Corte di Cassazione, sez. II Civile, Sentenza n.14437 del 27/05/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. GIUSTI Alberto – rel. Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

T.D., (o T.D.), rappresentata e difesa dall’Avvocato Fabio Maida;

– ricorrente –

contro

T.E., (o T.E.), rappresentato e difeso dagli Avvocati Isa Tirabassi e Roberta Spaggiori, con domicilio eletto presso lo studio dell’Avvocato Mauro Longo in Roma, via Pompeo Magno, n. 94;

– controricorrente –

e contro

T.T., (o T.T.), rappresentata e difesa dagli Avvocati Andrea Testi e Gian Piero Zuccalà, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, via M. Dionigi, n. 29;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di Bologna n. 301/2015, pubblicata in data 16 febbraio 2015;

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 5 febbraio 2019 dal Consigliere Dott. Alberto Giusti;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Celeste Alberto, che ha concluso per l’inammissibilità o, in subordine, per il rigetto del ricorso;

uditi gli Avvocati Fabio Maida, Mauro Longo e Andrea Testi.

FATTI DI CAUSA

1. – Nel giudizio di scioglimento della comunione, in parte ordinaria ed in parte ereditaria, sul fondo rustico ***** nel Comune di *****, il Tribunale di Modena, con sentenza definitiva n. 96 del 2013 (che faceva seguito alla sentenza non definitiva n. 272 del 2009), così provvedeva: (a) attribuiva a T.E. e a T.T., congiuntamente tra loro, i terreni di cui ai mappali ***** del predetto fondo e a T.D., anche quale erede di T.M., deceduta in corso di causa, i terreni di cui ai mappali ***** ed i fabbricati di cui ai mappali *****; (b) poneva a carico di T.E. e di T.T., in solido tra loro, il pagamento della somma di Euro 20.000 a titolo di conguaglio, al cui versamento condizionava l’attribuzione dei terreni in loro favore; (c) condannava T.D., quale erede di T.M., al pagamento, in favore di ciascuno degli altri due condividenti, della somma di Euro 37.267,28, oltre interessi legali dalla decisione al saldo, a titolo di rendiconto; (d) condannava la medesima alla refusione delle spese processuali sostenute dagli altri due; (e) poneva definitivamente il costo della c.t.u. a carico di T.D. per la metà e di T.E. e di T.T., in solido, per la restante metà.

Il Tribunale riteneva:

– che il valore dei beni indicati dal c.t.u. era attuale e condivisibile, risultando invece generiche e non supportate da alcun riscontro le contestazioni di T.D.;

– che il fondo rustico doveva essere diviso in due porzioni diseguali, essendo T.D. titolare della quota di 8/15 ed avendo T.E. e T.T. chiesto di rimanere tra loro in comunione per la residua quota indivisa di 7/15;

– che, non essendo economicamente praticabile la divisione dei fabbricati aziendali e considerando la presenza di un canale consortile tra i terreni, risultava conforme all’interesse manifestato dalle parti assegnare a T.D. una porzione comprendente tutti i predetti fabbricati e a T.E. e a T.T. una porzione indivisa comprendente solo terreni agricoli;

– che le porzioni da assegnare avevano rispettivamente il valore di Euro 700.000 per T.D. e di Euro 650.000 per T.E. e T.T.;

– che, tenuto conto delle quote spettanti all’una ed agli altri, ne conseguiva un conguaglio di Euro 20.000 a favore di T.D.;

– che, tenuto conto del possesso esclusivo del fondo da parte di T.M. a far tempo dalla successione del proprio padre e del mancato versamento agli altri comproprietari della gestione dell’azienda agricola e dei contributi pubblici ricevuti, la sua erede T.D. risultava debitrice verso i condividenti T.E. e T.T. della somma pari a Euro 26.237,96 per ciascuno, da maggiorarsi di rivalutazione e interessi, e, quindi, pari a Euro 37.627,68 alla data della pronuncia;

– che era tardiva e andava invece rigettata la domanda riconvenzionale formulata da T.M. in ordine al rimborso pro quota da parte di T.E. e di T.T. di quanto da lei anticipato per estinzione di passività e pesi ereditari;

che la condotta processuale ostruzionistica tenuta dalle condividenti T.M. e T.D. (costoro infatti avevano infondatamente contestato la possibilità di scioglimento unitario delle comunioni ordinaria ed ereditaria, si erano opposte al rendimento dei conti, avevano rifiutato di addivenire all’accordo divisionale raggiunto, così causando l’allungamento dei tempi del procedimento) giustificava la condanna di quest’ultima, anche quale erede universale dell’altra, alla refusione delle spese processuali sostenute dagli altri due condividenti.

2. – Pronunciando sul gravame interposto da T.D., la Corte d’appello di Bologna, con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 16 febbraio 2015, ha così provveduto:

– ha dichiarato tenuti gli appellati a rimborsare all’appellante la somma di Euro 1.712,19 ciascuno oltre interessi legali dal 18 maggio 2000;

– ha compensato il credito degli appellati (di cui al capo II della sentenza impugnata) con il credito dell’appellante (di cui al capo precedente ed al capo I della sentenza impugnata), fino alla corrispondente minor somma di questi, e conseguentemente ha condannato T.D. al pagamento della differenza, oltre interessi legali dalla data della sentenza impugnata al saldo, revocando la subordinazione dell’attribuzione dei beni agli appellati rispetto al pagamento del conguaglio;

– ha rigettato per il resto l’appello;

– ha dichiarato tenuta e condannato l’appellante alla refusione in favore degli appellati dell’80% delle spese processuali di entrambi i gradi.

