Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.14420 del 27/05/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

Dott. MARCHESE Gabriella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7532-2016 proposto da:

I.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DEI SALESIANI 4, presso lo studio dell’avvocato LUIGI ISOLA, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

B! S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LUDOVISI 35, presso lo studio dell’avvocato EMILIANO PELLEGRINO, rappresentata e difesa dagli avvocati LUISA BERGAMINI, GIANLUCA SPOLVERATO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 8677/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 13/01/2016 R.G.N. 3206/2014.

RILEVATO CHE:

1. il Tribunale di Roma, per quanto solo rileva in questa sede, rigettava la domanda di pagamento di Euro 54.425,00, promossa da I.G. nei confronti di B! S.p.A., “quale corrispettivo per la perdita della retribuzione in natura, rappresentata dal benefict dell’utilizzo, anche a fini privati, di un’autovettura” poi revocato dal 31.1.2006 e sino al termine del rapporto;

2. la Corte di appello di Roma, con la decisione impugnata, respingeva il gravame del lavoratore;

2.1. a fondamento della decisione, in estrema sintesi, la Corte territoriale poneva le medesime argomantazioni del giudice di primo grado ed in particolare che: a) i fringe benefits hanno natura retributiva e pertanto la loro perdita rappresenta una reformatio in peius del trattamento retributivo; b) nel caso concreto, in busta paga era stato riconosciuto, a seguito della revoca del beneficio, l’equivalente monetario dell’uso dell’autovettura; c) era congruo stabilire l’importo equivalente in base al criterio nominale, di cui all’art. 51, comma 3, TUIR, in ragione di esigenze di certezza; d) non vi erano motivi per disattendere tale previsione solo in ragione della deduzione di un trattamento di maggior favore, genericamente allegata e neppure provata;

3. ha proposto ricorso per cassazione il lavoratore fondato su tre motivi, illustrati con memoria;

4. ha resistito con controricorso la società in epigrafe.

CONSIDERATO CHE:

1. con il primo motivo – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 – è dedotto travisamento dei fatti ed erronea applicazione dell’art. 51, comma 4, del TIUR; si assume, da un lato, il vizio motivazionale per essere la decisione, in parte contraddittoria, in parte inconsistente; dall’altro, un vizio di sussunzione, laddove, nella sostanza, la Corte di appello avrebbe ricondotto la fattispecie concreta nell’ambito di quella disciplinata dall’art. 51, comma 4, TUIR; secondo la parte ricorrente, i giudici di merito avrebbero errato nell’utilizzare, quale parametro per determinare il valore economico dell’auto aziendale, in uso promiscuo, il criterio di cui all’art. 51, comma 4, riferito al valore fiscale del bene ed applicabile al sostituto d’imposta;

2. con il secondo motivo – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 – è dedotto travisamento dei fatti ed erronea applicazione degli artt. 1223,2099 e 2103 c.c. e dell’art. 51, comma 4, del TIUR; secondo la parte ricorrente, la Corte di appello non avrebbe considerato il reale vantaggio economico ricevuto dal lavoratore e neppure considerato che il valore dello stesso dovesse essere rapportato al costo sopportato dal lavoratore per conseguire una situazione uguale a quella persa;

3. i motivi possono esaminarsi congiuntamente, stante la loro stretta connessione; essi sono inammissibili;

3.1. entrambi, nella sostanza, censurano il criterio adottato dal giudice di merito, nell’esercizio di un potere a lui riservato, afferente ad una determinazione in via equitativa, quale quello della determinazione del controvalore economico della retribuzione in natura, rappresentata dall’uso promiscuo di una autovettura aziendale;

3.2. la natura retributiva, riconosciuta dalla sentenza impugnata, del valore rappresentato dall’uso dell’autovettura concessa al dipendente, anche per fini personali e familiari, è in linea con il costante insegnamento di questa Corte per il quale il valore dell’uso e della disponibilità, anche a fini personali, di una autovettura concessa contrattualmente dal datore al prestatore di lavoro come beneficio in natura, anche indipendentemente dalla sua effettiva utilizzazione, rappresenta il contenuto di una obbligazione che, ove pure non ricollegabile ad una specifica prestazione, è idonea ad essere considerata di natura retributiva, con tutte le relative conseguenze, se pattiziamente inserita nella struttura sinallagmatica del contratto di lavoro cui essa accede (Cass. n. 19616 del 2003; Cass. n. 16129 del 2002; Cass. n. 1428 del 1998; Cass. n. 8831 del 1992; Cass. n. 4666 del 1987; in motivazione, più di recente, Cass. n. 8086 del 2016);

3.3. il criterio di determinazione del suo valore controvalore economico, involgendo, tuttavia, valutazioni di merito, costituisce un tipico accertamento di fatto;

