Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.13879 del 22/05/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VALITUTTI Antonio – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – rel. Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 13744/2018 proposto da:

D.I., elettivamente domiciliato in Roma, Via Torino n. 7, presso lo studio dell’Avvocato Laura Barberio, rappresentato e difeso dall’Avvocato Gianluca Vitale giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, e Pubblico Ministero in persona del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione;

– intimati –

avverso il decreto del TRIBUNALE di TORINO del 22/3/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13/03/2019 dal cons. Dott. PAZZI ALBERTO.

FATTI DI CAUSA

1. Con decreto in data 22 marzo 2018 il Tribunale di Torino respingeva il ricorso proposto da D.I. avverso il provvedimento di diniego di protezione internazionale emesso dalla locale Commissione territoriale al fine di domandare il riconoscimento dello status di rifugiato, del diritto alla protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex artt. 2 e 14 e del diritto alla protezione umanitaria ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3 e D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6.

In particolare il Tribunale, dopo aver ritenuto non credibile il racconto del richiedente asilo, essendo emerse vistose contraddizioni che rendevano inverosimile la circostanza della sua omosessualità, rilevava che il ricorrente non aveva evidenziato atti di persecuzione ai suoi danni che consentissero il riconoscimento dello status di rifugiato, constatava che il ricorrente, non essendo stato sottoposto a procedimenti penali, non era esposto al rischio di subire un danno grave del tipo previsto dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b) ed escludeva il ricorrere anche dell’ipotesi prevista dalla successiva lett. c), sia perchè i riferimenti contenuti nel ricorso riguardavano regioni molti distanti da quelle di provenienza del migrante, sia perchè questi, non avendo mai ricevuto minacce, non era esposto al rischio effettivo di subire un pregiudizio alla vita o alla sua persona.

Infine il collegio del merito riteneva che non potesse essere accolta neppure la domanda di protezione umanitaria, tenuto conto della non grave situazione socio politica esistente in *****, dell’assenza di aspetti personali di vulnerabilità e della mancata dimostrazione di una stabile e rilevante condizione di avvenuto inserimento nel contesto nazionale.

2. Ricorre per cassazione avverso questa pronuncia D.I., al fine di far valere tre motivi di impugnazione.

L’intimato Ministero dell’Interno non ha svolto alcuna difesa.

RAGIONI DELLA DECISIONE

3.1 Il primo motivo di ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi 3 e 5, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, commi 2 e 3 e art. 27, comma 1-bis, D.P.R. n. 21 del 2015, art. 6, comma 6, e art. 16 direttiva 2013/32/UE, la violazione o falsa applicazione di norme di diritto e la violazione dei criteri legali per la valutazione di credibilità del richiedente: il Tribunale sarebbe giunto a una valutazione di non attendibilità del racconto del migrante ignorando la ricostruzione degli eventi fornita nel ricorso tanto sul piano della narrativa individuale quanto su quello delle informazioni relative al contesto del paese di provenienza, pur non potendo poggiare la propria valutazione soltanto sulla credibilità soggettiva del richiedente e dovendo invece accertare la situazione reale esistente nel paese di provenienza, anche tramite un approfondimento istruttorio officioso.

3.2 In materia di protezione internazionale l’accertamento del giudice di merito deve innanzitutto avere ad oggetto la credibilità soggettiva della versione del richiedente circa l’esposizione a rischio grave alla vita o alla persona.

La valutazione di non credibilità del racconto costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del richiedente siano coerenti e plausibili, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3,comma 5, lett. c), ma pur sempre a fronte di dichiarazioni sufficientemente specifiche e circostanziate (Cass. 27503/2018).

Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile; si deve invece escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura e interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censure attinenti al merito.

Per contro, poichè il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, mentre l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità, il giudizio circa la credibilità del ricorrente non può essere censurato sub specie di violazione di legge (Cass. 3340/2019).

Il motivo in esame risulta così inammissibile, dato che, attraverso la denuncia della violazione di norme di legge relative alla valutazione sulla credibilità del richiedente protezione internazionale, finisce per fornire una ricostruzione della fattispecie concreta difforme da quella accertata dal Tribunale.

La constatazione dell’inverosimiglianza del racconto esimeva poi il Tribunale dal compiere un approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria nel paese di origine: infatti, qualora le dichiarazioni siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 non occorre procedere a un approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria nel paese di origine, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori (Cass. 16925/2018).

4.1 Il secondo mezzo assume, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5 stante la rilevanza del rischio di danno grave ascrivibile a soggetti non statuali ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria: il Tribunale avrebbe preso in considerazione, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, soltanto i rischi di danno grave derivanti dalla sottoposizione del migrante a procedimento penale o provenienti da soggetti pubblici e avrebbe erroneamente escluso il rilievo a tal fine di vicende che presentassero carattere privatistico, malgrado il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, lett. c), indichi quali possibili responsabili della persecuzione o del grave danno anche soggetti non statuali allorchè le autorità pubbliche o le organizzazioni che controllano lo stato non possano o non vogliano fornire protezione adeguata.

