Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.14663 del 29/05/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – rel. Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 8842/2015 proposto da:

M.P., B.L., elettivamente domiciliati in Roma, Via Orazio n. 3, presso lo studio dell’avvocato Faccini Roberto, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato Barbato Enrico, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

Banca Fideuram s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Faleria n. 37, presso lo studio dell’avvocato Eroli Massimo, che la rappresenta e difende, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

contro

P.A.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 493/2014 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 27/02/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27/03/2019 dal cons. Dott. MARULLI MARCO.

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’Appello di Venezia con sentenza 27.2.2014 n. 493/14, in accoglimento del dispiegato gravame di Banca Fideuram, ha riformato la decisione di condanna in primo grado della stessa a ristorare i consorti M.- B. delle perdite finanziare loro cagionate da una promotrice della banca, tale P.A., che aveva gestito di propria iniziativa le somme di volta in volta affidatele da questi a fini di investimento, talvolta falsificandone la sottoscrizione e, mediante il ricorso a false rendicontazioni, aveva offerto loro un quadro non rappresentativo dell’effettivo andamento della gestione.

Il giudice distrettuale, onde motivare il rassegnato convincimento, si è previamente appellato al dettato degli art. 16 e 58 del regolamento contrattuale, disciplinanti le comunicazioni periodiche che la banca era tenuta ad inviare al cliente tanto in relazione alla singola operazione quanto all’andamento complessivo della gestione, nonchè la facoltà del cliente di proporre reclamo riguardo ad essi in un termine previsto a pena di decadenza, assumendo in ragione di ciò che, essendo stati gli appellanti posti in condizione di conoscere l’esito delle singole operazioni effettuate, il fatto che in relazione ad esse non fosse intervenuta alcuna contestazione era ragione per “ritenere che i medesimi, a prescindere dalla prospettata falsità delle firme, avessero inteso ratificare l’operato del promotore”. E ciò non senza poi considerare, che, quand’anche fossero state provate le falsità dedotte, nessun pregiudizio sarebbe stato perciò sofferto dagli appellanti, posto che, dovendosi commisurare il risultato della singola operazione all’atto del disinvestimento, dal prospetto prodotto dalla banca ed analizzato dal CTU, si evinceva che il bilancio delle operazioni oggetto di lagnanza aveva generato “una plusvalenza di Euro 4110,00 Euro ricondotta nell’elaborato tecnico ad Euro 3086,45”.

Per la cassazione di detta sentenza i M.- B. si affidano ad otto motivi di ricorso, illustrati pure con memoria, cui replica la banca con controricorso

RAGIONI DELLA DECISIONE

2. Come traspare dalla pregressa narrativa di fatto, l’impugnata decisione si suffraga in forza di una duplice ratio decidendi. Enunciando la prima di esse il giudice distrettuale ha dato atto che nel regolamento pattizio sotteso ai rapporti tra gli odierni ricorrenti e la banca, gli artt. 16 e 58 si danno cura di prevedere – insieme alla decadenza “da ogni altra eventuale azione relativa ai rapporti con la banca”, più generalmente comminata dal primo di essi in danno del cliente che non sporga reclamo entro sei mesi dalla scadenza del contratto o dalla scadenza più prossima – l’uno che il cliente “decade da ogni azione o contestazione trascorsi sessanta giorni dal ricevimento degli estratti conto”, l’altro che il cliente parimenti decade dalla facoltà di “reclamo” se nel medesimo termine non contesti il contenuto delle comunicazioni che la banca è tenuta ad inviargli in relazione ad ogni operazione effettuata nel suo interesse. Poichè in entrambi i casi, ha ragionato il decidente, in mancanza di impugnazione nel termine stabilito, tanto l’estratto conto quanto la comunicazione relativa alle singole operazioni si intendono “tacitamente approvati” e poichè nella specie “è documentalmente provato” che i M.- B. abbiano ricevuto il primo documento e siano stati debitamente notiziati circa le diverse operazioni eseguite per loro conto, “si deve ritenere che i medesimi, a prescindere della prospettata falsità delle firme, abbiano inteso ratificare l’operato del promotore”, onde la loro pretesa si rivela priva di fondamento e la relativa domanda può per questo essere rigettata.

Peraltro, come già riportato nella richiamata narrativa, la Corte distrettuale, al fine evidentemente di rimuovere ogni residua incertezza in ordine alla conferenza nella specie delle falsità ascritte al promotore, ha messo anche in conto di osservare, enunciando in tal modo anche la seconda ratio decidendi posta a fondamento del proprio decisum, che “l’apposizione di alcune firme false anche ove fosse accertata così come la falsa rendicontazione non risulta abbia prodotto nella specie alcun pregiudizio degli investitori”. E ciò la Corte si è premurata di spiegare rilevando che “come risulta dal prospetto prodotto dall’Istituto ed analizzato dal c.t.u. nel quadro dell’indagine tecnica affidata in questa sede, il bilancio delle operazioni relative alle compravendite disconosciute ha generato, facendo riferimento alle effettive vicende dei titoli in cui la Fideuram è stata effettiva parte contraente, una plusvalenza di Euro 4110,00 ricondotta nell’elaborato tecnico ad Euro 3086,45”.

