Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.15168 del 04/06/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 1152-2018 proposto da:

CREDIT AGRICOLE CARIPARMA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA VIRGILIO 8, presso lo studio dell’avvocato ANDREA MUSTI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati GIAN CARLO SUTICH e GUGLIELMO BURRAGATO;

– ricorrente –

contro

C.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TIBULLO 10, presso lo studio dell’avvocato AGNESE CASILLO, rappresentato e difeso dall’avvocato GIUSEPPE SOLLAZZO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1290/2017 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 02/11/2017, R.G.N. 272/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/03/2019 dal Consigliere Dott. ROSA ARIENZO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CIMMINO ALESSANDRO, che ha concluso per l’inammissibilità, in subordine per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato GUGLIELMO BURRAGATO;

udito l’Avvocato GIUSEPPE SOLLAZZO.

FATTI DI CAUSA

1. Il Tribunale di Parma, in riforma dell’ordinanza – che aveva ritenuto l’insussistenza della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo del licenziamento intimato a C.F. il 28.7.2015 e, dichiarato risolto il rapporto, aveva condannato la s.p.a. Credit Agricole Cariparma, ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 5, novellato, al pagamento di un’indennità risarcitoria pari a 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto – annullava il licenziamento (ritenendo che non sussistesse la condotta ascritta o, comunque, che la stessa fosse priva di rilevanza disciplinare) e condannava la società, ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, alla reintegra del C. nel posto di lavoro ed alla corresponsione di un’indennità pari a 18 mensilità, oltre alla regolarizzazione contributiva, nonchè alla restituzione, da parte del C., di quanto percepito in eccedenza rispetto al dovuto.

2. Con sentenza del 2.11.2017, la Corte di appello di Bologna, in sede di reclamo, in parziale riforma della sentenza del Tribunale, condannava il C. a restituire il t.f.r. erogatogli, rigettando nel resto il reclamo.

3. La Corte, riteneva insussistenti una serie di omissioni contestate al C., che avrebbero favorito l’operatività fraudolenta di E.G. (gestore family presso la filiale di *****, di cui il C. era responsabile come Quadro direttivo) consistite: a) nel mancato presidio della corretta custodia delle tessere bancomat e dei relativi codici segreti, b) nella mancata attivazione delle opportune verifiche, a fronte dell’abnorme quantitativo di tessere bancomat ordinate presso l’Agenzia di *****, c) nella impropria autorizzazione di due operazioni di prelievo sui libretti di risparmio, in assenza di idonea disposizione dei clienti, d) nella non adeguata gestione delle doglianze espresse dalla cliente B. relativamente al proprio libretto di deposito a risparmio, indebitamente estinto, e) nella non adeguata gestione della segnalazione del 20.3.2015 della Funzione Compliance sull’operatività della carta prepagata-carta conto intestata alla cliente S.A..

4. Si riteneva che tali addebiti erano insussistenti o comunque privi di rilevanza disciplinare, in quanto, in relazione all’addebito sub a), i bancomat ed i relativi pin erano custoditi nella stessa cassaforte, ma in comparti separati le cui chiavi erano affidate a due diversi dipendenti (uno dei quali era l’ E.) ed ai relativi sostituti, conformemente alle regole interne allora vigenti e che nulla di anomalo era stato segnalato nel controllo del 2014; in relazione all’addebito sub b), rientrava nelle competenze del gestore family l’approvvigionamento dei bancomat senza alcuna limitazione, non essendo all’epoca stata ancora attivata la procedura che esautorava il personale dalla richiesta di rifornimento ed essendosi il C. attivato nel richiedere spiegazione all’ E. in ordine alla richiesta dell’ingente numero di tessere inoltrata dal secondo, ricevendone assicurazioni sul fatto che si fosse trattato di errore e non essendo stata segnalata nessuna anomalia dalla procedura interna, per essere stati i bancomat pervenuti in filiale conservati secondo le modalità all’epoca stabilite; in relazione all’addebito sub c), rientrando le operazioni di prelievo dai libretti di risparmio nelle competenze dell’ E. ed avendo il C. verificato il profilo creditizio positivo del cliente, senza che vi fosse alcun motivo per dubitare che il collega effettuasse il prelievo senza disposizione del cliente; quanto all’addebito sub d) essendo risultato che le condotte poste in essere dal C. non avevano configurato alcun inadempimento contrattuale, in quanto le stesse erano in linea con la diligenza esigibile prima della introduzione di nuove misure resesi necessarie in conseguenza della condotta fraudolenta dell’ E..

