Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.13894 del 22/05/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DIDONE Antonio – Presidente –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna C. – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 16753/2018 proposto da:

N.H., elettivamente domiciliato in Roma, Via Muzio Clementi n. 51, presso lo studio dell’Avvocato Valerio Santagata, rappresentato e difeso dall’Avvocato Paola Urbinati giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno;

– intimato –

avverso la sentenza n. 2902/2017 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, del 6/12/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 10/4/2019 dal Cons. Dott. PAZZI ALBERTO.

FATTI DI CAUSA

1. N.H. impugnava la decisione emessa dalla Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Bologna, sezione di Forlì – Cesena, insistendo per la concessione di una delle possibili forme di protezione.

In particolare il migrante, di provenienza dal *****, raccontava di essere fuggito dal proprio paese a causa della militanza politica del padre, aderente al partito di opposizione BNP, e per le minacce degli usurari, dai quali il genitore aveva ottenuto un prestito per evitare il fallimento della propria azienda di allevamento di polli; riferiva inoltre di riuscito ad organizzare il viaggio in Libia con l’intermediazione di un trafficante e l’aiuto economico paterno.

N.H. dichiarava anche di essere stato detenuto in un carcere libico per due settimane, subendo violenze e torture, finchè non era stato liberato grazie al pagamento di una somma di denaro da parte del padre, riuscendo così a giungere in Italia nel luglio 2015; esprimeva infine il timore di essere ucciso a causa dell’attività politica paterna in caso di ritorno in patria.

Il Tribunale di Bologna, ritenute credibili le dichiarazioni del richiedente asilo, riconosceva, in parziale accoglimento del ricorso, il suo diritto al rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari.

2. A seguito del gravame proposto dal Ministero dell’Interno la Corte d’appello di Bologna riteneva che il racconto di N.H. non fosse credibile, reputava che di conseguenza non ricorressero le condizioni per riconoscere la protezione umanitaria già accordata dal Tribunale e le forme di protezione maggiore invocate con appello incidentale e, in accoglimento dell’appello principale, rigettava il ricorso.

3. Ricorre per cassazione avverso questa pronuncia N.H., affidandosi a tre motivi di impugnazione.

L’intimato Ministero dell’Interno non ha svolto alcuna difesa.

RAGIONI DELLA DECISIONE

4.1 Il primo motivo di ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la violazione dell’art. 112 c.p.c. e la conseguente nullità della sentenza a causa dell’omessa pronuncia sull’eccezione di inammissibilità del motivo di appello relativo alla identità del richiedente protezione: il Ministero, nell’atto di appello, aveva formulato un motivo specifico relativo al fatto che non fosse certa la reale identità del N., circostanza di gravità tale da travolgere l’intero giudizio di credibilità; a fronte di una simile doglianza l’appellato aveva eccepito la tardività e l’inammissibilità del motivo di appello, ai sensi dell’art. 345 c.p.c., in quanto la sua identità non era mai stata contestata in primo grado.

Ciò nonostante la corte distrettuale non si sarebbe pronunciata su tale eccezione.

4.2 Il motivo è infondato.

In vero non è configurabile il vizio di omesso esame di una questione, connessa ad una prospettata tesi difensiva, quando debba ritenersi che la stessa sia stata esaminata e decisa implicitamente (come è avvenuto nel caso di specie, ove la corte distrettuale ha affrontato la sola questione della credibilità del racconto del migrante e, dopo averla risolta in senso negativo – non tanto per la carenza di prova della sua identità, ma piuttosto per la mancata dimostrazione della veridicità del racconto e per l’assenza di idonea giustificazione dell’assenza di documenti identificativi -, ha ritenuto che la stessa rivestisse carattere assorbente e rendesse superfluo l’esame della questione relativa all’identità del migrante).

Peraltro il mancato esame da parte del giudice, sollecitatone dalla parte, di una questione puramente processuale non può dar luogo al vizio di omessa pronunzia, il quale è configurabile con riferimento alle sole domande di merito, e non può assurgere quindi a causa autonoma di nullità della sentenza, potendo profilarsi al riguardo una nullità (propria o derivata) della decisione, per la violazione di norme diverse dall’art. 112 c.p.c., nel caso in cui sia errata la soluzione implicitamente data dal giudice alla questione sollevata (Cass. 7406/2014, Cass. 13649/2005).

