LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DIDONE Antonio – Presidente –
Dott. TRIA Lucia – Consigliere –
Dott. SAMBITO Maria Giovanna C. – Consigliere –
Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –
Dott. PAZZI Alberto – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n. 11442/2018 proposto da:
K.B., domiciliato in Roma, P.zza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’Avvocato Antonino Ciafardini giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
Ministero dell’Interno, Pubblico Ministero presso il Tribunale di Bari;
– intimati –
avverso la sentenza n. 2098/2017 della CORTE D’APPELLO di BARI, del 7/12/2017;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 10/4/2019 dal Cons. Dott. PAZZI ALBERTO.
FATTI DI CAUSA
1. Il cittadino bengalese K.B. chiedeva al Tribunale di Bari il riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria ovvero di quella umanitaria negatigli dalla competente Commissione territoriale.
In particolare il migrante riferiva di provenire dal Bangladesh, di aver lasciato il suo paese nel maggio 2014 a causa di alcuni problemi con alcuni ragazzi appartenenti al partito *****, che erano soliti consumare pasti nel ristorante da lui gestito, senza pagare.
Una sera nasceva, però, una discussione sfociata in una rissa a suo danno, all’esito della quale perdeva i sensi per poi ritrovarsi in ospedale.
I suoi familiari avevano invano cercato di sporgere denuncia contro gli aggressori, i quali avevano distrutto il suo ristorante.
Il richiedente sporgeva, quindi, denuncia, di cui la polizia rifiutava la ricezione, e, a seguito delle minacce di morte ricevute, decideva di espatriare.
Il Tribunale rigettava le domande del richiedente asilo, ritenendo che il racconto di quest’ultimo e la situazione esistente nel suo paese di origine non giustificassero il riconoscimento delle forme di protezione richieste.
2. La Corte d’appello di Bari, dopo aver giudicato il racconto del migrante, vago e generico, di scarsa o nulla attendibilità, escludeva che la vicenda narrata autorizzasse il riconoscimento dello status di rifugiato, rilevava, rispetto alla protezione sussidiaria, che l’attuale condizione di sicurezza del paese di origine, seppur critica, non permetteva di ravvisare una situazione di violenza indiscriminata nella regione d’origine del richiedente e riteneva che non vi fossero ragioni di carattere umanitario tali da consentire l’accoglimento della richiesta di protezione umanitaria, rigettando così l’impugnazione proposta.
3. Ricorre per cassazione avverso tale pronuncia K.B., affidandosi a quattro motivi di impugnazione.
L’intimato Ministero dell’Interno non ha svolto alcuna difesa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
4.1 Il primo motivo di ricorso denuncia la nullità della sentenza di appello ex art. 134 c.p.c., n. 2, in presenza di una motivazione contraddittoria e/o apparente che, tramite argomentazioni inidonee, contraddittorie ed illogiche, non consentiva di percepire le ragioni fondanti il rigetto del gravame della decisione: in tesi di parte ricorrente la corte distrettuale avrebbe contraddittoriamente affermato che, nonostante l’attuale condizione di sicurezza del Bangladesh sia critica, non è ravvisabile una situazione di violenza indiscriminata.
Oltre a ciò la Corte d’appello avrebbe disconosciuto l’esistenza di una grave situazione di insicurezza del paese facendo riferimento al report di Amnesty International 2016/17, malgrado lo stesso rappresenti la permanente sussistenza di una situazione gravemente compromessa foriera di concrete minacce per i cittadini del Bangladesh.
Una simile motivazione assumerebbe carattere apparente e non permetterebbe di comprendere l’iter logico seguito dal giudice per arrivare alla decisione finale, in violazione dell’obbligo di cui all’art. 132 c.p.c., n. 4, di esporre concisamente i motivi di fatto e di diritto della decisione assunta.
4.2 La doglianza è infondata.
La corte distrettuale, richiamando la giurisprudenza della Corte di giustizia UE in materia (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C285/12), ha inteso spiegare che ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, doveva essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rilevava solo se, eccezionalmente, potesse ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, fossero all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria; il grado di violenza indiscriminata doveva pertanto aver raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel paese o nella regione in questione, avrebbe corso, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia.
Ciò posto la corte distrettuale ha fatto applicazione del principio enunciato rilevando come la situazione del Bangladesh, seppur critica (nel senso rappresentato dalle fonti informative internazionali citate), non integrasse la situazione di violenza indiscriminata necessaria per riconoscere la protezione richiesta.