5. Di tale decisione domanda la cassazione la società, affidando l’impugnazione a tre motivi, illustrati nella memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c., cui resiste, con controricorso, il C..

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, la ricorrente denuncia violazione dell’art. 111 Cost., comma 6, e dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, in relazione alla rilevata omessa motivazione sulle questioni cruciali di causa, sulla sussistenza e rilevanza disciplinare degli addebiti posti a base del licenziamento del C., non essendo state indicate le circostanze definite incontroverse e documentali in base alle quali sarebbe stata esclusa ogni responsabilità per omesso controllo del C., laddove era stato dedotto proprio che l’accesso alle tessere bancomat ed ai relativi pin era consentito liberamente a tutti i collaboratori e che anche dal controllo del 2014 da parte del sevizio Audit della banca, richiamato nell’atto di reclamo della società, era emerso un rischio operativo particolarmente accentuato per le diffuse anomalie riscontrate.

1.2. Si assume, poi, in relazione al terzo addebito, che per il prelievo da libretti di deposito a risparmio era necessaria l’autorizzazione del responsabile, che nella specie vi era stata anche in assenza della materiale presenza del libretto ed in assenza di idonea disposizione della clientela, essendo implausibile la giustificazione del responsabile che fosse necessario solo valutare il merito ed il profilo creditizio del cliente ai fini dell’operazione di prelievo, effettuato dall’ E. in mancanza di elementi che dovevano indurre a dubitare della correttezza dell’operazione. Anche con riguardo agli ulteriori addebiti si assume che la Corte non abbia spiegato perchè gli stessi non avrebbero configurato inadempimenti contrattuali secondo il grado di diligenza esigibile in base alla situazione all’epoca esistente, laddove il responsabile era tenuto ad effettuare i controlli di primo grado per attivare le idonee misure correttive, a fronte di eventuali anomalie/non conformità riscontrate durante le operazioni di controllo.

2. Con il secondo motivo, si ascrive alla decisione impugnata violazione dell’art. 2104 c.c., in relazione all’art. 2119 c.c. ed alla L. n. 604 del 1966, art. 3 assumendosi che la diligenza del prestatore di lavoro si articola su due livelli, di cui il primo è quello della diligenza professionale generica, trattata dall’art. 2104 c.c., comma 1 ed il secondo è quello del livello di diligenza professionale specifica, la cui operatività è eventuale in quanto dettata da possibili disposizioni datoriali aggiuntive rispetto all’obbligo di diligenza generica, e che la Corte ha mostrato di avere preso in considerazione solo il secondo e secondario dei due profili, mancando di applicare il prioritario parametro della diligenza professionale generica, basata sulla natura della prestazione e sull’interesse dell’impresa. Con riferimento alla declaratoria professionale del C., Quadro direttivo, viene evidenziato che lo stesso mansionario prevedeva funzione di controllo e di correzione e prevenzione di anomalie sulla operatività e si richiamano una serie di circolari che depongono per la sussistenza di obblighi specifici previsti a carico dei quadri.

2.1. Si formulano una serie di considerazioni sulle omissioni identificabili nel contegno del C., che sono state ritenute non decisive del giudice del gravame, il quale ha ritenuto sufficienti le giustificazioni fornite dal C. anche in ordine alle competenze riservate dal “gestore family” ed alle spiegazioni, fornite dal predetto, relative ad errori procedurali, in relazione alle anomalie riscontrate con riguardo alle circostanze poste a fondamento degli addebiti.

2.2. Si sostiene che la Corte bolognese ha colpevolmente obliterato la disposizione di legge di cui all’art. 2104 c.c., omettendo gli accertamenti che avrebbe potuto compiere in ordine all’adempimento, da parte del C., degli obblighi di diligenza richiesti dalla natura della prestazione dovuta e dall’interesse dell’impresa, pur trattandosi di violazione di assoluto rilievo ai fini di causa, per la configurabilità della giusta causa ovvero del g.m.s. di licenziamento, per la irreparabile lesione del vincolo fiduciario, desumibile dalla sistematica negligenza del lavoratore. Si ripropongono le ulteriori difese articolate nelle pregresse fasi ritenute assorbite.