L’eccezione sollevata dal ricorrente, invero, era diretta a lamentare (implicitamente) la violazione dell’art. 345 c.p.c..

Violazione insussistente (e correttamente, sebbene implicitamente, ritenuta tale dalla corte di appello) in quanto il fatto principale dedotto in appello era costituito dalla non credibilità del ricorrente, mentre i dubbi sulla sua identità costituivano niente altro che argomenti a sostegno della dedotta non credibilità del racconto.

Argomenti punto affatto decisivi qualora si consideri che anche chi mente (per ragioni le più disparate) sulla propria identità può narrare un fatto vero.

5.1 Il secondo mezzo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi 1 e 5, in merito alla credibilità delle dichiarazioni del migrante: la Corte d’appello, omettendo di procedere a uno scrutinio fondato sui parametri normativi tipizzati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, avrebbe affermato la generica inverosimiglianza della narrazione del richiedente asilo senza ulteriori specificazioni e senza prendere effettiva posizione sulle sue affermazioni.

La corte distrettuale inoltre, nel formulare un simile giudizio, avrebbe fatto ricorso, in violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, a una motivazione apparente, contraddittoria rispetto al giudizio di non credibilità e fondata su dichiarazioni mai fatte dal migrante.

Per di più la decisione impugnata, in violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2 e art. 3, commi 1 e 2, avrebbe ritenuto di nessuna utilità i documenti prodotti, relativi alla candidatura del padre, benchè tali norme impongano di presentare tutta la documentazione in possesso del migrante rilevante ai fini del riconoscimento della protezione richiesta, anche se riguardante i congiunti; questi documenti costituivano una dimostrazione dei ragionevoli sforzi compiuti dal richiedente per circostanziare la domanda e contribuivano alla formazione del giudizio di credibilità.

Infine la corte distrettuale non avrebbe esaminato il fatto storico decisivo costituito dalla certezza dell’identità del N..

5.2 Il motivo risulta in parte inammissibile, in parte infondato.

5.2.1 In materia di protezione internazionale l’accertamento del giudice di merito deve innanzitutto avere ad oggetto la credibilità soggettiva della versione del richiedente circa l’esposizione a rischio grave alla vita o alla persona.

La valutazione di affidabilità del dichiarante alla luce del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, comma 5, è vincolata ai criteri indicati dalle lettere a) e d) e deve essere compiuta in modo unitario (lettera e), tenendo conto dei riscontri oggettivi e del rispetto delle condizioni soggettive di credibilità contenute nella norma (Cass. 8282/2013).

Il collegio di merito si è ispirato a questi criteri laddove, all’interno del provvedimento impugnato, ha ritenuto che il richiedente non solo non avesse compiuto alcuno sforzo per circostanziare la domanda (come previsto dall’art. 3, comma 5, lett. a, appena citato), senza offrire alcuna prova della veridicità del suo racconto, ma avesse anche fornito (rispetto al criterio previsto dalla successiva lett. c) una versione dei fatti non plausibile in alcuni punti salienti.

La valutazione di non credibilità del racconto costituisce poi un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del richiedente siano coerenti e plausibili, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, lett. c), ma pur sempre a fronte di dichiarazioni sufficientemente specifiche e circostanziate (Cass. 27503/2018).

Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, mentre si deve escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito; per contro, poichè il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, mentre l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, estranea all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità, il giudizio circa la credibilità del ricorrente non può essere censurato sub specie di violazione di legge (Cass. 3340/2019), come nel caso di specie.

Il primo profilo di doglianza risulta così inammissibile, dato che, attraverso la denuncia della violazione di norme di legge relative alla valutazione sulla credibilità del richiedente la protezione internazionale, finisce per fornire una ricostruzione della fattispecie concreta difforme da quella accertata dal Tribunale e rappresenta così un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa che rimane estranea al vizio denunciato.

5.2.2 La corte distrettuale ha spiegato a chiare lettere la propria convinzione in merito alla non veridicità del racconto, sia a motivo della rappresentazione di timori che investivano direttamente il genitore, benchè rimasto in patria, e non il migrante, sia per la totale estraneità dell’appellato ai temi politici trattati dal padre, sia perchè questi non aveva posto rimedio alla mancanza di documenti malgrado il persistente contatto con la famiglia di origine.

