LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –
Dott. CURCIO Laura – Consigliere –
Dott. BALESTRIERI Federico – rel. Consigliere –
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –
Dott. LORITO Matilde – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 7394-2016 proposto da:
V.M., domiciliato ope legis presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’Avvocato ALESSANDRA MORONI;
– ricorrente –
contro
ESTA S.R.L. IN LIQUIDAZIONE già E. STANCAMPIANO S.P.A. IN LIQUIDAZIONE già E. STANCAMPIANO S.R.L. IN LIQUIDAZIONE in persona del liquidatore e legale rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ELEONORA DUSE, 35, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI COLONNA ROMANO, rappresentata e difesa dall’avvocato ATTILIO TORRE;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 853/2015 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 22/12/2015 R.G.N. 514/2014.
RILEVATO
CHE:
Risulta dalla sentenza impugnata che con pronuncia 9 dicembre 2013 il Tribunale di Firenze accoglieva parzialmente la domanda avanzata da V.M., agente di commercio per conto di E. Stancampiano s.p.a., condannando quest’ultima al pagamento della somma di Euro 27.832,30 oltre accessori a titolo di indennità suppletiva di clientela e sul presupposto che il diritto non fosse prescritto, essendo la prescrizione decennale.
La sentenza è stata appellata dalla società che la ha censurata: a) per non aver ritenuto la decadenza dal diritto (anche) per tale indennità, posto che la prima richiesta era stata avanzata con lettera raccomandata del 27 febbraio 2009 ed i rapporti di agenzia erano cessati nel febbraio 2002, nel maggio 2003 e nel gennaio 2006; b) per non aver ritenuto la prescrizione quinquennale in relazione alle indennità relative ai rapporti cessati nel 2002 e nel 2003.
V. si costituiva resistendo al gravame e proponendo appello incidentale sostenendo: a) che la decadenza ex att. 1751 c.c. doveva ritenersi abrogata per incompatibilità con le norme ad essa successive di livello costituzionale; b) per non aver ritenuto la unicità di tutti i rapporti di agenzia; c) per non aver ritenuto che il riconoscimento di debito da parte della Committente avesse impedito la decadenza; d) per non aver ritenuto inapplicabile il n. 5 dell’art. 2948 c.c.; e) per non aver valutato correttamente l’esito della c.t.u. contabile.
Chiedeva dunque il rigetto dell’appello e la condanna della società al pagamento della somma di Euro 29.116,68 per indennità di clientela e di Euro 40.000,00 per indennità suppletiva di clientela.
Con sentenza depositata il 22.12.15, la Corte d’appello di Firenze accoglieva il gravame principale e respingeva quello incidentale, rigettando tutte le domande proposte dal V., per essere intervenuta la decadenza di cui all’art. 1751 c.c. e, per i contratti del 2002 e 2003, l’eccepita prescrizione quinquennale.
Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso il V., poi illustrato con memoria, cui resiste la società con controricorso.
CONSIDERATO
che il presente ricorso non contiene alcuna esposizione del fatto, in contrasto con l’art. 366 c.p.c., n. 3, nè alcuna individuazione di motivi riconducibili a quelli tassativamente indicati dall’art. 360 c.p.c., nè alcuna chiara individuazione delle censure svolte nei confronti della sentenza impugnata, nè le statuizioni di questa sottoposte a critica da parte del ricorrente, sicchè il ricorso deve dichiararsi inammissibile.
Va infatti ribadito che il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, delimitato e vincolato dai motivi di ricorso; il singolo motivo, infatti, anche prima della riforma introdotta con il D.Lgs. n. 40 del 2006, assume una funzione identificativa condizionata dalla sua formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative di censura formalizzate dal legislatore. La tassatività e la specificità del motivo di censura esigono, quindi, una precisa formulazione, di modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie logiche di censura enucleate dal codice di rito (e plurimis, Cass. ord. n. 8585/12, Cass. ord. n. 10862/18, Cass. n. 8202/08, etc.).
Deve inoltre considerarsi che costituisce causa di inammissibilità del ricorso per cassazione l’erronea sussunzione del vizio che il ricorrente intende far valere in sede di legittimità nell’una o nell’altra fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., come pure l’incongruenza fra le norme di legge di cui si prospetta la violazione e le argomentazioni di supporto (Cass. n. 21099/13); che in tema di ricorso per cassazione per violazione o falsa applicazione di norme di diritto (sostanziali o processuali), il principio di specificità dei motivi, di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, deve essere letto in correlazione al disposto dell’art. 360-bis c.p.c., n. 1, essendo dunque inammissibile, per difetto di specificità, il motivo di ricorso che, nel denunciare la violazione di norme di diritto, ometta di raffrontare la “ratio decidendi” della sentenza impugnata con la giurisprudenza della S.C. e, ove la prima risulti conforme alla seconda, ometta di fornire argomenti per mutare orientamento (Cass. ord. n. 5001/18).
Che se poi è pur vero che il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, non è tuttavia necessaria l’adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi (ex aliis, Cass. ord. n. 10862/18), ciò vale alla necessaria condizione che la Corte possa agevolmente procedere alla corretta qualificazione giuridica del vizio denunciato sulla base delle argomentazioni giuridiche ed in fatto svolte dal ricorrente a fondamento della censura (Cass. ord. n. 12690/18), ipotesi certamente non ricorrente nel caso di specie ove dalla lettura dell’atto, fondamentalmente basato su generali enunciazioni di diritto senza alcuno specifico riferimento alle statuizioni della sentenza impugnata oggetto di ricorso, non è dato comprendere nè queste ultime, nè le ragioni, riconducibili ad una o più delle ipotesi previste dall’art. 360 c.p.c. (anche solo sostanzialmente), per cui essa sarebbe erronea. In sostanza l’erronea (nella specie la mancanza di) intitolazione del motivo di ricorso per cassazione non osta alla sua sussunzione in altre fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, nè determina l’inammissibilità del ricorso, se dall’articolazione del motivo sia chiaramente individuabile il tipo di vizio denunciato (Cass. ord. n. 25557/17, Cass. ord. n. 26310/17), ipotesi, come detto, non ricorrente nella specie.
Il ricorso deve essere pertanto dichiarato inammissibile. Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
la Corte dichiara inammissibile il ricorso. condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 200,00 per esborsi, Euro 4.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e c.p.a.. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella adunanza camerale, il 13 marzo 2019.
Depositato in Cancelleria il 4 giugno 2019
Codice Civile > Articolo 1751 - Indennita' in caso di cessazione del rapporto | Codice Civile
Codice Civile > Articolo 2019 - Effetti dell'ammortamento | Codice Civile
Codice Civile > Articolo 2948 - Prescrizione di cinque anni | Codice Civile
Codice Procedura Civile > Articolo 3 - (Omissis) | Codice Procedura Civile