3. Con il terzo motivo, si lamenta violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’omessa pronunzia in merito alle domande subordinate, tese ad ottenere la limitazione dell’indennità risarcitoria L. n. 300 del 1970, ex art. 18, comma 4 ad un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione e la condanna alla restituzione dell’indennità risarcitoria di 24 mensilità corrisposta al lavoratore in esecuzione dell’ordinanza del Tribunale di Parma, resa a definizione della fase sommaria del procedimento “Fornero”.

4. Quanto al primo motivo, deve rilevarsi che il documento n. 23, relativo alla relazione di intervento Audit del novembre 2014, risulta allegato solo al presente ricorso, laddove, in relazione alla lettera di contestazioni degli addebiti al C. che si assume prodotta in causa dal predetto non si indica dove e quando la stessa risulti depositata nelle fasi di merito. In ogni caso, la censura è formulata senza avere riguardo alla circostanza che una motivazione seppure non condivisa dalla ricorrente vi era stata e che, quindi, il principio del minimo costituzionale della motivazione non può ritenersi violato.

Nella specie, in realtà, si precisa che nessuna anomalia era stata segnalata dalla procedura interna e una motivazione, non meramente apparente, è stata comunque adottata. In conclusione, la motivazione sussiste e non può parlarsi di apparenza: il vizio di mancanza di motivazione è riscontrabile solo quando lo stesso sia così radicale da comportare, con riferimento a quanto previsto dall’art. 132 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza per mancanza di motivazione. Mancanza di motivazione si ha quando la motivazione manchi del tutto, oppure formalmente esista come parte del documento, ma le argomentazioni siano svolte in modo talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum. Nessuno di tali vizi ricorre nel caso in esame, atteso che, al di là di ogni valutazione sulla conformità ai principi applicabili in materia, la valutazione delle circostanze processuali effettuata è idonea a dare contezza dell’iter logico argomentativo seguito dalla Corte del merito nel pervenire alla soluzione adottata. Non si verte nell’ipotesi di una violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, individuabile nei casi, che si convertono in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e danno luogo a nullità della sentenza, di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, alla cui esclusiva verifica è attualmente circoscritto (oltre alla possibilità di deduzione del vizio di motivazione per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia) il sindacato di legittimità sulla motivazione (Cass. 12 ottobre 2017, n. 23940). Sicchè, a fronte di un percorso argomentativo a sostegno della decisione assunta, il mezzo di impugnazione consiste in un’evidente contestazione della valutazione probatoria del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità (Cass. 19 marzo 2009, n. 6694; Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 4 novembre 2013, n. 24679; Cass. 10 giugno 2016, n. 11892).

5. Passando all’esame del secondo motivo, deve rilevarsi che, per la corretta denuncia di violazione delle norme di legge, occorre invocare la verifica di correttezza dell’attività ermeneutica diretta a ricostruirne la portata precettiva, la sussunzione del fatto accertato dal giudice di merito nell’ipotesi normativa, con riguardo alla specificazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata motivatamente assunte in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione della giurisprudenza di legittimità o della prevalente dottrina (cfr. Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass. 28 novembre 2007, n. 24756; Cass. 31 maggio 2006, n. 12984). E, con particolare riguardo alla corretta sindacabilità della giusta causa di licenziamento in sede di legittimità, la doglianza deve avere ad oggetto i soli parametri generali, così da presupporre da parte del giudice un’attività di integrazione giuridica della norma, a cui sia data concretezza ai fini del suo adeguamento ad un determinato contesto storico – sociale: in tal caso ben potendo il giudice di legittimità censurare la sussunzione di uno specifico comportamento del lavoratore nell’ambito della giusta causa, in relazione alla sua intrinseca lesività degli interessi del datore di lavoro (Cass. 15 aprile 2016, n. 7568; Cass. 18 gennaio 1999, n. 434; Cass. 22 ottobre 1998, n. 10514).

6. Il sindacato sull’attività di integrazione del precetto normativo compiuta dal giudice di merito può, dunque, essere richiesto in sede di impugnazione dinanzi alla Corte di legittimità, a condizione che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza del predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale (Cass. 26 aprile 2012, n. 6498; Cass. 2 marzo 2011, n. 5095).