4.2 Il motivo è infondato.

La giurisprudenza di questa Corte ha ristretto la rilevanza della condizione di omosessuale ai casi in cui le dichiarazioni in merito dell’istante siano ritenute sostanzialmente credibili, essendo il giudizio dell’inattendibilità fondato su dati non significativi.

In tema di protezione internazionale del cittadino straniero – si è, invero, detto – la dichiarazione del richiedente di avere intrattenuto una relazione omosessuale, nel caso in cui la valutazione circa la credibilità del dichiarante, secondo i parametri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 si sia fondata esclusivamente sull’omessa conoscenza delle conseguenze penali del comportamento, impone al giudice del merito la verifica, anche officiosa, delle conseguenze che la scoperta di una tale relazione determina secondo la legislazione del paese di provenienza dello straniero, perchè qualora un ordinamento giuridico punisca l’omosessualità come un reato, questo costituisce una grave ingerenza nella vita privata dei cittadini, che ne compromette la libertà personale e li pone in una situazione di oggettivo pericolo (Cass. 26969/2018).

Nel caso di specie, per contro, la non credibilità del ricorrente, circa la sua omosessualità, è stata ancorata – non già alla mera ignoranza delle conseguenze penali ma ad una serie di circostanze, tali da evidenziare la contraddittorietà delle sue dichiarazioni: l’età del primo rapporto, diversa nelle diverse dichiarazioni rese; l’essersi o meno prostituito; l’essere il richiedente vissuto indisturbato in ***** fino all’età di 25 anni, senza avere problemi nè dal padre nè dalle autorità; l’essere vissuto con la nonna che avrebbe tollerato i rapporti omosessuali sotto lo stesso tetto; il possesso di una tessera dell’arcigay, senza presa in carico dell’istante da parte dell’associazione.

L’accertata inverosimiglianza della condizione di omosessualità del richiedente asilo dispensava perciò il giudice di merito dal verificare l’esistenza di persecuzioni compiute ad opera di soggetti privati ai danni degli omosessuali in assenza di alcuna protezione da parte delle autorità statua li.

5.1 L’ultimo motivo di ricorso lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 in relazione al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 e art. 32, comma 3, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19 la violazione dei criteri legali per la concessione della protezione umanitaria: il Tribunale non avrebbe effettuato alcuna valutazione comparativa fra la situazione di integrazione in cui si trovava in Italia il richiedente asilo e la situazione di grave compromissione dei diritti fondamentali esistente in *****.

5.2 Il motivo è inammissibile.

Vero è (Cass. 4455/2018) che il parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia può essere valorizzato come presupposto della protezione umanitaria – nel regime previgente applicabile alla fattispecie concreta (Cass. 4890/2019) – non quale fattore esclusivo, bensì come circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale meritevole di tutela attraverso il riconoscimento di un titolo di soggiorno che protegga il soggetto dal rischio di essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale, quale quello eventualmente presente nel paese d’origine, idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali inviolabili; in questa prospettiva è necessaria una valutazione comparativa che consenta, in concreto, di verificare che ci si è allontanati da una condizione di vulnerabilità effettiva, sotto il profilo specifico della violazione o dell’impedimento all’esercizio dei diritti umani inalienabili.

Solo all’interno di questa puntuale indagine comparativa deve essere valutata, come fattore di rilievo concorrente, l’effettività dell’inserimento sociale e lavorativo e/o la significatività dei legami personali e familiari in base alla loro durata nel tempo e stabilità; i seri motivi di carattere umanitario possono quindi positivamente riscontrarsi nel caso in cui, all’esito di tale giudizio comparativo, risulti un’effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa (art. 2 Cost.).

E’ compito del giudicante la verifica della sussistenza dei “seri motivi” che legittimano la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari attraverso un esame concreto ed effettivo di tutte le peculiarità rilevanti del singolo caso, quali le ragioni che indussero lo straniero ad abbandonare il proprio paese e le circostanze di vita che, anche in ragione della sua storia personale, egli si troverebbe a dover affrontare nel medesimo paese, con onere in capo al medesimo quantomeno di allegare suddetti fattori di vulnerabilità.

Il che tuttavia è proprio quanto ha fatto il giudice del merito, il quale, una volta esclusa la veridicità della condizione di omosessualità rappresentata in sede di intervista, da una parte ha constatato come il migrante non avesse fornito elementi utili a lasciar ritenere che egli avesse maturato una stabile e rilevante condizione di inserimento nel contesto nazionale, dall’altra, laddove ha rimarcato come la condizione socio-politica del ***** non apparisse così grave da porre la totalità dei suoi cittadini in condizioni di vulnerabilità, ha reputato che le condizioni del paese d’origine non consentissero di ritenere che un eventuale rimpatrio avrebbe compromesso la titolarità e l’esercizio dei diritti umani al di sotto del loro nucleo ineliminabile.

A fronte di tale giudizio di fatto, incensurabile in questa sede, il mezzo si fonda su argomentazioni del tutto generiche e di principio, inidonee a minare la ratio decidendi posta dal giudice di merito a base della decisione impugnata.

6. In forza dei motivi sopra illustrati il ricorso va pertanto respinto.

La mancata costituzione in questa sede dell’amministrazione intimata esime il collegio dal provvedere alla regolazione delle spese di lite.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 13 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2019

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