In particolare, la Corte territoriale ha respinto:

il motivo (il primo) con cui si censurava l’assegnazione del mappale ***** agli appellati T.E. e T.T., assumendosi che il mappale risulterebbe intercluso e che, di conseguenza, i terreni assegnati a T.D. sarebbero assoggettati ad una futura costituzione di servitù coattiva;

i motivi (il secondo ed il terzo) relativi alla stima dei beni assegnati a T.D., ad avviso dell’appellante viziata dalla considerazione di una futura, ma in realtà inesistente, capacità edificatoria di parte dei terreni nonchè dalla mancata considerazione della rovina dei fabbricati a seguito degli eventi sismici del maggio 2012;

la doglianza (articolata con il quarto motivo) relativa al debito per il rendiconto della gestione dei beni ereditari, sotto il profilo della mancata valorizzazione del lavoro prestato dalla debitrice nell’azienda agricola costituita dai beni predetti.

La Corte di Bologna ha invece accolto la censura concernente la domanda riconvenzionale per il rimborso delle passività ereditarie (quinto motivo) e l’istanza riguardante la compensazione tra le contrapposte ragioni di credito (dell’appellante verso gli appellati per il rimborso delle spese sostenute per passività ereditarie accertate in sede di gravame e per il conguaglio accertato con la sentenza impugnata; e degli appellati verso l’appellante per il rendiconto accertato con la sentenza impugnata).

In sostanza, la Corte d’appello ha confermato la pronuncia di primo grado quanto all’attribuzione dei beni ai condividenti, all’entità del conguaglio dovuto dagli appellati all’appellante ed all’entità delle somme dovute per il rendiconto dall’appellante agli appellati; mentre ha riformato la pronuncia di primo grado con l’accoglimento della ri-convenzionale per il rimborso delle passività ereditarie e con la disposta compensazione tra i contrapposti crediti.

3. – Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello, notificata il 20 marzo 2015, T.D. ha proposto ricorso, con atto notificato l’8 maggio 2015, sulla base di quattordici motivi.

Hanno resistito, con separati atti di controricorso, T.E. e T.T..

La ricorrente, in prossimità dell’udienza, ha depositato una memoria illustrativa con allegati documenti.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Unitamente alla memoria ex art. 378 c.p.c. la ricorrente ha depositato i seguenti documenti:

– la determina n. 525 del Comune di ***** del 29 novembre 2016, recante l’occupazione d’urgenza e la fissazione dell’indennità provvisoria per l’esproprio delle aree necessarie relative ai lavori di realizzazione di una pista ciclabile a ***** in ***** nel Comune di *****;

– le osservazioni in data 20 aprile 2017 di T.D. sulla determinazione dell’indennità provvisoria di occupazione d’urgenza;

– la comunicazione del Comune di ***** del 10 luglio 2017 in risposta alle osservazioni di T.D.;

– il preliminare di atto costitutivo di servitù di elettrodotto 10 ottobre 2017 con allegati;

– il decreto in data 8 settembre 2015 del Tribunale di Modena di rigetto della istanza di nomina di un amministratore della comunione.

Il deposito di tali atti e documenti non è ammissibile, essendo avvenuto al di fuori dei casi di cui ne è consentita la produzione in cassazione ai sensi dell’art. 372 c.p.c., trattandosi di documenti che non riguardano la nullità della sentenza impugnata nè l’ammissibilità del ricorso o del controricorso.

2. – Va esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto di valida procura in capo al difensore che ha sottoscritto il ricorso, sollevata dal controricorrente T.E..

L’eccezione è sollevata sul rilievo che la procura risulta rilasciata all’Avvocato Fabio Maida in data 7 maggio 2015, secondo quanto attestato dallo stesso Avvocato nella relazione di notificazione telematica del ricorso medesimo, laddove il ricorso per cassazione è stato formato il giorno successivo, l’8 maggio 2015; sicchè la procura – non potendo essere apposta in calce di un atto non ancora formato – non potrebbe considerarsi apposta in calce al ricorso e avrebbe dovuto essere conferita mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata, secondo quanto previsto dall’art. 83 c.p.c., comma 2.

2.1. – L’eccezione è infondata.

Il ricorso per cassazione, sottoscritto dall’Avvocato Maida in data 8 maggio 2015, reca, su foglio congiunto materialmente al ricorso, la procura speciale, senza data, conferita da T.D. all’Avvocato Maida, e autenticata dal medesimo difensore. La procura – che si considera apposta in calce – risulta espressamente rilasciata per “impugnare avanti alla Corte di cassazione la sentenza n. 301/2015 pronunciata dalla Corte d’appello di Bologna il 13 gennaio 2015 e pubblicata il 16 febbraio 2015”.

Va pertanto fatta applicazione del principio secondo cui è validamente rilasciata la procura apposta in calce al ricorso per cassazione, ancorchè il mandato difensivo sia privo di data, poichè l’incorporazione dei due atti in un medesimo contesto documentale implica necessariamente il puntuale riferimento dell’uno all’altro, come richiesto dall’art. 365 c.p.c. ai fini del soddisfacimento del requisito della specialità (Cass., Sez. III, 5 dicembre 2014, n. 25725).

Infatti, la procura per il giudizio di cassazione rilasciata in calce al ricorso, in quanto corpo unico con tale atto, garantisce il requisito della specialità del mandato al difensore, al quale, quando privo di data, deve intendersi estesa quella del ricorso stesso (Cass., Sez. II, 23 luglio 2015, n. 15538).

Nè è di ostacolo alla validità della procura la circostanza che, nella relazione di notifica telematica ai sensi della L. n. 53 del 1994, l’Avvocato Maida abbia attestato di avere ricevuto i poteri di difensore “in forza di procura alle liti rilasciata… in data 7 maggio 2015”.

Infatti, la data, indicata, del 7 maggio 2015 – seppure anteriore di un giorno a quella di sottoscrizione del ricorso – dimostra che la procura è stata conferita dopo la pubblicazione della sentenza (16 febbraio 2015) e prima della notifica del ricorso (8 maggio 2015) (cfr. Cass., Sez. I, 24 marzo 2006, n. 6687); e, trattandosi di procura speciale apposta in calce al ricorso per effetto della congiunzione materiale ad esso, correttamente l’autografia della sottoscrizione è stata certificata dal difensore.

3. – Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 720 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), giacchè i giudici del merito, nell’attribuire a E. e a T.T. il mappale *****, avrebbero creato un fondo intercluso. Gli assegnatari di un tale terreno potrebbero raggiungerlo solo attraverso la costituzione di una servitù (che non è stata disposta nè con la sentenza di primo grado nè con quella di appello) ovvero costruendo un ponte sopra al canale consortile. Ad avviso della ricorrente, la necessità di costruire un ponte per scavalcare un canale appartenente a terzi largo circa una decina di metri implicherebbe problemi tecnici eccessivamente costosi sotto l’aspetto economico-funzionale, tali da rendere inattuabile una siffatta ipotesi di frazionamento.

3.1. – Il motivo è privo di fondamento.

In tema di divisione giudiziale, la non comoda divisibilità di un immobile, integrando un’eccezione al diritto potestativo di ciascun partecipante alla comunione di conseguire i beni in natura, può ritenersi legittimamente predicabile solo quando risulti rigorosamente accertata la ricorrenza dei suoi presupposti, costituiti dalla irrealizzabilità del frazionamento dell’immobile, o dalla sua realizzabilità a pena di notevole deprezzamento, o dalla impossibilità di formare in concreto porzioni suscettibili di autonomo e libero godimento, non compromesso da servitù, pesi o limitazioni eccessivi (Cass., Sez. II, 28 maggio 2007, n. 12406; Cass., Sez. II, 21 agosto 2012, n. 14577).

A tale principio si è conformata la Corte d’appello, la quale ha escluso che gli immobili siano non comodamente divisibili, rilevando che – sebbene il terreno di cui al mappale *****, assegnato a T.T. e a T.E., sia privo di accesso alla via pubblica e sia separato mediante un canale consortile di irrigazione dagli altri mappali, non interclusi, assegnati ai medesimi – non è in concreto ravvisabile il pericolo che i terreni assegnati a T.D. siano con ciò assoggettabili ad una futura costituzione coattiva di servitù di passaggio.

La Corte di Bologna ha motivato questa conclusione sulla base di una duplice considerazione: rilevando, per un verso, che non risultano sussistere impedimenti a che l’ente gestore del canale di irrigazione consenta a T.T. e a T.E. di collegare mediante un ponticello il mappale ***** ai restanti terreni loro assegnati; e sottolineando, per l’altro verso, che costoro hanno dichiarato di non avere interesse a richiedere alcuna servitù, in quanto il mappale sarebbe destinato a essere alienato a terzi e ricompreso in una proprietà confinante avente accesso diretto alla via pubblica.

La ricorrente critica la conclusione cui è pervenuto il giudice del merito, sostenendo che il c.t.u. non avrebbe “verificato presso l’ente consortile la fattibilità della costruzione del ponte”, che la Corte d’appello avrebbe dovuto “disporre una nuova c.t.u. ovvero, quantomeno, una integrazione di quella espletata in primo grado” e che “la necessità di costruire un ponte per scavalcare un canale appartenente a terzi e largo circa una decina di metri (dato rilevabile dall’esame dell’estratto di mappa catastale contenuto nella relazione peritale)” implicherebbe “sicuramente” quei problemi tecnici eccessivamente costosi che rendono inattuabile l’ipotesi di frazionamento.

Sennonchè, una tale doglianza – quantunque formalmente intesa a denunciare un vizio di violazione e di falsa applicazione dell’art. 720 c.c. – finisce con il risolversi in una critica dell’accertamento di fatto operato, in base alle risultanze di causa, dal giudice del gravame, il quale ha escluso la sussistenza di pesi o limitazioni eccessive nascenti dal frazionamento o che lo stesso richieda opere complesse e di notevole costo. La Corte d’appello ha infatti ritenuto sufficiente, per superare l’interclusione, “un ponticello” (non risultando che per tale realizzazione vi siano difficoltà da parte dell’ente gestore del canale di irrigazione), e ha comunque escluso che dall’assegnazione del mappale ***** a T.T. e a T.E. derivi l’assoggettamento dei terreni assegnati a T.D. ad una futura costituzione coattiva di servitù di passaggio.

Va qui ribadito che l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ai sensi del novellato n. 5 dell’art. 360 c.p.c. (Cass., Sez. VI- 2, 12 ottobre 2017, n. 24054; Cass., Sez. I, 13 ottobre 2017, n. 24155).

4. – Il secondo mezzo (rubricato illogicità e contraddittorietà della motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) lamenta che la Corte di merito non abbia tenuto in alcun conto l’osservazione della difesa tesa ad evidenziare come, per la costruzione del ponte, sarebbe necessario attraversare con macchine operatrici la porzione fondiaria assegnata alla ricorrente, distruggendo le colture in atto e limitandone il godimento, ciò che sarebbe possibile unicamente con il consenso di questa o con l’imposizione di una servitù coattiva. Avrebbe errato, inoltre, la Corte felsinea a dare peso alla manifestata intenzione degli appellati di voler procedere alla alienazione del mappale in questione ad un confinante terzo estraneo: difatti, a prescindere dalla insufficienza della prova fornita di tale intenzione di vendita, siffatta manifestata intenzione non consentirebbe di superare il concetto di non comoda divisibilità riveniente dall’inevitabile costituzione di servitù.

4.1. – Il motivo è inammissibile.

Non solo nella rubrica, ma anche nella sostanza, le contestazioni riguardano il vizio di motivazione, essendo dirette a sostenere che la sentenza impugnata sarebbe affetta da illogicità e contraddittorietà: per avere “aggirato” l’osservazione della difesa contenuta nella comparsa conclusionale, degradando a “ponticello” l’opera da realizzarsi, e per avere superato il concetto di non comoda divisibilità dando rilievo alla intenzione di vendita da parte di T. e di T.E., che tuttavia sarebbe basata su prove insufficienti (preliminare non registrato e nullo per mancata allegazione del certificato di destinazione urbanistica, irritualmente introdotto in giudizio attraverso un’istanza di emissione di provvedimento d’urgenza da pronunciarsi in corso di causa, respinta dal giudice istruttore di primo grado, comunque con termine di efficacia al 30 giugno 2012, sicchè lo stesso aveva già perduto ogni efficacia al momento della precisazione delle conclusioni nella causa di primo grado).

