LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ORILIA Lorenzo – Presidente –
Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –
Dott. SCALISI Antonino – rel. Consigliere –
Dott. SABATO Raffaele – Consigliere –
Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 20398/2015 proposto da:
G.L., rappresentato e difeso dall’avvocato PASQUALE EDOARDO ALFONSO ORRICO;
– ricorrente –
contro
M.G., MA.OR., C.R.P., MA.LU., rappresentati e difesi dagli avvocati ANNALISA CHIEPPA, GABRIELE MANDELLI;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 482/2015 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 28/01/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 22/02/2019 dal Consigliere ANTONINO SCALISI.
FATTI DI CAUSA
Il Tribunale di Milano, con la sentenza n. 2296/2013 definiva la fase “di merito” del procedimento possessorio introdotto con il ricorso ex artt. 1170 e 703 c.p.c., da G.L., il quale aveva denunciato che opere qualificate come “recupero abitativo di sottotetti” ai sensi della vigente legislazione regionale della Lombardia (realizzate nell’edificio di due piani fuori terra al n. 7 della *****, già di proprietà della sola sig.ra C.R.P. e sul quale ora la stessa ed i sigg.ri Ma.Or., Ma.Lu. e M.G. vantano diritti di proprietà o di usufrutto), avevano comportato la realizzazione di un vero e proprio nuovo piano del preesistente fabbricato, dotato di pareti finestrate di rilevanti dimensioni, posto a distanza dalle unità immobiliari ai piani terreno, secondo e terzo di proprietà del sig. G. nell’edificio al n. 38 della via Marconi non conforme alle prescrizioni della norme edilizie locali (N. T.A. del P.R.G. di *****, che recepiscono il disposto del 1444/1968 in tema di distanze tra pareti finestrate di edifici antistanti) e dello stesso còdice civile (art. 873);
Il sig. G. aveva chiesto, oltre alla condanna delle controparti alla riduzione in pristino della loro costruzione, l’autorizzazione ad eseguire egli stesso i lavori per la manutenzione del suo possesso in caso di inottemperanza, con addebito delle relative spese ai resistenti dietro semplice documentazione degli esborsi sostenuti mediante esibizione di ricevuta fiscale e con la condanna degli stessi al risarcimento del danno.
Il giudice designato per la fase sommaria del procedimento possessorio, all’esito di una CTU dato atto che la distanza irregolare (mt. 2,465) tra le pareti dei due edifici antistanti rilevava solo per la lunghezza minima (soli. 7 cm.) per la quale i due fabbricati si sovrappongono e che ad una distanza irregolare dal fondo del sig. G., sia pur per soli 5-5 cm., si trova anche lo sporto di gronda di nuova realizzazione nella costruzione dei esistenti, ordinava ai sig.ri C./ Ma./ M. di ricondurre a distanze legali il loro intervento edilizio mediante “rastremazione del muro laterale ad ovest posto delimitazione della scala per 8 cm., così da evitare la sovrapposizione delle murature degli edifici di causa nonchè mediante rastremazione della riscontrata eccedenza della mura a nuova elevazione sul lato nord pari a 5,5 cm rispetto a quella originaria sottostante da effettuarsi con riferimento alla sola parete della scala (lato nord) e del parapetto del balcone”.
il Tribunale richiamando l’ampia motivazione del provvedimento emesso a conclusione della fase sommaria del procedimento cautelare e sottolineava che, all’esito degli accertamenti tecnici, non vi era ragione per ordinare la demolizione dell’intera porzione immobiliare realizzata a seguito del recupero abitativo del sottotetto, ma solo quei minimi interventi (rastremazione di murature, come specificato nella relazione di CTU e nel dispositivo dell’ordinanza conclusiva della fase sommaria) necessari e sufficienti per l’eliminazione della molestia possessoria realizzata sub specie di violazione delle distanze fra due costruzioni ovvero di ma veduta (nuovo sporto di gronda) dall’altrui fondo; b) respingeva la domanda di risarcimento dei danni proposta dal sig.ri G., sul rilievo della mancanza di prova di qualsiasi pregiudizio dallo stesso subito, non potendosi ritenere in re ipsa il danno causato da una violazione di distanze legali fra pareti finestrate di edifici che sono antistanti per una lunghezza di soli sette centimetri, c) respingeva la domanda di autorizzazione del ricorrente ad eseguire l’intervento di ripristino della situazione preesistente, osservando che, in caso di inottemperanza della parte tenuta ad un facere, la parte vittoriosa non può che rivolgersi al giudice dell’esecuzione per la concreta delimitazione delle modalità dell’esecuzione, non essendo neppure applicabile alla fattispecie l’art. 614 bis c.p.c., in tema di attuazione degli obblighi di fare infungibili o di non fare, dal momento che gli obblighi di fare cui è necessario dare esecuzione per rendere effettiva la tutela possessoria sono perfettamente fungibili; d) compensava interamente le spese di lite della fase di merito possessorio, ferma restando la regolamentazione delle spese della fase sommaria.