Il motivo di ricorso interpreta in termini di contraddittorietà o apparenza il concreto sforzo compiuto dal giudice di merito per individuare invece il discrimine fra conflitto armato interno comportante una violenza generalizzata tale da costituire una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria e situazioni di criticità o belligeranza non implicanti un simile livello di violenza.
Nessuna contraddittorietà o apparenza può quindi essere ascritta alla decisione qui impugnata, che, al contrario, si impegna nel rendere ragione della qualificazione giuridica delle circostanze di fatto sottoposte al vaglio del collegio di merito e, così facendo, ben illustra l’iter logico-intellettivo seguito dal giudice per arrivare alla decisione.
5.1 Il secondo motivo di ricorso lamenta la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 5, per non avere la Corte d’Appello applicato nella specie il principio dell’onere probatorio attenuato, così come affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 27310/2008, e per non aver valutato la credibilità del richiedente alla luce dei parametri stabiliti al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5.
A fronte del quadro socio-politico evidenziato nei rapporti delle agenzie internazionali la corte distrettuale avrebbe dovuto intervenire, assolvendo il dovere di cooperazione a cui era tenuta, al fine di verificare se la situazione personale rappresentata dal richiedente potesse, in un quadro generale così grave, essere plausibile e foriera di effettivi pericoli per la vita e la sicurezza del richiedente asilo.
5.2 Il motivo è in parte inammissibile, in parte infondato.
In materia di protezione internazionale l’accertamento del giudice di merito deve innanzitutto avere ad oggetto la credibilità soggettiva della versione del richiedente circa l’esposizione a rischio grave alla vita o alla persona.
La valutazione di non credibilità del racconto costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del richiedente siano coerenti e plausibili, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3,comma 5, lett. c), ma pur sempre a fronte di dichiarazioni sufficientemente specifiche e circostanziate (Cass. 27503/2018).
Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, mentre si deve escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito; per contro, poichè il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, mentre l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, estranea all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità, il giudizio circa la credibilità del ricorrente non può essere censurato sub specie di violazione di legge (Cass. 3340/2019), come nel caso di specie.
Il motivo in esame risulta così sotto questo profilo inammissibile, dato che, attraverso la denuncia della violazione di norme di legge relative alla valutazione sulla credibilità del richiedente la protezione internazionale, finisce per fornire una ricostruzione della fattispecie concreta difforme da quella accertata dalla corte distrettuale.
La constatazione dell’inverosimiglianza del racconto esimeva poi il collegio del merito dal compiere un approfondimento istruttorio officioso circa la situazione di carattere pregiudizievole prospettata dal ricorrente.
Il dovere del giudice di cooperazione istruttoria è infatti circoscritto alla verifica della situazione obbiettiva del paese di origine e non si estende alle individuali condizioni del soggetto richiedente.
In particolare (v. Cass. 14006/2018, Cass. 13858/2018), in tema di protezione sussidiaria dello straniero prevista dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), l’ipotesi della minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale implica, alternativamente, una contestualizzazione della minaccia suddetta, in rapporto alla situazione soggettiva del richiedente, laddove il medesimo sia in grado di dimostrare di poter essere colpito in modo specifico, in ragione della sua situazione personale ovvero la dimostrazione dell’esistenza di un conflitto armato interno nel Paese o nella regione, caratterizzato dal ricorso ad una violenza indiscriminata, che raggiunga un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile, rientrato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione, correrebbe, per la sua sola presenza su quel territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia.
Il giudice, mentre è anche d’ufficio tenuto a verificare – come ha fatto nel caso di specie la corte territoriale – se nel paese di provenienza sia oggettivamente sussistente una situazione di violenza indiscriminata talmente grave da costituire ostacolo al rimpatrio del richiedente, non può invece essere chiamato (nè d’altronde avrebbe gli strumenti per farlo) a supplire a deficienze probatorie concernenti la situazione personale del richiedente, dovendo a tal riguardo soltanto effettuare la verifica di credibilità prevista nel suo complesso del già citato art. 3, comma 5 (Cass. 3016/2019).
Pertanto, qualora le dichiarazioni siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non occorre procedere ad un approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria personale nel paese di origine, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori (Cass. 16925/2018).