Tale censura non può avere ingresso nel giudizio di legittimità, apparendo evidente che le argomentazioni sviluppate nel motivo mirano ad ottenere il riesame dell’accertamento di fatto in ordine alla comoda divisibilità dei terreni.

La giurisprudenza di questa Corte è infatti ormai consolidata (da ultimo, Cass., Sez. Un., 31 dicembre 2018, n. 33679) nell’affermare che:

– il novellato testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (come riformulato DAL D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134), applicabile ratione temporis, ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti, oltre ad avere carattere decisivo;

l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie;

neppure il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito dà luogo ad un vizio rilevante ai sensi della predetta norma;

nel giudizio di legittimità è denunciabile solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, in quanto attiene all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali: tale anomalia si esaurisce nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione.

5. – Con il terzo motivo T.D. censura violazione e falsa applicazione dell’art. 720 c.c. sotto il profilo della mancata attribuzione di un bene indivisibile al condividente titolare della maggiore quota. L’indivisibilità – sostiene la ricorrente – colpisce il solo mappale ***** se attribuito ai condividenti E. e T.T., il che imporrebbe di includere tale bene (salvo conguaglio) nell’assegno a T.D., titolare della quota dei 16/30.

5.1. – Il motivo è infondato in base a quanto discende dallo scrutinio dei primi due mezzi.

La censura, infatti, nel prospettare che il mappale ***** avrebbe dovuto essere assegnato, salvo conguaglio, a T.D., avente diritto alla quota maggiore, muove dal presupposto che il terreno sia non comodamente divisibile.

Ma si tratta di un presupposto erroneo, posto che la sentenza impugnata ha invece affermato che è ben possibile individuare un progetto di comoda divisibilità del fondo, e le censure articolate dalla ricorrente, con il primo ed il secondo motivo, contro tale statuizione, sono state disattese.

6. – Con il quarto motivo si lamenta motivazione apparente ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) in ordine alla reiezione del motivo di appello consistente nella dedotta lesione oltre il quarto del valore della quota da assegnarsi a T.D., con violazione dell’art. 763 c.c. Con l’atto di appello T.D. lamentava sia la considerazione, da parte del c.t.u., di una potenziale futura capacità edificatoria dei terreni a lei assegnati, sia la mancata considerazione, da parte del Tribunale, di un evento successivo al deposito della relazione peritale, rappresentato dal terremoto del maggio 2012, a seguito del quale i fabbricati a lei assegnati erano crollati. La motivazione al riguardo della Corte d’appello sarebbe solo apparente, limitandosi alla pura e semplice negazione delle affermazioni dell’appellante senza offrire il benchè minimo indizio su quale sia stato l’iter logico-giuridico che abbia indotto il giudice del gravame di merito a respingere le doglianze dell’appellante.

Il quinto mezzo censura “omessa motivazione sotto il profilo dell’omesso esame di un fatto decisivo del giudizio, che ha formato oggetto di discussione fra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5)”. La ricorrente lamenta che la Corte territoriale abbia respinto le doglianze dell’appellante sull’affermazione che l’inesistenza in zona di alcun intervento urbanistico preventivo e di alcuna opera di urbanizzazione non contrasterebbe con le prospettive di sviluppo edificatorio extra agricolo dei terreni attribuiti alla ricorrente, in quanto basate innanzitutto sulla documentazione urbanistica attestante la possibilità di recupero ai fini residenziali mediante ristrutturazione. Sennonchè – rileva la ricorrente – per un verso tale, contestata, argomentazione riguarderebbe solo ed esclusivamente i fabbricati esistenti (laddove le doglianze dell’appellante erano riferite alla valutazione economica data dal c.t.u. ai terreni); e, proprio con riguardo ai terreni, la suscettività edificatoria sarebbe esclusa dal fatto che tutti si trovano ricompresi in zona agricola (“normale” per i mappali *****, e “destinata al riequilibrio naturalistico” per tutti gli altri).

Con il sesto motivo la ricorrente lamenta “contrasto irriducibile fra affermazioni fra loro inconciliabili nella motivazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5)”. L’argomento, utilizzato in sentenza, del “diminuito interesse per interventi di recupero edilizio e per nuovi interventi” si porrebbe in evidente ed irriducibile inconciliabilità con la decisione di rigettare le censure di sopravvalutazione mosse alla stima eseguita dal c.t.u., giacchè il diminuito interesse commerciale per un determinato bene provoca una diminuzione, non un aumento del valore di mercato del bene.

Il settimo mezzo (omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti ex art. 360 c.p.c., n. 5) censura che la Corte di Bologna abbia ritenuto irrilevante la circostanza (sopravvenuta rispetto alla relazione del c.t.u. ma non alla pronuncia della sentenza di primo grado) del crollo degli edifici in conseguenza del sisma del 2012, sul rilievo che le ridette strutture edilizie erano già pericolanti e che per il relativo utilizzo il proprietario avrebbe comunque dovuto affrontare i costi di recupero. La Corte d’appello non avrebbe preso in esame la circostanza, provata documentalmente e incontestata, che il marito di T.D. (Dott. C.R.) aveva svolto, all’interno di tali fabbricati, attività di sperimentazione farmaceutica, il che dimostrerebbe come i fabbricati in questione, benchè vetusti, fossero pienamente utilizzabili ed utilizzati. Il fatto decisivo non esaminato dalla Corte d’appello è così compendiato dalla ricorrente: “dall’utilizzabilità ed agibilità dei fabbricati discende un loro valore intrinseco comunque superiore alla mera volumetria e consegue una diminuzione di tale valore a seguito del loro crollo dovuto agli eventi sismici tristemente noti ed un conseguente minor valore dell’assegno a favore di T.D., che comporterebbe l’assegno ad essa di un maggiore porzione in natura dei beni comuni o comunque un conguaglio monetario di maggiore entità”.

