Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.15158 del 04/06/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TORRICE Amelia – Presidente –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere –

Dott. DE FELICE Alfonsina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 3540-2014 proposto da:

N.L. *****, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA RICASOLI 7, presso lo studio dell’avvocato STEFANO MUGGIA, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

PROVINCIA POTENZA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA DEI CARRACCI 1, presso lo studio dell’avvocato PIETRO PACE, rappresentata e difesa dall’avvocato PIETRO MARCO FABIO MASSIMO BASILE;

– controricorrente – ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 417/2013 della CORTE D’APPELLO di POTENZA, depositata il 08/08/2013 r.g.n. 39/13.

RILEVATO

CHE:

la Corte d’Appello di Potenza, con sentenza n. 417/2013, riteneva non legittima la condotta della Provincia di Potenza che aveva disposto il trasferimento del proprio dipendente N.L. dall’autoparco alla neo-istituita unità Agricoltura Caccia e Pesca, in quanto così facendo lo aveva inserito in un contesto lavorativo a lui estraneo e rispetto al quale la pregressa esperienza lavorativa, svolta quale responsabile del’Autoparco Provinciale, veniva completamente azzerata, così ponendo altresì il lavoratore in una condizione di forzata inattività, tra l’altro a pochi anni dal pensionamento;

ciononostante la Corte territoriale rigettava l’appello dispiegato dal N. avverso la sentenza a lui sfavorevole resa in primo grado dal Tribunale della stessa città, sostenendo che non potesse dirsi dedotto e provato alcun danno patrimoniale;

secondo la Corte di merito, la mancata partecipazione alle selezioni per il conferimento di posizioni organizzative, che a dire del ricorrente sarebbe conseguita alla perdita di professionalità dovuta al nuovo incarico, era in realtà derivata da scelta del lavoratore, così come, con riferimento al danno non patrimoniale da dequalificazione, pur provabile per presunzioni, non vi erano state allegazioni in ordine a natura e tipologia del pregiudizio sofferto, sicchè non poteva farsi ricorso nemmeno a liquidazione equitativa, anche tenuto conto che i certificati medici prodotti e relativi all’agosto-ottobre 2001 non erano correlabili alla successiva documentazione cardiologica del 2008 e che, dopo le note scritte del febbraio 2001 e fino al pensionamento del 2008, non era stata inviata dal N. alcuna segnalazione scritta alla Provincia rispetto agli asseriti pregiudizi alla salute;

analogamente la Corte riteneva che il ricorrente non avesse fornito alcuna prova rispetto al danno da mobbing;

la sentenza è stata impugnata per cassazione dal N. con cinque motivi, poi illustrati da memoria e resistiti da controricorso della Provincia.

CONSIDERATO

CHE:

con il primo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2103,1223 e 2727 c.c., nonchè del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 richiamando la giurisprudenza di questa Corte in merito alla possibilità di riconoscere il danno non patrimoniale anche sulla base di presunzioni, nel caso di specie da fondarsi sulla lunghezza ed ampiezza del demansionamento subito;

il secondo motivo è invece addotto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4 e con esso si sostiene la violazione dell’art. 112 c.p.c.per essere mancata la motivazione sul danno da demansionamento;

il terzo ed il quarto motivo sono destinati alla denuncia di mancanza e contraddittorietà della motivazione, sotto la rubrica dell’art. 360 c.p.c., n. 5, rispetto al mancato riconoscimento del danno da demansionamento e per i pregiudizi economici subiti;

infine il quinto motivo afferma ancora la violazione dell’art. 112 c.p.c., con riferimento alla domanda di mobbing, aggiungendo considerazioni, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, sulla necessità che il nesso causale tra la certificazione medica prodotta e le conseguenze dannose lamentate fossero valutati attraverso il licenziamento di c.t.u.;

in ordine logico vanno intanto rigettati il secondo e il quinto motivo, quest’ultimo nella sua prima parte, non essendo fondata la censura di violazione dell’art. 112 c.p.c., in quanto, come sopra evidenziato nel riepilogo delle motivazioni addotte dalla Corte territoriale, vi è stata pronuncia – sfavorevole al N. – sia sul danno da demansionamento, sia sul danno da mobbing, sicchè il vizio processuale di corrispondenza tra chiesto e pronunciato non sussiste;

il terzo ed il quarto motivo, come anche il quinto motivo nella sua ultima parte, fanno invece leva sul vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5;

