LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –
Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –
Dott. DI MARZIO Mauro – rel. Consigliere –
Dott. MARULLI Marco – Consigliere –
Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 12456/2018 proposto da:
D.U.S., domiciliato in Roma, presso la cancelleria della Corte di cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato Rosalia Bennato, giusta procura in atti;
– ricorrente –
contro
Ministero dell’interno;
– intimato –
Avverso sentenza della CORTE D’APPELLO DI MILANO, depositata il 01/03/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 09/05/2019 dal cons. MAURO DI MARZIO.
FATTI DI CAUSA
1. – D.U.S., cittadino del *****, ricorre per due mezzi, nei confronti del Ministero dell’interno, contro la sentenza del 1 marzo 2018 con cui la Corte d’appello di Milano ha respinto il suo appello avverso la decisione del locale Tribunale che aveva disatteso l’opposizione al diniego, da parte della competente Commissione territoriale, della sua domanda di protezione internazionale o umanitaria.
2. – L’amministrazione intimata non spiega difese.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Il ricorso contiene due motivi.
Il primo denuncia violazione e/o falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., n. 3, del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 e violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, lett. g) e art. 14.
Il secondo motivo denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, ex art. 360 c.p.c., n. 5.
I due motivi sono nel complesso volti a lamentare l’errore asseritamente commesso dalla Corte territoriale nel negare il riconoscimento della protezione internazionale richiesta nonostante i gravi episodi di violenza subiti dal ricorrente in *****, che non erano consistiti, come ritenuto dal giudice di merito, in semplici atti di criminalità comune, avessero dato luogo ad atti aggressivi riconducibili ad una situazione di violenza indiscriminata. Successivamente si sostiene che la Corte d’appello avrebbe dovuto in ogni caso riconoscere la protezione umanitaria in considerazione della grave situazione personale in cui si troverebbe il ricorrente se venisse rimpatriato. Nel corpo del motivo viene altresì affermato che il giudice sarebbe venuto meno al proprio dovere di cooperazione istruttoria.
2. – Il ricorso è inammissibile.
2.1. I due motivi, che per il loro collegamento possono essere simultaneamente esaminati, sono entrambi volti a sostenere che la Corte d’appello avrebbe erroneamente negato la protezione richiesta, nelle sue diverse forme, venendo altresì meno al proprio dovere di cooperazione istruttoria.
Così facendo, il ricorrente ha mostrato di non essersi avveduto che la decisione impugnata è sostenuta da una pluralità di rationes decidendi, prima delle quali quella – neppure lambita dal motivo di ricorso – concernente la non credibilità della narrazione dei fatti posti a sostegno della domanda proposta.
Di qui l’inammissibilità delle censure 2.1.1. – Ed invero, sotto la rubrica: “Esame dei fatti e delle circostanze”, il D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3"Attuazione della direttiva 2004/83/CE recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica del rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonchè norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta”, disciplina per un verso gli oneri di allegazione e prova gravanti su colui il quale richiede la protezione internazionale, per altro verso gli obblighi cui il giudice è sottoposto nello scrutinare la richiesta.
2.1.2. – Sotto il primo profilo, e cioè con riguardo agli oneri di allegazione e prova, alla stregua del dato normativo:
-) il richiedente la protezione internazionale è tenuto a presentare “tutti gli elementi e la documentazione necessari” a motivare la domanda medesima, il cui esame è poi destinato ad essere “svolto in cooperazione con il richiedente”, e cioè in un’ottica di sinergica collaborazione, e “riguarda tutti gli elementi significativi della domanda”, i.e. è destinato a misurarsi con l’intero ventaglio dei requisiti rilevanti, siccome presentati dall’interessato, perchè la domanda di protezione internazionale, nelle sue diverse forme, riconoscimento dello status di rifugiato o protezione sussidiaria, possa essere accolta (comma 1);
-) detto onere di presentazione degli “elementi” e della “documentazione” concerne, in specifico, oltre all’età, alla condizione sociale, se necessario anche dei congiunti, all’identità, alla cittadinanza, ai paesi e luoghi in cui il ricorrente ha soggiornato, le domande d’asilo pregresse, gli itinerari di viaggio, i documenti di identità e di viaggio, anche, e diremmo soprattutto, “i motivi della sua domanda di protezione internazionale” (comma 2).