Con l’ottavo motivo la ricorrente denuncia “violazione e mancata considerazione dell’ordinanza n. 81 del 5 dicembre 2014 del commissario straordinario delegato ai sensi del D.P.C.M. 25 agosto 2014 e delle linee guida per l’abrogazione” (recte: per l’erogazione) “dei contributi per la riparazione, il ripristino e la ricostruzione di immobili ad uso produttivo previsti dalle ordinanze commissariali nn. 29, 51 e 86 del 2012, ex art. 360 c.p.c., n. 5)”. Secondo la ricorrente, la Corte d’appello, nel giustificare l’attribuzione ai fabbricati che compongono il compendio oggetto di divisione del medesimo valore che gli stessi avevano prima del loro crollo, attraverso la compensazione tra il loro minor valore a seguito del perimento causato dagli eventi sismici ed i contributi pubblici disponibili per la loro ricostruzione, avrebbe violato la legge (in questo caso rappresentata dalle ordinanze del commissario straordinario che hanno stabilito le linee guida per l’erogazione dei contributi) o l’avrebbe “deliberatamente ignorata facendo riferimento ad un notorio del tutto insussistente ed indimostrato”. Ad avviso della deducente, il valore dei fabbricati avrebbe dovuto essere considerato pari a zero o, quanto meno, al valore della loro area di sedime a fini agricoli, previa asportazione di macerie e fondamenta con ripristino del piano coltivabile. In particolare, la Corte territoriale avrebbe totalmente ignorato due circostanze: (1) i fabbricati non erano collabenti ed a rischio statico già prima del sisma; (2) a prescindere dall’impossibilità legale di ottenere qualunque contributo per la ricostruzione dei fabbricati crollati, tale contributo avrebbe potuto essere concesso in ragione, al massimo, del 70% per la loro ricostruzione nell’esatta ed identica precedente funzionalità di stalla, fienile e porcilaie, del tutto ultronea per la gestione di una azienda agricola non più vocata alla zootecnia.

Il nono motivo è rubricato “pretermissione e negazione, nella motivazione della sentenza impugnata, di uno specifico fatto storico, incontestato e documentato ex art. 360 c.p.c., n. 5)”. La ricorrente si duole che la sentenza impugnata abbia ritenuto “insufficiente”, al fine della prova del pregiudizio subito a seguito del venir meno della fisica esistenza dei fabbricati oggetto di assegno divisionale a T.D., la “mera allegazione del loro crollo”.

6.1. – I motivi dal quarto al nono – da esaminare congiuntamente, stante la loro stretta connessione, essendo tutti riferiti alla valutazione estimativa del compendio dei beni immobili assegnati, in divisione, a T.D., con la conseguente, dedotta lesione del valore della quota immobiliare di sua spettanza – sono infondati e, in parte, inammissibili.

La Corte di Bologna – nel disattendere il secondo e il terzo motivo dell’appello di T.D. – ha condiviso le conclusioni del c.t.u. circa il valore dei terreni assegnati a T.D. rispetto agli altri terreni e circa la possibilità per i fabbricati rurali di essere oggetto di trasformazione a fini residenziali.

La Corte distrettuale ha escluso che le valutazioni del c.t.u. siano contrastate dal rilievo dell’appellante in ordine all’attuale inesistenza in zona di alcun intervento urbanistico preventivo e di alcuna opera di urbanizzazione.

La stessa Corte del gravame ha infatti considerato che le valutazioni peritali riflettono l’inserimento delle porzioni immobiliari nel tessuto urbano, la loro capacità edificatoria, l’agevole possibilità di stralcio degli edifici rispetto ai terreni, le prospettive di sviluppo edificatorio extra agricolo, i vincoli urbanistici esistenti, e sono basate sulla documentazione urbanistica attestante la possibilità di recupero ai fini residenziali mediante ristrutturazione, in secondo luogo sulla considerazione del diminuito interesse per interventi di recupero edilizio e per nuovi interventi nonchè, infine, sull’accertato cattivo stato di manutenzione dei fabbricati rurali.

La Corte felsinea ha altresì evidenziato che il c.t.u., nella sua valutazione quale risultante dalla relazione, ha tenuto conto della rilevata complessiva situazione di precarietà esistente al momento del sopralluogo, precarietà derivante dalla notevole vetustà dei fabbricati, dall’inagibilità per l’elevata pericolosità dei crolli e dalla presenza di coperture con crolli pressochè totali. Di qui l’ulteriore considerazione che, poichè l’ausiliario ha espressamente rilevato che i fabbricati potessero essere utilizzati solo previo recupero edilizio, la stima da lui operata è, evidentemente, riferita a fabbricati collabenti e tiene conto degli inevitabili costi connessi all’esecuzione del predetto intervento.

In questa prospettiva, la Corte d’appello ha giudicato irrilevante la circostanza, sopravvenuta alla relazione del c.t.u., del crollo degli edifici in conseguenza del sisma del 2012, atteso che questo ha interessato strutture edilizie già pericolanti e per il cui utilizzo il proprietario avrebbe dovuto sostenere i necessari costi di recupero. Ha peraltro rilevato la Corte territoriale che, poichè è notorio che gli interventi sul patrimonio lesionato dal sisma che ha colpito la Regione Emilia-Romagna nel 2012 possono giovarsi di sovvenzioni pubbliche, effettivamente stanziate e, quindi, accessibili anche da parte dell’appellante, non è apprezzabile il pregiudizio che quest’ultima, senza alcun riscontro, assume di avere subito dall’assegnazione dei beni ad essa in concreto attribuiti, essendo in tal senso insufficiente la mera allegazione del loro crollo, attesa la presumibile equivalenza tra le sovvenzioni pubbliche e il valore ante sisma dei fabbricati.