3.4. nella specie, la Corte di appello ha utilizzato il parametro fissato dall’art. 51 TIUR (id est: D.P.R. n. 917 del 1986, art. 51), ai fini della determinazione del reddito imponibile, e ritenuto la congruenza dello stesso (e non già – come dedotto dal ricorrente – che lo stesso fosse stato concordato dalle parti), osservando piuttosto come, in difetto di deduzioni che dessero conto della volontà delle parti di attribuire al bene un maggiore valore, il criterio di determinazione del reddito imponibile rispondesse ad esigenze di certezza ed uniformità;

3.5. tale statuizione è censurata in maniera inadeguata;

3.6. sotto il profilo del vizio di motivazione, da un lato, i motivi non indicano, nei termini rigorosi richiesti dal vigente testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (applicabile alla fattispecie) il “fatto storico”, non esaminato, che abbia costituito oggetto di discussione e che abbia carattere decisivo (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053), dall’altro, non è ravvisabile una situazione di “anomalia motivazionale”;

3.7. a tale ultimo riguardo, come chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass., sez. un., n. 19881 del 2014; Cass., sez. un., n. 8053 del 2014), si è, infatti, precisato che la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. del 2012, art. 54 deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione; è pertanto denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che, implicante una violazione di legge costituzionalmente rilevante, integra un “error in procedendo” e comporta la nullità della sentenza solo nel caso di “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, di “motivazione apparente”, di “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, di “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”; non è, invece, più consentita la formulazione di censure per il vizio di insufficiente o contraddittoria motivazione (Cass., sez. un., n. 14477 del 2015; ex multis, tra le sezioni semplici, Cass. n. 31543 del 2018);

3.8. è stato, anche, chiarito che di “motivazione apparente” o di “motivazione perplessa e incomprensibile” può parlarsi laddove essa non renda “percepibili le ragioni della decisione, perchè consiste di argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento, di talchè essa non consenta alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice” (Cass., sez. un., n. 22232 del 2016);

3.9. nella fattispecie di causa, la motivazione relativa all’individuazione del criterio di conversione nel parametro fissato dall’art. 51 TUIR è comprensibile sicchè può discutersi della sua plausibilità e condivisibilità ma non di una sua anomalia, nei termini delineati da questa Corte;

4. sotto il profilo del vizio di violazione di legge, le censure piuttosto che evidenziare violazioni puntuali di norme di diritto rinvenibili nella sentenza impugnata, si risolvono in una critica dell’iter logico-argomentativo che sorregge la decisione, così schermando, ugualmente, una inammissibile deduzione di vizio della motivazione;

4.1. in proposito va ricordato che, per costante indirizzo di questa Corte, la disposizione dell’art. 366 c.p.c., n. 4 secondo cui il ricorso per la cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità, l’indicazione delle norme di diritto che si assumono violate, va interpretata nel senso che tale indicazione è richiesta al solo fine di chiarire il contenuto dei motivi per i quali si chiede la cassazione della sentenza. Pertanto, ove si possa identificare il contenuto delle censure attraverso le ragioni prospettate dal ricorrente, il profilo sostanziale dell’atto deve prevalere su quello formale, sicchè l’omessa o l’erronea indicazione degli articoli di legge viene a perdere ogni rilevanza (Cass. n. 4923 del 1995; Cass. n. 302 del 1996; Cass. n. 1430 del 1999; Cass., n. 15713 del 2002); tuttavia, è altrettanto fermo l’orientamento secondo cui il ricorrente per cassazione che impugni la sentenza di merito per violazione di legge, non possa esimersi dalla compiuta indicazione del principio di diritto che assume essere stato violato, in quanto anche il vizio di violazione di legge deve, per regola generale, essere “decisivo”, ossia tale da comportare, se sussistente, una decisione diversa, favorevole al ricorrente, sicchè è necessario che il relativo motivo di ricorso indichi non solo la regola che non va applicata al caso concreto, ma anche quella (diversa) a suo avviso invece applicabile e che comporterebbe una diversa decisione, favorevole all’impugnante: senza di che non è possibile apprezzare la decisività della censura e, dunque, l’interesse a proporla (vedi, per tutte: Cass. n. 886 del 2004; Cass. n. 13184 del 2007; Cass. n. 25232 del 2015);

4.2. nella specie, le argomentazioni con le quali si sostiene l’erroneità della decisione non risultano sviluppate nei termini che precedono, in quanto prive di specifici riferimenti normativi che escludano la possibilità del ricorso, in via equitativa, al parametro di conversione utilizzato dalla Corte di merito;

5. con il terzo motivo – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 – si censura la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c.: del pari inammissibile è il motivo che concerne la statuizione di condanna delle spese di lite;

5.1. la pronuncia ha regolato le spese sulla base del principio di soccombenza sicchè restano inconferenti i riferimenti alle norme indicate in rubrica, peraltro di natura processuale e da denunciare in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 4 (Cass. n. 7067 del 2005);

6. conclusivamente il ricorso va dichiarato inammissibile, con le spese liquidate in dispositivo secondo soccombenza;

7. occorre dare atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 4.000,00 per compensi professionali, in Euro 200,00 per esborsi oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 6 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 27 maggio 2019

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