vi abbia interesse (inteso in termini di interesse ad agire) ma soltanto da parte dei titolari dell’interesse di diritto sostanziale.

2.2. In base a tale insegnamento, nell’ipotesi di annullabilità del licenziamento per violazione dei criteri di scelta, l’annullamento non può essere domandato indistintamente da ciascuno dei lavoratori licenziati ma soltanto da quelli in ordine ai quali la violazione abbia influito sulla collocazione in mobilità del lavoratore.

3. Nella specie, secondo la Corte d’Appello, avrebbe errato il giudice di primo grado che, pur affermando la necessità di verificare in modo obiettivo e concreto la sussistenza di un interesse del lavoratore all’impugnazione, non abbia poi effettuato alcuna indagine fattuale circa la violazione delle regole di assegnazione dei punteggi e della loro comparazione rispetto alla posizione del dipendente licenziato.

3.1. Posta tale premessa, il giudice di secondo grado afferma che anche a voler ritenere fondate tutte le censure mosse ai criteri applicati dalla società, procedendo alla valutazione comparativa di tutti i dipendenti, a prescindere dalla lavorazione cui fossero stati adibiti, il C. sarebbe rientrato comunque tra i lavoratori da avviare alla mobilità e, quindi, al licenziamento, collocandosi comunque nella platea di coloro che avrebbero dovuto essere estromessi.

4. E’ principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità (cfr., ex plurimis, Cass. n. 2329/2012, 13783/2006, 10590/2005, 13182/2003, 12711/200, 5718/1999, 11465/1997) quello secondo cui la comparazione fra i dipendenti coinvolti nella procedura di mobilità può essere limitata ad un singolo settore soltanto qualora la riduzione di personale non sia estesa a tutto il processo produttivo ma venga operata esclusivamente con riguardo ad un singolo settore ovvero ad una singola unità produttiva.

4.1. Il riferimento legislativo delle esigenze tecnico produttive al “complesso aziendale” induce ad affermare che non vi sia spazio per una restrizione all’ambito di applicazione dei criteri di scelta che sia frutto dell’iniziativa datoriale pura e semplice, perchè ciò “… finirebbe nella sostanza con l’alterare la corretta applicazione dei criteri stessi, che la L. n. 223 del 1991, art. 5, intende espressamente sottrarre al datore imponendo che questa venga effettuata o sulla base dei criteri concordati con le associazioni sindacali, ovvero, in mancanza, secondo i criteri legali. E’ dunque arbitraria ed illegittima qualunque decisione del datore di limitare l’ambito selezione ad un singolo settore o reparto se ciò non sia strettamente giustificato dalle ragioni che hanno condotto alla scelta di riduzione del personale. La delimitazione dell’ambito di applicazione dei criteri dei lavoratori da porre in mobilità è dunque consentita solo quando dipenda dalle ragioni produttive ed organizzative, che si traggono dalle indicazioni contenute nella comunicazione di cui all’art. 4, comma 3, quando cioè gli esposti motivi dell’esubero, le ragioni per cui lo stesso non può essere assorbito, conducono coerentemente a limitare la platea dei lavoratori oggetto della scelta (in questi termini, Cass. n. 2353/2009, in motivazione, nonchè, nello stesso senso, Cass. n. 9711/2011 e 2429/2012, e, più di recente, Cass. n. 18190/2016).

5. Di tale insegnamento tiene conto la Corte d’appello ed infatti, censurando sul punto l’iter decisionale della società datrice, che aveva proceduto ad una comparazione all’interno delle singole lavorazioni, verifica in concreto se, anche nel raffronto fra tutti i dipendenti del complesso aziendale, il lavoratore licenziato sarebbe risultato soccombente.

Va premesso che non può ritenersi pertinente al caso la evocazione della cd. prova di resistenza, espressione attraverso la quale si indica la neutralizzazione dell’invalidità di uno o più voti ai fini della validità di un atto deliberativo collegiale; la prova di resistenza è propria delle manifestazioni di volontà a formazione plurisoggettiva laddove nel licenziamento collettivo viene in questione la validità del recesso per vizi che non attengono alla formazione della volontà del datore di lavoro (neppure necessariamente espressa da un collegio) ma ai contenuti dell’atto, talchè il rilievo del vizio di annullabilità non ammetterebbe una prova conservativa di tal genere. Deve piuttosto aversi riguardo alla regola dell’art. 1441 c.c., in ragione della quale la azione di annullamento è proponibile non già da chiunque vi abbia interesse (e dunque ragione del semplice interesse ad agire) ma soltanto da parte dei soggetti titolari dell’interesse – di diritto sostanziale- protetto dalla norma. Nella fattispecie dell’annullabilità del licenziamento per violazione dei criteri di scelta l’annullamento non può dunque essere domandato indistintamente da ciascuno dei lavoratori licenziati; ove la violazione non abbia influito sulla collocazione in mobilità del lavoratore questi resterebbe titolare sul piano sostanziale piuttosto che dello specifico interesse protetto dalla norma, di un indifferenziato interesse alla legalità della azione del datore di lavoro. “Soltanto coloro che, tra i lavoratori, abbiano in concreto subito gli effetti della illegittimità, in quanto determinante la loro collocazione in mobilità, hanno un interesse qualificato e sono destinatari della tutela apprestata dalla norma della L. n. 223 del 1991, art. 5” (così, Cass. n. 54558 del 2016 nonchè, negli stessi termini, Cass. n. 13803 del 2017).