La decisione impugnata – che reca una ponderazione tipicamente di merito, rappresentata dalla valutazione estimativa dei beni facenti parte della comunione – è affidata ad una indagine esaustiva e ad una motivazione congrua e intrinsecamente coerente, priva di mende logiche e giuridiche.

Prive di specificità sono le doglianze che riguardano le valutazioni degli immobili offerte dal c.t.u. e condivise dalla Corte territoriale.

La censura di violazione dell’art. 763 c.c. (terzo motivo) è articolata in astratto, senza neppure tener conto che la Corte di merito ha escluso che l’esito della divisione giudiziale abbia determinato una lesione della quota attribuita a T.D..

La prospettazione del contrasto delle valutazioni operate con il P.R.G. del Comune di ***** del 2001 (quarto motivo) non tengono conto della circostanza che la Corte territoriale si è confrontata con il rilievo dell’appellante e l’ha considerato motivatamente non pertinente, essendo le valutazioni del consulente tecnico ancorate all’inserimento nel tessuto urbano delle porzioni immobiliari, alla loro suscettività edificatoria, all’agevole possibilità di stralcio degli edifici rispetto ai terreni, alle prospettive di sviluppo edificatorio extra agricolo e ai vincoli urbanistici esistenti ed essendo le stesse valutazioni basate “sulla documentazione urbanistica attestante la possibilità di recupero a fini residenziali mediante ristrutturazione”.

Quanto al vizio di omesso esame di fatto decisivo, dedotto con il quinto motivo, va osservato che la doglianza secondo cui la suscettività edificatoria dei terreni sarebbe “riferita a mere considerazioni personali del c.t.u., legate alla vicinanza maggiore o minore dalla strada asfaltata, ma senza alcun riferimento agli strumenti urbanistici vigenti o in fase di elaborazione, che, viceversa, è stato compiuto esclusivamente per quanto concerne i fabbricati”, è prospettata senza la necessaria specifica trascrizione del capitolo della relazione dedicato alla consistenza immobiliare a fini estimativi, limitandosi la ricorrente a fare un rinvio alla pag. 4 della relazione del c.t.u. e a riportare poco più di due righe del primo capoverso di pag. 10 (là dove l’ausiliario del giudice ha suddiviso i terreni “in fasce che distinguono gli aspetti di una certa suscettività edificatoria di quelle più prossime alla ***** da quelle più distanti e da quelle poste oltre il canale consortile”).

Non sussiste il denunciato (con il sesto motivo) “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili” per avere la Corte d’appello sottolineato, nell’ambito di un ragionamento rivolto a respingere il motivo inerente alla valutazione dei fabbricati rurali, il “diminuito interesse per interventi di recupero edilizio e per nuovi interventi”. Infatti, collocata nel contesto motivazionale, quella espressione sta a denotare la situazione di totale fatiscenza dei fabbricati ed il fatto che la stima operata dal c.t.u. non è sopravvalutata, giacchè è riferita a fabbricati collabenti e tiene conto “degli inevitabili costi” connessi all’esecuzione degli interventi di recupero.

Il settimo motivo, a sua volta, non supera la soglia dell’ammissibilità. Esso fa leva – per sostenere l’utilizzabilità ed agibilità dei fabbricati assegnati a T.D. prima del sisma del 2012, con conseguente “loro valore intrinseco comunque superiore alla mera volumetria – sul fatto che “i fabbricati in questione, benchè vetusti, fossero pienamente utilizzabili ed utilizzati e tutt’altro che inagibili”, tanto che il marito di T.D., il Dott. C.R., vi svolgeva “attività di sperimentazione farmaceutica” (“attività imprenditoriale di alto livello scientifico, ancorchè non autorizzata in via amministrativa”). Sennonchè, la ricorrente non indica quali risultanze processuali consentirebbero di ritenere il fatto “incontestato”, nè localizza, nell’ambito degli atti di causa, le prove documentali che lo dimostrerebbero. E’ noto, al riguardo, che, secondo l’insegnamento di questa Corte di legittimità (Cass., Sez. U., 7 aprile 2014, n. 8053), la parte ricorrente deve, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, non solo indicare il “fatto storico”, i(cui esame sia stato omesso, ma anche il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”.

L’ottavo motivo non considera che la valutazione del c.t.u. ha tenuto conto, ai fini della stima dei fabbricati, del loro stato di sostanziale precarietà esistente prima del sisma del 2012, trattandosi, secondo l’insindacabile accertamento di fatto, di strutture edilizie già pericolanti e per il cui utilizzo il proprietario avrebbe dovuto sostenere i necessari costi di recupero. D’altra parte, la censura articolata con il mezzo si rivolge nei confronti di una ratio svolta ad abundantiam (“Peraltro, poichè è notorio che gli interventi sul patrimonio lesionato dal sisma che ha colpito l’Emilia-Romagna nel 2012 possono giovarsi di sovvenzioni pubbliche, effettivamente stanziate…”).

Il nono mezzo, infine, nel lamentare che la Corte d’appello abbia ritenuto “insufficiente la mera allegazione del… crollo” dei fabbricati in conseguenza del sisma del 2012, affida la critica (secondo cui il giudice del merito non avrebbe tenuto conto “nè della mancata contestazione della dedotta circostanza ad opera dei resistenti, nè della documentazione probatoria dimessa in atti e pur essa non contestata”) ad una censura generica: non riportando i passi delle difese degli altri coeredi dalle quali emergerebbe la esplicita ammissione dell’avvenuto crollo e limitandosi, per altro verso, la ricorrente ad operare un richiamo aspecifico e privo di ulteriori indicazioni alle “fotografie riguardanti lo stato dei fabbricati assegnati a T.D., quale è divenuto successivamente alla chiusura dell’istruttoria del processo di primo grado ed a causa dei noti eventi sismici”.

