LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –
Dott. TRIA Lucia – Consigliere –
Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Consigliere –
Dott. MARULLI Marco – Consigliere –
Dott. PARISE Clotilde – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 194/2013 proposto da:
Comune Nocera Terinese, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, Via Sabotino n. 45, presso lo studio dell’avvocato Marzano Marco Stefano, rappresentato e difeso dall’avvocato Spinelli Gianfranco, giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
G.A., nella qualità di erede di D.L.S.
(deceduta), elettivamente domiciliata in Roma, Via Ugo Ojetti n. 114, presso lo studio dell’avvocato Caputo Francesco Antonio, rappresentata e difesa dagli avvocati Barba Gregorio e Stella Francesco, giusta procura a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza non definitiva n. 679/2009, depositata il 31-82009, e la sentenza n. 1074/2011 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO, depositata il 25/10/2011;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/03/2019 dal cons. Dott. PARISE CLOTILDE;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ZENO Immacolata, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
FATTI DI CAUSA
1. Con sentenza non definitiva n. 679/2009 depositata il 318-2009 la Corte d’appello di Catanzaro, pronunciando sull’appello principale proposto dal Comune di Nocera Terinese e sull’appello incidentale proposte da D.L.d.L.S., dichiarava la natura usurpativa dell’occupazione oggetto di causa, rigettava l’appello incidentale con riguardo alle doglianze sul mancato percepimento dei frutti ed al mancato riconoscimento dei danni al residuo fondo di proprietà D.L.d.L. e rimetteva la causa sul ruolo al fine della rinnovazione della CTU come da separata ordinanza, riservando alla pronuncia definitiva il regolamento delle spese processuali. La Corte territoriale ravvisava sussistente nella fattispecie concreta l’ipotesi di occupazione usurpativa, avendo l’amministrazione realizzato una manipolazione del fondo di proprietà della D.L.d.L. in assenza di titolo legittimante, e disponeva la rinnovazione della CTU ai fini della determinazione del quantum, anche in considerazione delle censure sollevate dall’appellante principale Comune di Nocera Terinese in ordine alla consulenza d’ufficio espletata in primo grado.
2.La Corte d’appello di Catanzaro, con sentenza definitiva n. 1074/2011 depositata il 25-10-2011, in parziale riforma della sentenza impugnata, condannava il Comune di Nocera Terinese al pagamento in favore di G.A., in qualità di erede di D.L.d.L.S., della minor somma di Euro 69.721,68, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali calcolati come da criteri indicati nella parte motiva della stessa sentenza. I Giudici d’appello preliminarmente rilevavano la tardività dell’eccezione di usucapione in quanto sollevata dal Comune, appellante principale, solo in comparsa conclusionale e non nell’atto d’appello, dando atto dell’applicabilità al giudizio dell’art. 345 c.p.c. nel testo in vigore prima della novella del 1990. La Corte territoriale, richiamate le statuizioni di cui alla sentenza non definitiva citata, riteneva condivisibili le conclusioni cui era pervenuto il CTU nominato in grado d’appello, disattendendo le eccezioni di nullità sollevate dal Comune.