La Corte di merito bene ha fatto, quindi, a verificare se in concreto la violazione dei criteri di scelta avesse avuto (o meno) influenza sul licenziamento impugnato ed ha escluso che si fosse verificata la lamentata violazione, in quanto, in ogni caso, il ricorrente sarebbe stato ricompreso fra coloro destinati alla collocazione in mobilità e, quindi, al licenziamento, con valutazione di fatto coerente e logica e, nelle sue argomentazioni fattuali, sottratta al sindacato di legittimità.

6. Il secondo motivo è inammissibile.

Premessa la modalità di formulazione del motivo, promiscua e confusa, va rilevato come del tutto insussistente sia l’omessa motivazione denunziata, avendo il giudice di secondo grado dato contezza del proprio iter motivazionale, nel fare applicazione dei principi dettati dalla Corte di legittimità atteso che, pur riferendosi in termini generali ad una carenza di “interesse ad agire”, essa riporta testualmente il già richiamato passaggio della sentenza n. 24558/16, che individua l’interesse “sostanziale” sottostante all’impugnazione del licenziamento, imprescindibile perchè possa procedersi all’azione.

Del tutto inconferente, poi, il riferimento all’omessa pronuncia con riguardo alla domanda inerente il risarcimento del danno da illegittimità del licenziamento.

Risulta di palmare evidenza che ci troviamo di fronte ad una domanda conseguenziale rispetto all’accoglimento della domanda principale (di illegittimità del licenziamento) e che nessuna pronunzia al riguardo sia dovuta in caso di ritenuta infondatezza della domanda principale una volta che l’estromissione sia stata reputata legittima dal giudicante.

7. Il terzo motivo è inammissibile.

Ancora una volta parte ricorrente muove le proprie censure sulla base dell'”atecnico” riferimento di controparte e della sentenza alla carenza di interesse ad agire che, a sua detta, sarebbe stata l’unica eccezione originaria di parte resistente, modificata, successivamente, in termini di nuova domanda, e ne deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 1441 c.c. e L. n. 223 del 1991, art. 17.

Va rilevato, al riguardo, che del tutto inconferente appare il riferimento all’omessa motivazione su un punto decisivo della controversia in ordine all’asserita insussistenza dell’interesse ad agire.

Giova evidenziare, in merito, l’erroneità della dedotta novità della questione poichè se è vero che, con riguardo alla categoria dell’annullabilità, al giudice di merito sarebbe stato inibito rilevare d’ufficio la carenza di titolarità del “diritto sostanziale” della azione di annullamento ad hoc ex art. 1441 c.c., comma 1, nondimeno, la stessa parte ricorrente rileva che la società datrice, pur richiamando in modo non tecnico l’art. 100 c.p.c., aveva evidenziato che anche qualora la comparazione fossè stata effettuata su tutto l’assetto aziendale, il ricorrente sarebbe comunque rientrato pienamente nella platea degli avviati alla mobilità e, quindi, al licenziamento.

Muovendo, peraltro dall’assoluto difetto di specificità dei motivi in violazione del disposto di cui all’art. 366 c.p.c., va negata qualsiasi ipotesi di motivazione apparente.

Al riguardo, occorre evidenziare che il ricorrente si limita ad asserire, nel ricorso, di aver eccepito l’illegittimità del licenziamento per difetto formale “in quanto le comunicazioni iniziali e finali sono generiche e/o meramente formali, contraddittorie ed incomplete e, conseguentemente, per violazione dell’obbligo di informazione…” senza nulla riportare testualmente con riguardo alle proprie censure d’appello onde verificare l’eventuale difetto di pronunzia della Corte.

La Corte, al contrario, deve ritenersi essersi pronunziata su tutti i punti oggetto di doglianza in appello nell’affermare peraltro che anche a voler ritenere fondate tutte le censure mosse dal lavoratore ai criteri di scelta applicati dalla società, procedendo alla valutazione comparativa tra tutti i dipendenti, comunque il ricorrente sarebbe rientrato tra i lavoratori da collocare in mobilità ed avviare, quindi, al licenziamento, collocandosi nell’ambito della platea di coloro che dovevano essere avviati alla mobilità e, quindi, al licenziamento.

Del tutto irrilevante, poi, la circostanza che successivamente all’avvio della procedura di mobilità fossero intervenuti 11 esodi volontari (riducendo, quindi, la platea dei licenziabili a 31) atteso che, in ogni caso, quarantadue erano gli esuberi per la società ed in ordine a quarantadue lavoratori era stata avviata la procedura di licenziamento collettivo..

8. Alla luce delle suesposte argomentazioni, il ricorso deve essere respinto.

8.1. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo. Sussistono i presupposti per il versamento da parte delle ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,comma 1-quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso Condanna la parte ricorrente alla rifusione delle spese processuali in favore della parte controricorrente, che liquida in complessivi Euro 4.000,00 per compensi e Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nell’Adunanza camerale, il 14 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2019

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