Avverso tale sentenza ha proposto appello il sig. G., che lamenta:1) la mancata ammissione di una nuova CTU nella fase di merito del procedimento possessorio ed allo scopo ripropone il richiamo alla costante giurisprudenza per quale la distanza di 10 mt. fra pareti finestrate di edifici antistanti (D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, recepito da moltissime normative edilizie locali, fra le quali le N. T.A. del P.R.G. di *****) s’impone anche se su una sola delle pareti che si fronteggiano siano aperte finestre; in particolare, la nuova CTU viene sollecitata per chiarire che al piano terreno il mancato rispetto della distanza di 10 mt. rileva non solo per i 7 cm. di sovrapposizione dei due edifici a seguito del recupero abitativo del sottotetto del fabbricato dei resistenti, ma per una lunghezza di 4,86 mt.; inoltre il CTU avrebbe erroneamente misurato il raggio di tre metri per verificare il rispetto della distanza ex art. 907 c.c., a partire dalla nuova costruzione di C./ Ma./ M. e non a partire dalle finestre di G.; infine, non sarebbe stata rilevata l’illegittimità del ricorso alla procedura di recupero abitativo dei sottotetti per la realizzazione del nuovo piano del fabbricato dei vicini; 2) l’erroneità del rigetto della domanda di risarcimento danni, sull’erroneo presupposto che si fosse trattato di violazioni minime ed infine; 3) l’erroneità del rigetto della domanda per effettuare direttamente opere di ripristino, che sarebbe legittimata anche dall’art. 614 bis c.p.c., essendo l’obbligo negativo di astenersi da un comportamento illegittimo – la costruzione a distanza illegale – per sua natura generico, così che l’art. 614 bis c.p.c., sarebbe applicabile in relazione a tutte le violazioni di obblighi di non fare; 4) l’erroneità della statuizione concernenti le spese di lite, quale conseguenza dell’accoglimento dei precedenti motivi dell’appello.
I sig.ri C., Ma.Or. e Lu. e M. non si sono costituiti in questo grado e sono stati dichiarati contumaci.
La Corte di Appello di Milano, con sentenza n. 482 del 2015 respingeva l’appello e confermava integralmente la sentenza impugnata. Secondo la Corte di Milano considerato che la nuova costruzione di cui si dice presentava una irregolarità tanto modesta la stessa poteva ricondursi a distanza regolare mediante rastrematura del muro così come suggerita dal CTU e prescritta dall’ordinanza conclusiva della fase sommaria non valendo la distanza prevista dal D.M. n. 1444 del 1968 per le nuove pareti finestrate nella parte in cui non siano antistanti e quindi non si sovrappongono alla parete del vicino.
La cassazione di questa sentenza è stata chiesta da G.L. con ricorso affidato a due motivi. C.R.P., e i sig. Ma. ( Or., Lu., Gi.) hanno resistito con controricorso. In prossimità della Camera di Consiglio le parti hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
In via preliminare va rigettata l’eccezione di inammissibilità e/o improcedibilità del ricorso perchè, secondo i controricorrenti, privo del requisito di autosufficienza posto che il ricorrente non avrebbe esposto compiutamente i fatti di causa.
Va qui considerato che il ricorso in esame, contrariamente a quanto ritiene la parte controricorrente riporta tutti gli elementi utili (identificativi del petitum e della causa petendi), perchè il giudice di legittimità possa avere la completa cognizione dell’oggetto della controversia, dello svolgimento del processo e delle posizioni in esso assunte dalle parti, e soprattutto tutti quegli elementi utili per la corretta comprensione delle censure formulate avverso la sentenza impugnata. Restando trascurabile la circostanza denunciata dal controricorrente della mancata trascrizione dell’ordinanza emessa dal Tribunale di Milano in data 3 gennaio 2011, in parte, comunque, trascritta (pag. 6 del ricorso).
E’ principio pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che ai fini della sussistenza del requisito della “esposizione sommaria dei fatti di causa”, prescritto, a pena di inammissibilità, per il ricorso per cassazione dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, è necessario, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso, che in esso vengano indicati, in maniera specifica e puntuale, senza dover ricorrere ad altre fonti o atti del processo, ivi compresa la sentenza impugnata, così da acquisire un quadro degli elementi fondamentali in cui si colloca la decisione censurata e i motivi delle doglianze prospettate.