3. Ora, procedendo allo scrutinio delle singole doglianze illustrate negli otto motivi che compongono il ricorso, si ha che, mentre la prima ratio è oggetto di analitica censura nei primi sette motivi di esso, alla seconda ratio si volge solo l’ultimo motivo, per mezzo di esso lamentandosi, infatti, “l’omesso esame della CTU quale punto decisivo della controversia in termini di quantum del risarcimento del danno”, in cui il decidente d’appello sarebbe incorso pretendendo di discostarsi dalle opposte risultanze dell’accertamento peritale senza, peraltro, motivare le ragioni del proprio dissenso, ancorchè, al contrario, sia obbligo del giudice che non voglia attenersi agli esiti della CTU, dare conto del proprio intendimento “attraverso una valutazione critica che sia ancorata alle risultanze processuali e risulti congruamente e logicamente motivata”.

4. La declinata doglianza non è tuttavia suscettibile di scrutinio per un triplice ordine di ragioni pregiudizialmente ostative.

E’ vero, infatti, da un lato, prestando fede alla rubrica premessa al motivo, che la Corte non ignora che il mancato esame delle risultanze della CTU possa integrare il vizio denunciato che può essere fatto valere, nel giudizio di cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, risolvendosi invero nell’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (Cass., Sez. III, 31/05/2018, n. 13770). Tuttavia, si ritiene pure, onde la censura possa trovare accesso nel giudizio di legittimità, che la sua illustrazione debba ubbidire allo statuto di deducibilità dei motivi di ricorso per cassazione risultante dall’art. 366 c.p.c., di modo che, come ammoniscono le SS.UU. (“il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività””), deve soddisfare il principio dell’autosufficienza di cui al n. 6, dandosi cura di riprodurre o riportare nei suoi esatti termini il fatto decisivo ed oggetto di discussione tra le parti di cui il decidente avrebbe omesso l’esame, diversamente discendendone l’inammissibilità del motivo, E poichè nella specie, nell’ostendere la doglianza i ricorrenti non si sono attenuti a ciò, limitandosi ad enunciare l’allegato vizio senza riprodurre i passaggi argomentativi salienti della CTU da cui possa apprendersi che il decidente abbia omesso l’esame di un fatto rilevante, la Corte non è in grado di scrutinare ex actis la veridicità dell’asserzione prima della sua fondatezza con la conseguenza che il motivo si rende perciò inammissibile.

Peraltro concorrenti ragioni di inammissibilità debbono ravvisarsi anche nella considerazione che la formulata doglianza non ha esattamente ad oggetto il mancato esame di un fatto rilevante ai fini della decisione, ma il fatto che il decidente abbia inteso prendere le distanze della CTU instradando la decisione lungo un itinerario argomentativo che non ne condivide gli assunti, di talchè ciò di cui i ricorrenti intendono dolersi non è appunto il vizio denunciato in rubrica, ma un vizio di motivazione, estraneo al perimetro della sua attuale deducibilità per cassazione, e, parallelamente, di uni errata valutazione delle risultanze di causa, altrettanto estranea al perimetro della sindacabilità per cassazione della decisione di merito.

5. Tanto premesso, risultando in ragione di ciò immune da censure la seconda ratio che sorregge l’impugnata decisione, la specie deve essere regolata in piana applicazione del principio secondo cui “quando una decisione di merito, impugnata in sede di legittimità, si fonda su distinte ed autonome “rationes decidendi” ognuna delle quali sufficiente, da sola, a sorreggerla, perchè possa giungersi alla cassazione della stessa è indispensabile, da un lato, che il soccombente censuri tutte le riferite “rationes”, dall’altro che tali censure risultino tutte fondate. Ne consegue che, rigettato (o dichiarato inammissibile) il motivo che investe una delle riferite argomentazioni, a sostegno della sentenza impugnata, sono inammissibili, per difetto di interesse, i restanti motivi, atteso che anche se questi ultimi dovessero risultare fondati, non per questo potrebbe mai giungersi alla cassazione della sentenza impugnata, che rimarrebbe pur sempre ferma sulla base della ratio ritenuta corretta” (Cass., Sez. III, 24/05/2006, n. 12372).

6. Ne discende che il ricorso va per questo dichiarato inammissibile.

7. Spese alla soccombenza sul ricorso principale.

8. Ricorrono le condizioni per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater nei confronti del ricorrente principale.

PQM

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna parte ricorrente principale al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 3200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre al 15% per spese generali ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione prima civile, il 27 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 29 maggio 2019

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