7. – Con il decimo motivo la ricorrente lamenta violazione dell’art. 36 Cost. per la mancata valutazione del lavoro prestato in relazione alla sua qualità e quantità. Con esso si deduce che T.M. ha sempre curato la gestione dell’azienda agricola oggetto della successione paterna e che essa ha eseguito le scelte operative della comunione come se fosse dipendente di quest’ultima. Ad avviso della ricorrente, sarebbe corretto, nel rendiconto da essa predisposto nella sua veste di partecipante di maggioranza (con la sorella D.) della comunione e depositato in atti, qualificare come costo a carico della stessa quello di un impiegato agricolo, cioè di quella figura delegata a compiere tutte le attività compiute da T.M. in ogni ipotesi di gestione aziendale non direttamente attuata dal proprietario, ma delegata, volontariamente ovvero ex lege (come in fattispecie de qua), a terzi. La sentenza impugnata, ritenendo generiche le censure mosse al riguardo alla sentenza di primo grado, sarebbe giunta ad affermare che nella c.t.u. fatta propria dal primo giudice “è stato tenuto conto dell’apporto lavorativo dato da T.M. alla conduzione dell’azienda agricola sotto entrambi i profili intellettuale e manuale”. Ciò sarebbe vero – sostiene la ricorrente – ma non sarebbe corretto il parametro di riferimento utilizzato: di qui l’invocazione dell’art. 36 Cost., cui va riconosciuta forza precettiva diretta.

7.1. – Il motivo è infondato.

La Corte di Bologna, nel valutare l’opera svolta nell’azienda da T.M., ha condiviso la conclusione del c.t.u. – fatta propria anche dal giudice di primo grado – nel senso di un apporto lavorativo prevalentemente di carattere organizzativo ed amministrativo, data la presenza di contoterzisti nell’azienda agricola, e ha a tal fine considerato, per remunerare l’attività svolta, una percentuale del prodotto lordo vendibile, il 25% per le annate di produzione della frutta e il 10% per le altre annate.

La Corte d’appello, nel giudicare le critiche mosse dall’appellante generiche ed inidonee a scalfire l’iter argomentativo su cui si fonda la decisione del primo giudice, ha rilevato che le conclusioni del consulente tengono conto “dell’apporto lavorativo dato alla conduzione dell’azienda agricola da T.M., sotto entrambi i profili intellettuale e manuale”.

La statuizione della Corte d’appello si appalesa congruamente motivata.

Il motivo di ricorso, pur apparentemente rivolto a denunciare una violazione di legge (l’art. 36 Cost.), lamenta in realtà una errata considerazione del lavoro effettivamente prestato da T.M. nell’azienda agricola, che sarebbe stato, non solo direzionale dell’azienda, ma anche comprensivo di “un certo quantitativo di lavorazioni manuali”, di talchè la sua posizione, quantomeno per ciò che concerne le quote di spettanza dei comunisti, dovrebbe essere quella di “lavoratore dipendente o subordinato della comunione”.

Il motivo finisce con il risolversi, pertanto, in una sollecitazione ad un riesame delle risultanze di causa e ad una rivisitazione degli accertamenti di fatto ponderatamente compiuti dal giudice del gravame, il che fuoriesce dall’ambito del sindacato di legittimità.

8. – L’undicesimo motivo lamenta “vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) per mancata ammissione di un mezzo istruttorio decisivo per accertare circostanze rilevanti ai fini della decisione”. La ricorrente si duole della mancata rinnovazione della c.t.u., con l’assegnazione, al tecnico, del medesimo quesito già posto, ma tenendo conto del perimento dei fabbricati a seguito degli eventi sismici del maggio 2012 e della possibilità tecnica ed amministrativa della loro ricostruzione con eventuale mutamento di destinazione d’uso, dei relativi costi e degli eventuali contributi pubblici conseguibili, e considerando il valore dell’apporto lavorativo amministrativo e dirigenziale del partecipante alla comunione che concretamente gestisce i beni comuni nell’interesse della comunione.

8.1. – La doglianza è priva di fondamento, giacchè la decisione, anche implicita, di non disporre una nuova indagine peritale non è sindacabile in sede di legittimità qualora, come nella specie, gli elementi di convincimento per disattendere la richiesta di rinnovazione della consulenza tecnica d’ufficio formulata da una delle parti siano stati tratti dalle risultanze probatorie già acquisite e ritenute esaurienti dal giudice del merito con valutazione immune da vizi logici e giuridici.

9. – Con il dodicesimo motivo (violazione e falsa applicazione di legge ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 in relazione all’art. 112 c.p.c.; omessa pronuncia su un motivo di appello; omesso esame di fatto decisivo per il giudizio che ha formato oggetto di discussione fra le parti ex art. 360 c.p.c., n. 5) la ricorrente lamenta che la Corte d’appello abbia considerato solamente cinque motivi dell’atto di appello, omettendo qualsivoglia pronuncia sul sesto motivo, intitolato “ingiusta condanna alle spese della convenuta” e che occupava le pagine da 49 a 56 dell’atto di citazione ed i punti n. 4 e n. 5 delle conclusioni. Deduce la ricorrente che sull’istanza di riforma della sentenza di primo grado in ordine alla condanna alle spese, la Corte d’appello di Bologna non avrebbe adottato alcuna pronuncia, con ciò venendo meno all’obbligo impostole dall’art. 112 c.p.c. di pronunciare su ogni domanda proposta.

9.1. – Il motivo è infondato.