3.Le sentenze sono impugnate dal Comune di Nocera Terinese con ricorso per cassazione affidato a tre motivi, articolati in sotto-motivi. Resiste con controricorso G.A.. Le parti non hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
4.Con il primo motivo, articolato in tre sotto-motivi, il Comune ricorrente lamenta omessa o insufficiente e contraddittoria pronuncia su un punto decisivo e denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5. Ad avviso del ricorrente la domanda proposta dall’attrice in primo grado era quella di risarcimento del danno da occupazione acquisitiva, come desumibile dall’interpretazione letterale della citazione di primo grado, avuto riguardo al petitum ed alla causa petendi azionati, ed invece con la sentenza non definitiva la Corte territoriale qualificava l’azione in termini di risarcimento danni da occupazione usurpativa. Il Comune denuncia motivazione omessa o gradatamente insufficiente e contraddittoria (primo sotto-motivo), violazione di legge, sotto specie di regole di diritto elaborate dalla Giurisprudenza quanto alle differenze tra le fattispecie dell’accessione invertita e dell’occupazione usurpativa (secondo sotto-motivo), nonchè violazione degli artt. 1362 e 1363 c.c. (terzo sotto-motivo). I fatti allegati dall’attrice – perdita della proprietà per irreversibile trasformazione della stessa nell’ambito e a seguito di occupazione d’urgenza, giusta relativo decreto, in vista di futuro esproprio che non si era perfezionato – integrano la fattispecie dell’accessione invertita, secondo la prospettazione dell’Ente ricorrente. La Corte territoriale non avrebbe potuto prescindere da tali allegazioni, mentre aveva valutato in modo errato il tenore letterale degli atti giudiziali dell’attrice ed aveva motivato contraddittoriamente ed insufficientemente il proprio convincimento, non potendo giustificarsi la qualificazione data dai Giudici d’appello in base alla considerazione che era stata omessa dall’attrice l’espressa qualificazione dell’azione promossa.
5. Con il secondo motivo lamenta il Comune violazione dell’art. 345 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e n. 4. Ad avviso del ricorrente la domanda proposta con l’appello incidentale- risarcimento danni da occupazione usurpativa- avrebbe dovuto dichiararsi inammissibile in quanto nuova.
6. Con il terzo motivo, articolato in due sotto-motivi, il Comune lamenta violazione dell’art. 112 c.p.c. e art. 345 c.p.c., comma 2, nel testo ante novella del 1990, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e n. 4, violazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè omessa e, gradatamente, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo. Assume il ricorrente di aver sollevato ritualmente l’eccezione di usucapione nell’atto d’appello, dovendo applicarsi l’art. 345 c.p.c., comma 2, nel testo in vigore ante novella del 1990. La Corte territoriale, incorrendo in vizio definito revocatorio dallo stesso Comune, non aveva esaminato l’eccezione perchè ritenuta proposta tardivamente, ossia solo nella comparsa conclusionale d’appello e non nell’atto di appello. Osserva il ricorrente che solo in ipotesi di occupazione usurpativa, non ricorrente nella fattispecie, avrebbe potuto escludersi l’usucapione da parte dell’Amministrazione, la quale, immessa nel possesso del fondo della controricorrente dal 30 giugno 1980, aveva maturato il possesso ultraventennale già nel corso del giudizio di secondo grado, essendo iniziato quello avanti al Tribunale nel 1988, in assenza di domanda di rivendicazione da parte dell’attrice. Il Comune deduce, pertanto, che erano trascorsi circa 24 anni dall’immissione in possesso del fondo e circa 22 anni dalla realizzazione dell’opera, valorizzandone il decorso anche durante lo svolgimento delle cause di merito.