1.- Con il primo motivo di ricorso G.L. lamenta la violazione e falsa applicazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, norma violata artt. 873 e 907 c.c., D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, L.R. Lombardia n. 12 del 2005, e art. 115 c.p.c., comma 1, nonchè dei principi generali in tema di valutazione delle prove e omessa pronuncia su fatti quali punti decisivi della controversia e oggetto di discussione tra le parti. Secondo il ricorrente la Corte distrettuale accogliendo totalmente le risultanze della Ctu non avrebbe tenuto conto dei rilievi critici formulate dall’attuale ricorrente. In particolare, il ricorrente avrebbe lamentato la violazione degli artt. 873 e 907 c.c., del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, nonchè della legge Regione Lombardia n. 12 del 205 e delle NTA del Comune di *****, indicando una serie di circostanze che evidenziavano le violazioni denunciate e, tuttavia, il Tribunale prima e la Corte distrettuale poi non solo non avrebbero valutato i rilievi dell’attuale ricorrente ma non avrebbero, neppure, accolto le istanze istruttorie senza darne adeguata motivazione. Piuttosto, la nuova perizia avrebbe dovuto chiarire: “(….) a) che la sovrapposizione dei fabbricati a piano terra per mt. 4,68 va tenuto in conto ai fini della determinazione delle distanze legali e pertanto la distanza di 3 mt imposta dall’art. 873 deve essere rispettata quantomeno per la porzione di fabbricato degli appellati che fronteggia il fabbricato G. per 4.89 mt. e non solo per i 7 cm che si fronteggiano. B) Che, nel caso di pareti finestrate, la distanza di 10 mt D.M. n. 1444 del 1968, ex art. 9, deve essere rispettata quantomeno per la porzione di fabbricato degli appellati che fronteggia il fabbricato G. per 4.89 mt. C) Che, sull’osservanza del principio di prevenzione, chi costruisce per primo deve mantenere la distanza di almeno 5 mt dal confine anche se la parete non è finestrata, poichè la ratio sta nel non gravare sul vicino che intendesse successivamente costruire con finestra verso il confine stesso (Cass. Ci. 9/6/1981 n. 4246, 19/2/81 n. 1035, 27/2/78 n. 999). D) Che sarebbe inesatta la misurazione a raggio a partire dalla nuova edificazione degli appellati adottata dall’arch. D., poichè l’art. 907, parlando di distanza tra le vedute esistenti, implica che essa vada verificata a partire dalle finestre G. verso il nuovo fabbricato M.- C.- Ma. e non viceversa. E) Che è illegittima la procedura adottata dagli appellati con il ricorso alla LR 12/05, sulla quale già l’arch. D. aveva espresso le proprie perplessità pur non tenendone conto nelle proprie conclusioni.
1.1. – Il motivo è fondato per la ragione di cui si dirà.
Secondo la Corte distrettuale le nuove distanze ex D.M. n. 1444 del 1968, non varrebbero per le nuove pareti finestrate nella parte in cui non siano antistanti (quindi non si sovrappongono) (pag. 6 della sentenza) alla parete del vicino. Epperò così ragionando la sentenza impugnata si è posta in contrasto con l’orientamento di questa Corte secondo cui la norma del D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, art. 9, in materia di distanze fra fabbricati va interpretata nel senso che la distanza minima di dieci metri è richiesta anche nel caso che una sola delle pareti fronteggiantisi sia finestrata e che è indifferente se tale parete sia quella del nuovo edificio o quella dell’edificio preesistente, essendo sufficiente, per l’applicazione di tale distanza, che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, ancorchè solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta. Di conseguenza, il rispetto della distanza minima imposto dalle richiamate prescrizione è obbligatorio anche per i tratti di parete che siano in parte prive di finestre (Cass. 20.6.2011, n. 13547; Cass. 28.8.1991, n. 9207). La sentenza, avendo disatteso tali principi, è, perciò, incorsa nella censurata violazione di legge e va cassata. La Corte distrettuale dovrà, cui la causa verrà rinviata dovrà procedere ad un nuovo esame dei fatti di causa ed individuare la norma applicabile, attenendosi agli indicati criteri interpretativi.
2.- L’accoglimento del primo motivo assorbe il secondo motivo del ricorso con il quale il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, norma violata art. 110 c.p.c.. Secondo il ricorrente: a) la Corte distrettuale, sul falso presupposto di una lievissima entità delle violazioni, avrebbe omesso di pronunciarsi sul richiesto risarcimento danni da liquidarsi anche in via equitativa. b) erroneamente la sentenza impugnata non avrebbe applicato la normativa di cui all’art. 614 bis c.p.c., non tenendo conto che la misura di cui all’art. 614 bis c.p.c., è stata estesa anche alle obbligazioni di non fare.
In definitiva va accolto il primo motivo e dichiarato assorbito il secondo, la sentenza impugnata va cassata e la causa va rinviata ad altra sezione della Corte di Appello di Milano, la quale provvederà alla liquidazione delle spese anche del presente giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo del ricorso e dichiara assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa ad altra sezione della Corte di Appello di Milano anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile di questa Corte di Cassazione, il 22 febbraio 2019.
Depositato in Cancelleria il 4 giugno 2019
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