LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –
Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –
Dott. DI MARZIO Mauro – rel. Consigliere –
Dott. MARULLI Marco – Consigliere –
Dott. TRICOMI Marco – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 11444/2018 proposto da:
A.A., domiciliato in Roma, presso la cancelleria della Corte di cassazione, rappresentato e difeso dall’Avvocato Mario Lotti, giusta procura in atti;
– ricorrente –
contro
Ministero dell’Interno, domiciliato in Roma, via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura generale dello stato, che lo rappresenta e difende ope legis;
– controricorrente –
Avverso sentenza della CORTE D’APPELLO DI MILANO, depositata il 07/02/2018;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 09/05/2019 dal Cons. Dott. MAURO DI MARZIO.
FATTI DI CAUSA
1. – A.A., cittadino pakistano, ricorre per sei mezzi, nei confronti del Ministero dell’interno, contro la sentenza del 7 febbraio 2018 con cui la Corte d’appello di Milano ha respinto il suo appello avverso la decisione del locale Tribunale che aveva disatteso l’opposizione al diniego, da parte della competente Commissione territoriale, della sua domanda di protezione internazionale o umanitaria.
2. – L’amministrazione resiste con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1, lett. a), della Convenzione di Ginevra del 1951, come modificata dal Protocollo di New York ratificato con L. n. 95 del 1970 e del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2,3 e 8, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, censurando la sentenza impugnata per aver omesso di considerare: a) che il riconoscimento dello status di rifugiato è dovuto non soltanto nell’ipotesi in cui il richiedente non possa avvalersi della protezione del suo Paese, ma anche in quello in cui non voglia farlo per il timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale, opinioni politiche; b) la vicenda personale del richiedente, gli elementi significativi posti a fondamento della domanda, quanto dichiarato della documentazione prodotta a sostegno delle circostanze dedotte; c) il dovere di cooperazione istruttoria gravante sul giudice.
Il secondo motivo denuncia omesso esame circa un fatto decisivo del giudizio che è stato oggetto di discussione, in relazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per aver la Corte d’appello omesso di considerare i fatti storici posti a sostegno della domanda, in particolare gli atti persecutori subiti dal ricorrente nel paese di origine in ragione del proprio credo religioso.
Il terzo motivo denuncia omesso esame circa un fatto decisivo del giudizio che è stato oggetto di discussione, ossia la situazione personale del richiedente ed il rischio del grave danno nella forma della tortura o del trattamento inumano e degradante, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5.
Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, omessa valutazione della situazione generale presente nel paese di origine del richiedente e della sussistenza del rischio del danno grave della forma della minaccia grave e individuale alla vita o alla persona, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, censurando la sentenza impugnata per aver omesso di riconoscere la protezione sussidiaria, pur in presenza di una minaccia grave e individuale alla vita e alla persona del richiedente derivante dalla violenza indiscriminata, senza assumere informazioni precise e aggiornate sul contesto di provenienza.
Il quinto motivo denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) e art. 16, con riguardo all’esclusione della protezione sussidiaria in considerazione del fatto che il richiedente avrebbe potuto continuare a vivere in altra città rispetto a quella di origine, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3.
Il sesto motivo denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, comma 1, omesso e comunque erroneo giudizio comparativo effettivo tra la situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente nel paese di origine e il livello di integrazione raggiunto in Italia, mancato assolvimento dell’obbligo di cooperazione istruttoria, ex art. 360 c.p.c., n. 3.
2. – Il collegio ha disposto la redazione del provvedimento in forma semplificata.
3. – Il ricorso è inammissibile.
3.1. – E’ inammissibile il primo motivo.
E’ rifugiato, ai sensi del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 2, il cittadino straniero il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale Paese, ferme le cause di esclusione di cui all’art. 10 dello stesso D.Lgs..
Il timore che giustifica il riconoscimento dello status di rifugiato è dunque, per espressa previsione normativa, un timore “fondato”, e cioè un timore non tanto collocato nel foro interno, bensì oggettivamente giustificato dalle condizioni in cui il richiedente verrebbe a trovarsi se facesse rientro nel proprio paese.
Va da sè che il fondato timore ha da essere scrutinato in relazione ai parametri desumibili dal combinato disposto del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 6,7 e 8.