7. I primi due motivi, da esaminarsi congiuntamente per la loro connessione, sono inammissibili.
7.1. La giurisprudenza più recente di questa Corte (tra le tante da ultimo Cass. 10298-2018) ha ripetutamente chiarito che è irrilevante la forma di manifestazione (occupazione usurpativa, acquisitiva o appropriativa, vie di fatto) della condotta illecita della P.A. incidente sul diritto di proprietà e fonte di responsabilità risarcitoria ex art. 2043 c.c.. In passato, effettivamente, è stata affermata da questa Corte l’ontologica distinzione istituzionalmente corrente tra occupazione appropriativa ed occupazione usurpativa, rispettivamente caratterizzate, l’una, dall’irreversibile trasformazione del fondo in assenza di decreto di esproprio e, l’altra, dalla trasformazione in assenza, originaria o sopravvenuta, di dichiarazione di pubblica utilità (Cass., Sez. I, 13/06/2014, n. 13515). Tuttavia “questa distinzione, che già non si legittimava in ambito sovranazionale in ragione del fatto che l’espropriazione indiretta, a cui entrambe le fattispecie mettono capo, si pone in violazione del principio di legalità, perchè non è in all’amministrazione di utilizzare a proprio vantaggio una situazione di fatto derivante da azioni illegali, sia divenuta oggi del tutto desueta, come questa Corte ha già incidentalmente constatato (Cass., Sez. I, 7/10/2016, n. 20234), a seguito della rimeditazione cui la figura dell’occupazione appropriativa è stata sottoposta dalle SS. UU. (Cass., Sez. U, 19/01/2015, n. 735). Essendo venuta meno per effetto della giurisprudenza demolitoria della CEDU la possibilità di affermare in via interpretativa che da una attività illecita della P.A. possa derivare la perdita del diritto di proprietà da parte del privato, “diviene applicabile lo schema generale degli artt. 2043 e 2058 c.c.” il quale non solo non consente l’acquisizione autoritativa del bene alla mano pubblica, ma attribuisce al proprietario, rimasto tale, la tutela reale e cautelare apprestata nei confronti di qualsiasi soggetto dell’ordinamento (restituzione, riduzione in pristino stato dell’immobile, provvedimenti di urgenza per impedirne la trasformazione ecc), oltre al consueto risarcimento del danno, ancorato ai parametri dell’art. 2043 c.c.: esattamente come sinora ritenuto per la c. d. occupazione usurpativa”. Dunque la riduzione dell’occupazione appropriativa al rango di illecito aquiliano di diritto comune rende superata la distinzione di essa dall’occupazione usurpativa, giacchè in entrambi i casi ci si trova in presenza di una condotta illecita della P.A. che spoglia il privato della proprietà di un bene in esecuzione di una condotta materiale che, indipendentemente dall’esistenza o meno di una pregressa dichiarazione di pubblica utilità, non determina alcun trasferimento della proprietà in capo all’Amministrazione, ma genera solo una responsabilità risarcitoria di questa per i danni procurati. Anche quindi senza fare appello ai poteri di qualificazione della domanda che il giudice deve esercitare ai sensi dell’art. 113 c.p.c., comma 1, il rilievo non ha perciò oramai più ragion d’essere” (Cass. ord. 12846-2018).
7.2. Ne consegue l’inammissibilità delle censure per carenza di interesse, ribadita, sulla scorta dei principi suesposti, l’irrilevanza di una diversa qualificazione giuridica dei fatti e dei rapporti dedotti in lite nel senso prospettato dal Comune ricorrente. 8. Il terzo motivo è infondato.
8.1. Ad avviso del ricorrente per errore di percezione la Corte territoriale non si è avveduta che l’eccezione di usucapione era stata proposta nell’atto di appello (pag. n. 6 – nel testo riportato, per la parte di interesse, nel ricorso per cassazione a pag. n. 30), e non in comparsa conclusionale, come affermato nella sentenza definitiva impugnata (pag. n. 11 della sentenza n. 1074/2011). Nel caso di specie, sul fatto oggetto dell’asserito errore con la pronuncia definitiva la Corte territoriale ha statuito e non è quindi configurabile l’errore di fatto percettivo impugnabile solo con la revocazione, ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4, e non con gli ordinari mezzi d’impugnazione (Cass. n. 30850/2018).
Ciò posto, deve rilevarsi, emendando in diritto ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c., la motivazione della sentenza definitiva impugnata, che l’eccezione di usucapione è stata formulata dall’Ente ricorrente senza neppure allegare la trasformazione della detenzione in possesso utile ad usucapionem ex art. 1141 c.c., comma 2. E’ infatti necessario, quale che sia la forma di manifestazione della condotta illecita della P.A. incidente sul diritto di proprietà, il compimento di idonee attività materiali di opposizione specificamente rivolte contro il proprietario-possessore, non essendo sufficienti nè il prolungarsi della detenzione nè il compimento di atti corrispondenti all’esercizio del possesso, che di per sè denunciano unicamente un abuso della situazione di vantaggio determinata dalla materiale disponibilità del bene (Cass. n. 10298/2018).
9. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro5.000 per compensi, oltre a Euro 200 per esborsi, spese generali (15%) e oneri di legge.
Così deciso in Roma, il 5 marzo 2019.
Depositato in Cancelleria il 29 maggio 2019
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