Laddove il Tribunale di Modena, con la sentenza definitiva n. 96 del 2013, aveva condannato T.D. a rifondere alle controparti le spese di lite (liquidate, quanto a T.T., nella somma di Euro 20.000 per compenso ed Euro 1.491 per spese, oltre accessori di legge, e, quanto a T.E., nella somma di Euro 18.000 per compenso ed Euro 240 per spese, oltre accessori di legge), a tal fine considerando “la condotta processuale ostruzionistica delle convenute M. e T.D., che (avevano) infondatamente contestato la possibilità di scioglimento unitario delle comunioni ordinaria ed ereditaria, si (erano) opposte al rendimento dei conti, (avevano) rifiutato di addivenire all’accordo divisionale raggiunto, così causando anche l’allungamento dei tempi del procedimento”; la Corte d’appello ha provveduto nuovamente sulle spese del giudizio di primo grado, rivalutando la soccombenza alla luce del “parziale accoglimento dell’appello” e della “maggiore soccombenza dell’appellante rispetto agli appellati sulle domande iniziali”.

In particolare, la Corte d’appello ha dichiarato tenuta e condannato T.D. alla refusione in favore degli appellati dell’80% delle spese processuali (liquidate, per l’intero, quanto al primo grado, in Euro 20.000 per onorari ed Euro 1.491 per esborsi, oltre accessori di legge, in favore di T.T., ed in Euro 18.000 per onorari ed Euro 240 per esborsi, oltre accessori di legge, in favore di T.E., e, quanto al giudizio di gravame, in Euro 18.000, oltre accessori di legge, in favore di ciascuna parte appellata, compensando tra le parti il restante 20% delle spese di entrambi i gradi).

Non è dunque riscontrabile il vizio di omessa pronuncia, avendo la Corte distrettuale riesaminato il capo sulle spese della sentenza di primo grado.

Invero, ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia, non basta la mancanza di una espressa statuizione del giudice, essendo necessaria la totale pretermissione del provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto; tale vizio, pertanto, non ricorre quando la decisione, adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte, ne comporti il rigetto pur in assenza di una specifica argomentazione (Cass., Sez. I, 9 maggio 2007, n. 10636).

10. – Con il tredicesimo motivo (omissione totale di motivazione su una domanda specifica; vizio ex art. 360 c.p.c., n. 5) la ricorrente prospetta che – ove si volesse ritenere che la Corte territoriale, regolando diversamente le spese del primo grado del giudizio, abbia, con ciò, inteso respingere il sesto motivo di appello – vi sarebbe, sul punto, illegittimità della sentenza, in quanto la decisione di confermare la condanna alle spese a carico di T.D., pur a fronte di motivate doglianze mosse all’analoga sentenza di primo grado, sarebbe palesemente ingiusta, contrastante con i consolidati principi della giurisprudenza e affetta da mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico.

10.1. – La censura è infondata, essendo la statuizione della Corte d’appello correttamente fondata sulla valutazione del grado di soccombenza.

Va fatta applicazione del principio secondo cui, in tema di spese processuali, il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le stesse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, per cui vi esula, rientrando nel potere discrezionale del giudice di merito, la valutazione dell’opportunità di compensarle in tutto o in parte, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca che in quella di concorso di altri giusti motivi (Cass., Sez. VI-3, 17 ottobre 2017, n. 24502).

11. – Con il quattordicesimo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del D.M. n. 55 del 2014, lamentando che la liquidazione delle spese sarebbe stata effettuata in misura eccessiva e gravatoria nei confronti della soccombente.

11.1. – Il motivo è infondato.

E’ in primo luogo da disattendere il rilievo secondo cui il giudice del merito si sarebbe discostato “dalla generale regola di porre le spese divisionali a carico della massa”. Infatti, nei giudizi di divisione vanno poste a carico della massa le spese necessarie allo svolgimento del giudizio nel comune interesse, mentre valgono i principi generali sulla soccombenza per quelle spese che, secondo il prudente apprezzamento del giudice di merito, siano conseguenza di eccessive pretese o di inutili resistenze, cioè dall’ingiustificato comportamento della parte (Cass., Sez. II, 18 giugno 1986, n. 4080; Cass., Sez. II, 15 maggio 2002, n. 7059; Cass., Sez. II, 13 febbraio 2006, n. 3083).

Quanto, poi, al valore di riferimento, correttamente il giudice del merito ha considerato quello di Euro 1.350.000, pari al valore della massa intera da dividersi, trattandosi di criterio corrispondente a quanto previsto dal D.M. n. 55 del 2014, art. 5 e ciò essendo in discussione non solo la quota di pertinenza della contitolare T.D. (del valore di Euro 700.000) con riguardo alla stima data dal c.t.u. ai cespiti immobiliari a lei assegnati o i conguagli alla stessa spettanti, ma anche la divisibilità o meno del mappale *****, con effetti di ricaduta sull’apporzionamento spettante agli altri comunisti, tanto più che l’appellante ha messo in discussione – con la richiesta di esperimento di nuova c.t.u. – il valore globale unitario del compendio da dividersi (calcolato appunto dal primo giudice in Euro 1.350.000).

D’altra parte, il giudice si è attenuto ai valori medi di cui alla tabella allegata al citato decreto ministeriale, tenendo conto, nella doverosa liquidazione per fasi, delle attività rispettivamente compiute dai difensori di T.T. e di T.E..

Tale essendo la pronuncia sulle spese recata dalla sentenza impugnata, non vi è qui spazio per una rivalutazione, in questa sede, nè delle due comparse di risposta depositate in appello a firma dei due diversi difensori degli appellati, al fine di apprezzare la dedotta sovrapponibilità del relativo contenuto e quindi la censurata duplicazione di voce, nè della “originalità” delle due comparse conclusionali, per essere, assuntivamente, quella di T.T., un “copia-incolla” della comparsa di costituzione e risposta precedentemente depositata e, quella di T.E., una sintesi di quanto scritto in precedenza.

11. – Il ricorso è rigettato.

La complessità delle questioni trattate giustifica l’integrale compensazione tra le parti delle spese del giudizio di cassazione.

12. – Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, che ha aggiunto il comma 1-quater al testo unico di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e copensa tra le parti le spese del giudizio di cassazione.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda civile, il 5 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 27 maggio 2019

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