la norma si applica al presente giudizio nella sua ultima formulazione (D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, convertito con mod. in L. n. 134 del 2012, con disposizione che, ai sensi del comma 3, si applica ai giudizi, come il presente, attinenti a sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo all’entrata in vigore della predetta legge di conversione) e pertanto ciò che rileva, sotto il profilo motivazionale, è solo l’omesso esame di un fatto decisivo;

in proposito il terzo motivo, estremamente sintetico, si limita ad affermare genericamente l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, senza specificare quali e risultando pertanto formulato con modalità insufficienti e tali da renderlo inammissibile;

anche il quarto motivo non si incentra su specifiche censure della motivazione nel senso richiesto dal citato art. 360 c.p.c., n. 5, ripercorrendo piuttosto nel loro insieme vari dati istruttori, al fine – ancora inammissibile – di ottenere una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura del giudizio di cassazione (Cass. S.U. 25/10/2013, n. 24148);

solo apparentemente più specifica è la censura ex art. 360 c.p.c., n. 5 contenuta nella seconda parte dell’ultimo (il quinto) motivo di ricorso, con riferimento all’accertamento del nesso causale tra i comportamenti datoriali e la certificazione medica prodotta;

in realtà, come si è detto, la Corte d’Appello, ha esaminato la certificazione (neurologica) del 2001 e poi quella (cardiologica) del 2008, affermando che esse, come del resto è evidente data la diversità degli ambiti prima facie interessati, non sarebbero state tra loro ricollegabili sotto il profilo medico-legale;

il ricorrente, criticando il passaggio per difetto motivazionale, afferma che sul punto si sarebbe dovuta svolgere semmai c.t.u., ma l’assunto è generico e carente sotto il profilo della decisività richiesta dall’art. 360 c.p.c., n. 5 al fine di assicurare ingresso alla critica motivazionale;

risulta infatti non spiegata la relazione che avrebbe dovuto essere ravvisata tra la documentazione neurologica e la documentazione cardiologica di sette anni dopo, come anche quale specifico nesso il ricorrente intravveda tra le disabilità neurologiche del 2001 o cardiologiche del 2008 e l’assetto della propria condizione lavorativa;

la formulazione apodittica del motivo rende dunque insondabile l’indispensabile requisito attinente alla decisività, in sostanza solo genericamente prospettato, di cui alla vigente formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5;

resta infine il primo motivo di ricorso che attiene al rigetto della domanda per la ritenuta – dalla Corte territoriale – mancata allegazione e prova del danno non patrimoniale;

il ricorrente in proposito adduce difese volte a far constare che sarebbe stato possibile, in linea con giurisprudenza di questa Corte contestualmente citata, affermarsi l’esistenza del danno non patrimoniale sulla base di presunzioni, nel caso di specie, a dire del N., agevolmente desumibili dalle modalità di svolgimento del lavoro attribuito nelle nuove incombenze, dalla inattività che ne era derivata e dalla lunghezza ed ampiezza del periodo interessato;

il motivo, così impostato, non risponde tuttavia in modo completo alla ratio decidendi della sentenza impugnata, la quale come detto afferma non solo che tale danno non sarebbe stato provato, ma anche che esso non sarebbe stato “allegato”, ma “solo enunciato”, mentre era necessario, dice ancora la Corte territoriale, che fosse stata originariamente dedotta la “natura” e le “caratteristiche” del “danno esistenziale, come delle altre forme”;

a tale affermazione il ricorrente avrebbe dovuto replicare riportando i passaggi del ricorso di primo grado ove viceversa emergesse la allegazione del danno non patrimoniale da demansionamento, con particolare riferimento alle manifestazioni di esso che si ritenevano concretizzate (danno alla dignità, all’immagine, alla salute o quant’altro);

essendo ciò mancato, il motivo di impugnazione risulta insufficiente ed inidoneo a scalfire la pronuncia d’appello, in quanto l’allegazione del danno, intanto nella sua tipologia e poi (Cass. 6 dicembre 2018, n. 31537) nelle sue manifestazioni concrete, è presupposto indefettibile della domanda di risarcimento (tra le molte, Cass. 10 febbraio 2014, n. 2886);

in definitiva il ricorso va integralmente respinto, con regolazione secondo soccombenza delle spese del grado.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rifondere alla controparte le spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.500,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 31 gennaio 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 giugno 2019

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