Gli argomenti contenuti nella sentenza impugnata (ove per il vero non è utilizzato l’avverbio tranquillamente per qualificare la permanenza del genitore in *****) rappresentano in maniera inequivoca l’iter logico-intellettivo seguito dal giudice per arrivare alla decisione, attraverso una successione di ragioni tese tutte a sottolineare la non credibilità del racconto del migrante.

Nessuna nullità della motivazione può quindi essere ipotizzata ai sensi dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4.

5.2.3 La corte territoriale ha ritenuto che il ricorrente – il quale si era preoccupato di depositare la candidatura della persona che egli indicava come il proprio padre ma non i propri documenti identificativi, pur avendo viaggiato in due occasioni in aereo – non avesse adeguatamente assolto l’obbligo di produrre tutta la documentazione rilevante in suo possesso, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 2, riguardante non solo la condizione sociale anche dei congiunti ma anche alla sua identità.

In questo modo il collegio del merito ha inteso sottolineare non solo la mancanza di una comprovata relazione parentale con il soggetto a cui si riferiva la candidatura, ma soprattutto un adempimento parziale e ingiustificato, stante il suo perdurare, agli obblighi previsti dalla norma appena richiamata e ha addotto simili circostanze a concorrente fondamento del proprio giudizio di non credibilità.

A fronte di questi accertamenti – che rientrano nel giudizio di fatto demandato al giudice di merito – la doglianza, seppur proposta in termini di violazione di legge, intende nella sostanza proporre una diversa lettura dei fatti di causa, traducendosi in un’inammissibile richiesta di rivisitazione del merito della controversia (Cass. 8758/2017).

5.2.4 L’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel suo attuale testo riguarda un vizio specifico denunciabile per cassazione relativo all’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, nozione da intendersi come riferita a un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico – naturalistico e non ricomprendente questioni o argomentazioni, dovendosi di conseguenza ritenere inammissibili le censure irritualmente formulate che estendano il paradigma normativo a quest’ ultimo profilo (Cass. 21152/2014, Cass. 14802/2017).

Non risulta perciò censurabile sotto il profilo dedotto la mancata valutazione della certezza sulla reale identità del migrante, perchè la questione (come detto posta dall’appellante principale e ritenuta assorbita dalla corte territoriale) non solo non rappresenta un fatto storico nel senso inteso dalla norma, ma non aveva neppure alcuna decisività, stante la non credibilità delle dichiarazioni complessivamente rese dal richiedente asilo ravvisata dalla corte distrettuale.

6.1 Il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 32, comma 3, in quanto la corte territoriale, ritenendo che la dichiarata non credibilità esentasse da ulteriori verifiche, non avrebbe considerato, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, la situazione del paese di origine, in relazione al rispetto dei diritti umani primari e al percorso di integrazione all’interno del paese ospitante.

6.2 Vero è che il giudice del merito era chiamato a valutare, secondo il regime applicabile ratione temporis (Cass. 4890/2019), la sussistenza del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 5,comma 6, all’esito di una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio potesse determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel paese d’accoglienza (Cass. 4455/2018).

Il che tuttavia presupponeva che il migrante allegasse e dimostrasse, oltre alle ragioni che l’avevano spinto ad allontanarsi dal paese di origine, la situazione di integrazione raggiunta nel paese di accoglienza, dato che la domanda diretta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale non si sottrae all’applicazione del principio dispositivo, sicchè il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli d’ufficio nel giudizio (Cass. 27336/2018).

La sentenza impugnata tuttavia non fa il minimo cenno a una simile condizione di integrazione, che dalla lettura della decisione non risulta fosse stata posta dall’appellato; nè dalla narrativa del ricorso per cassazione (dove si fa soltanto richiamo a un tirocinio formativo e a una lettera di assunzione contenuti nel fascicolo di primo grado), come pure dallo svolgimento dei motivi, risulta che questi, nel corso del giudizio di merito, avesse specificamente rappresentato un proprio percorso di integrazione nel tessuto sociale nazionale.

Ne discende, anche sotto questo profilo, l’inammissibilità della censura a motivo della sua novità.

7. In forza dei motivi sopra illustrati il ricorso va pertanto respinto.

La mancata costituzione in questa sede dell’amministrazione intimata esime il collegio dal provvedere alla regolazione delle spese di lite.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 10 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2019

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