6.1 Il terzo motivo di ricorso lamenta la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), per non avere la Corte d’appello riconosciuto la sussistenza di una minaccia grave alla vita del cittadino straniero derivante da una situazione di violenza indiscriminata, così come meglio definita nella sentenza della Corte di Giustizia C-465/07: la corte distrettuale, posto che la protezione sussidiaria deve essere concessa non solo in situazioni di guerra dichiarata o a conflitti internazionali, ma anche in situazioni di violenza generalizzata non altrimenti controllabile dall’autorità locale, doveva accogliere la domanda all’uopo presentata, dato che il Bangladesh – stando alle risultanze dei siti di rilievo internazionale – versa in una grave situazione di violazione di diritti umani imputabile a continui scontri tra organizzazioni sovversive e autorità di governo, dove si verificano sparizioni forzate, detenzioni arbitrarie, attacchi alla libertà di espressione, attentati incendiari e armati in un clima di assoluta impunità.
6.2 Il motivo è inammissibile.
La corte distrettuale ha escluso, all’esito del giudizio di credibilità sulle dichiarazioni del ricorrente e dell’esame di fonti internazionali aggiornate e specificamente indicate, che nel paese di origine del migrante ricorresse la situazione di violenza indiscriminata necessaria per riconoscere la protezione sussidiaria ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14,lett. c).
L’accertamento del ricorrere di una situazione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, compiuta a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), costituisce apprezzamento di fatto di esclusiva competenza del giudice di merito non censurabile in sede di legittimità (Cass. 32064/2018).
A fronte di tali accertamenti – che rientrano nel giudizio di fatto demandato al giudice di merito – la doglianza intende nella sostanza proporre una diversa lettura dei fatti di causa, traducendosi in un’inammissibile richiesta di rivisitazione del merito (Cass. 8758/2017).
7.1 L’ultimo motivo di ricorso denuncia la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, per non avere la Corte d’appello riconosciuto la sussistenza dei motivi umanitari per la concessione della relativa tutela: la corte distrettuale avrebbe erroneamente rigettato la richiesta di riconoscimento della protezione umanitaria, malgrado la disamina delle motivazioni addotte in sede di audizione e la documentazione allegata consentissero di rilevare la sussistenza delle condizioni per il riconoscimento di questa forma di protezione, al pari della provenienza geografica del richiedente, il quale, ove rimpatriato, si sarebbe trovato ad affrontare condizioni di vita e sanitarie del tutto inadeguate e un limitato accesso alle cure mediche.
La corte distrettuale avrebbe inoltre trascurato di considerare come il ricorrente avesse sempre svolto attività lavorative e stesse svolgendo un percorso di integrazione nel nostro Paese.
7.2 Il motivo è inammissibile.
La Corte d’appello ha accertato, in fatto, l’inesistenza di ragioni di carattere umanitario tali da consentire il riconoscimento della forma di protezione residuale in questione.
A fronte di questo accertamento il mezzo si limita a deduzioni astratte e di principio, che non scalfiscono la ratio decidendi e si limitano a sollecitare una nuova valutazione, nel merito, della domanda.
Vero è poi che il giudice di merito era chiamato a valutare, secondo il regime applicabile ratione temporis (Cass. 4890/2019), la sussistenza del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 5,comma 6, all’esito di una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio potesse determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel paese d’accoglienza (Cass. 4455/2018). Il che tuttavia presupponeva che il migrante allegasse e dimostrasse, oltre alle ragioni che l’avevano spinto ad allontanarsi dal paese di origine, la situazione di integrazione raggiunta nel paese di accoglienza, dato che la domanda diretta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale non si sottrae all’applicazione del principio dispositivo, sicchè il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli d’ufficio nel giudizio (Cass. 27336/2018).
La sentenza impugnata tuttavia non fa il minimo cenno a una simile condizione di integrazione, che dalla lettura decisione non risulta fosse stata posta dall’appellato; nè dalla narrativa del ricorso per cassazione, come pure dallo svolgimento dei motivi, risulta che questi, nel corso del giudizio di merito, avesse rappresentato un proprio percorso di integrazione nel tessuto sociale nazionale.
Ne discende, anche sotto questo profilo, l’inammissibilità della censura a motivo della sua novità.
8. In forza dei motivi sopra illustrati il ricorso va pertanto respinto.
La mancata costituzione in questa sede dell’amministrazione intimata esime il collegio dal provvedere alla regolazione delle spese di lite.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, il 10 aprile 2019.
Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2019