7. Deve, invero, ribadirsi come la giusta causa costituisca una nozione che la legge configura con una disposizione, ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali, che richiede di essere specificata in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni, relativi alla coscienza generale, sia di principi che la disposizione codicistica tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone, come già detto, sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito (cfr. Cass. 16.5.2016 n. 10017 che richiama Cass. 2.3.2011 n. 5095 e Cass. 26.4.2012 n. 6498) al quale è anche riservata la scelta dei mezzi istruttori utilizzabili ai fini dell’accertamento dei fatti rilevanti per la decisione, scelta censurabile in sede di legittimità sotto il profilo del vizio di motivazione, nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., n. 5, e non della violazione di legge (cfr. Cass. 20.9.2013 n. 21603; Cass. 18.3.2013 n. 6715; Cass. 5.7.2016 n. 13716 e da ultimo, per l’affermazione degli stessi principi, Cass. 4.3.2019 n. 6268, cass. 19.3..2019 n. 7660, Cass. 25.3.2019 n. 8310).

8. Tanto premesso, deve rilevarsi che la ricorrente denuncia in rubrica la violazione dell’art. 2119 c.c., nonchè delle norme del codice che impongono al prestatore gli obblighi di diligenza e fedeltà, sostanzialmente dolendosi della erronea ricognizione della fattispecie normativa astratta con riferimento alla diligenza richiedibile al responsabile di filiale, e pertanto la deduzione è riconducibile al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3.

9. La valutazione operata con riferimento al parametro della diligenza professionale generica di cui all’art. 2104 c.c., comma 1 (Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale) non è stata condotta in conformità alla previsione di cui all’art. 2119 c.c., che, integrando, come già evidenziato, una tipica “norma elastica”, non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità, sotto il profilo della correttezza del metodo seguito nell’applicazione della clausola generale, poichè l’operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali, e dalla disciplina particolare (anche collettiva) in cui la concreta fattispecie si colloca (cfr. Cass. n. 9266 del 2005; Cass. n. 5299 del 2000); l’integrazione giurisprudenziale, a livello generale ed astratto, della nozione di giusta causa si colloca sul piano normativo, laddove il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione dell’illecito commesso istituzionalmente rimesso al giudice di merito – si sostanzia nella valutazione di gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso.

10. A tale ultimo fine va ribadito che l’inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 c.c., sicchè l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata soltanto in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali (L. n. 604 del 1966, art. 3) ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto (art. 2119 c.c.), (cfr. Cass. 18715 del 2016; Cass. n. 21965 del 2007; Cass., n. 25743 del 2007).

11. La sentenza impugnata non si è attenuta ai principi sopra richiamati, avendo omesso di considerare in una prospettiva unitaria tutti gli addebiti formulati, posti a fondamento del recesso della società, ed, al di là di una considerazione di conformità degli stessi alla disciplina regolamentare interna che, ratione temporis, era meno stringente in termini di doveri di controllo del responsabile dell’ufficio o filiale rispetto a quella successivamente introdotta, non ha preso in considerazione il disvalore sociale comunque espresso della condotta ascritta al lavoratore, sul piano dei doveri generali di diligenza nell’esecuzione della prestazione dovuta. E’ stata omessa ogni considerazione della notevole entità dell’importo (Euro 900.000,00) che si asserisce essere stato sottratto, con condotta fraudolenta, da E.G., gestore family, attraverso la forzosa estinzione di libretti di risparmio e la dotazione irregolare di tessere bancomat, operazioni sulle quale è pacifico che il C. dovesse comunque vigilare in ragione del ruolo ricoperto nella filiale.

12. La Corte avrebbe dovuto, in conclusione, valutare nei termini indicati la sussistenza di una giusta causa idonea a sorreggere il recesso datoriale, in una prospettiva che riconducesse la connotazione di rilevanza disciplinare e gravità della condotta alla importanza ed alla delicatezza delle funzioni attribuite al C., ed alla idoneità della condotta omissiva del predetto a vulnerare, in maniera irreparabile, il peculiare vincolo di fiducia con la banca, che si fonda sull’interesse datoriale all’esatto e puntuale adempimento futuro della prestazione da parte del lavoratore.

13. l’accoglimento del secondo motivo rende superfluo l’esame del terzo motivo, che deve ritenersi pertanto assorbito;

14. la sentenza va, pertanto, cassata in relazione al motivo accolto, e la causa va rinviata alla Corte di appello di Bologna, in diversa composizione, che provvederà a nuovo esame alla stregua dei principi indicati e nei termini delineati, nonchè alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo motivo, rigetta il primo e dichiara assorbito il terzo, cassa la decisione impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d’appello di Bologna in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 21 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 giugno 2019

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