In particolare, la prima di tali disposizioni impone di valutare, ai fini dell’esame della domanda di protezione internazionale, la possibilità che il richiedente ottenga protezione da parte anzitutto dello Stato, sempre che tale protezione, beninteso, sia effettiva e non temporanea e consista nell’adozione di adeguate misure per impedire che possano essere inflitti atti persecutori o danni gravi.
Ne discende, con evidenza, che non ha diritto alla protezione richiesta il richiedente lo status di rifugiato il quale alleghi atti di persecuzione pur connotati dal coefficiente di gravità risultante dall’art. 7 del D.Lgs., pur riconducibili alle motivazioni di cui al successivo art. 8 (in questo caso si denuncia la persecuzione determinata dall’appartenenza al credo sciita da parte della comunità sunnita), il quale, secondo la valutazione compiuta dall’organo chiamato a provvedere sulla domanda, versi oggettivamente in condizione di poter ottenere adeguata protezione del Paese di origine: sicchè, con pari evidenza, neppure può, in tale situazione, predicarsi la sussistenza di un timore “fondato”, che, come si diceva, altro non è che la proiezione, oggettivata del non potersi avvalere della protezione del proprio Paese.
Nel caso in esame, con accertamento non suscettibile di sindacato in questa sede, la Corte territoriale ha ritenuto, sulla base della documentazione richiamata in sentenza, che il Pakistan non avalli condotte persecutorie: e, in altre parole, che nulla impedisca al richiedente di invocare la protezione del proprio Paese di origine.
Ciò detto, risulta manifesto come la censura, nella sua prima parte, lungi dall’essere diretta a rimettere in discussione il significato e la portata applicativa delle disposizioni richiamate in rubrica, e dunque al di fuori della denuncia di un vizio di violazione di legge, anche sotto forma di falsa applicazione, miri al risultato, come si premetteva inammissibile, di ribaltare detta valutazione.
Per il resto è del tutto evidente come, una volta stabilito che il richiedente può avvalersi della protezione del proprio Paese, la rimanente parte della censura, concernente l’omessa considerazione della vicenda personale del richiedente e l’omesso esercizio del dovere di cooperazione istruttoria, sia inammissibile giacchè non attinge la ratio decidendi posta a sostegno della decisione impugnata.
3.2. – E’ inammissibile il secondo motivo.
Fissata la ratio decidendi cui si è detto, essa non è punto sfiorata dalla censura proposta.
3.3. – E’ inammissibile il terzo motivo, con il quale l’omessa considerazione di un fatto decisivo e controverso è riferita al diniego della protezione sussidiaria di cui del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b), (tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese di origine).
Ma è evidente che neppure questa è dovuta se il richiedente possa ricevere protezione nel Paese di origine, trovando applicazione l’art. 6 dello stesso D.Lgs. in ciascuna delle ipotesi di protezione internazionale ivi disciplinata, sicchè anche in questo caso la censura non intacca la ratio decidendi su cui si basa la sentenza.
3.4. – E’ inammissibile il quarto motivo, rivolto a lamentare il mancato riconoscimento della protezione sussidiaria ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c).
Ciò sia per le ragioni appena evidenziate, sia perchè, nuovamente, non ha nulla a che vedere con una censura di violazione di legge, ma mira inammissibilmente a ribaltare la valutazione di merito compiuta dalla Corte d’appello, sulla base della documentazione richiamata in sentenza, laddove essa ha escluso che in Pakistan possa dirsi ricorrente una situazione di minaccia grave derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.
3.5. – E’ inammissibile il quinto motivo, proposto contro motivazione svolta ad abbundantiam, giacchè il nocciolo della motivazione di rigetto discende dall’esclusione della sussistenza di un contesto di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.
3.6. – E’ inammissibile il sesto motivo, nuovamente svolto come violazione di legge, giacchè la censura non investe la fattispecie astratta recata dalla norma di legge richiamate in rubrica, nè implica un problema interpretativo della stessa, risolvendosi invece nell’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, erronea ricognizione esterna all’esatta interpretazione della norma e inerente alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità.
4. – Le spese seguono la soccombenza. Non sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato, essendo stato il ricorrente ammesso al patrocinio a spese dello Stato.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso, in favore del controrìcorrente, delle spese sostenute per questo giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 2.100,00, oltre alle spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 9 maggio 2019.
Depositato in Cancelleria il 12 giugno 2019