La latitudine degli oneri di allegazione e prova a carico del richiedente emerge altresì dal comma 3 della disposizione, dall’angolo visuale della valutazione della domanda di protezione internazionale, da effettuarsi su base individuale, e cioè in relazione alle circostanze come allegate dal richiedente, valutazione che deve estendersi a tutti i fatti pertinenti concernenti il Paese d’origine; alle persecuzioni o danni gravi che egli deve rendere noto di aver subito o di rischiare di subire; alla situazione individuale ed alle circostanze personali rilevanti al fine di verificare se gli atti indicati, come subiti o paventati, si configurino effettivamente come persecuzione o danno grave; alla condotta del richiedente, ove egli abbia operato al fine di creare le condizioni necessarie alla presentazione della domanda di protezione internazionale, e se ciò lo esponga a persecuzione o danno grave in caso di rientro nel Paese; all’eventualità che il richiedente possa far ricorso alla protezione di un altro Paese.
Ebbene, laddove l’art. 3 citato stabilisce che il richiedente “è tenuto a presentare… tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la medesima domanda”, si riferisce, come si premetteva, tanto agli oneri di allegazione (per il che il richiedente deve presentare, ed in tal senso allegare, gli elementi dedotti a sostegno della domanda), quanto a quelli probatori (per il che il richiedente deve presentare, ed in tal senso produrre, la documentazione necessaria).
2.1.3. – E’ allora manifesto come le ragioni fondanti la domanda di protezione, cosa del resto ovvia, debbano essere senz’altro anzitutto allegate dall’interessato.
Sicchè, il richiedente ha il preciso onere di offrire agli organi del Paese al quale rivolge la domanda di protezione ogni elemento utile allo scrutinio di essa: e ciò egli deve fare in un’ottica di schietta collaborazione con tali organi, evidente essendo che la previsione normativa, laddove impone di procedere all’esame della domanda di protezione internazionale “in cooperazione con il richiedente”, richiede un atteggiamento collaborativo reciproco, giacchè, sul piano della logica prima ancora che su quello del diritto, non è pensabile che la Commissione territoriale, come pure il giudice, possa cooperare, e cioè operare insieme, ad un richiedente che, al contrario, non offra la collaborazione dovuta.
Fin qui il richiedente non gode, e non vi è ragione perchè debba godere, di alcuna agevolazione rispetto alle regole ordinarie del giudizio civile tale da giustificare un quadro assertivo non adeguatamente circostanziato, e tale da porre i menzionati organi in condizione di sottoporre la domanda al vaglio che merita.
La qual cosa si riassume nella massima, più volte ed anche qui ribadita, secondo cui la domanda di protezione internazionale non si sottrae all’applicazione del principio dispositivo, sicchè il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli d’ufficio nel giudizio (Cass. 28 settembre 2015, n. 19197).
2.1.4. – Una volta allegati, i fatti posti a sostegno della domanda di protezione internazionale vanno provati dal richiedente, sia pure entro speciali limiti, e con peculiari agevolazioni, come subito si vedrà: in linea di principio, cioè, il giudizio volto al riconoscimento della protezione internazionale, come si desume dalla già citata previsione che sollecita il richiedente a depositare la documentazione necessaria, non si sottrae, salvo quanto si dirà, all’applicazione delle regole generali dettate in ordine al riparto dell’onere probatorio dall’art. 2697 c.c., comma 1: con la conseguenza che, se la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale non sono provati, la domanda è da rigettare.
Ed difatti è ben possibile che il richiedente, dopo aver assolto l’ineludibile onere di allegare le circostanze poste a sostegno della domanda di protezione internazionale, sia talora in condizione altresì di comprovarne il fondamento; ma è ampiamente intuitivo che egli, proprio a cagione delle persecuzioni o danni gravi subiti nel Paese di provenienza, o anche solo paventati, possa non essere in grado di offrire la prova di dette circostanze: e tale è il contesto in cui la norma in esame tempera il principio dispositivo, disciplinando, tra l’altro, il dovere c.d. di cooperazione istruttoria.
Stabilisce difatti del menzionato art. 3, il comma 5 che, qualora taluni elementi posti a sostegno della domanda di protezione internazionale non siano suffragati da prove, prove che dunque la norma ribadisce di porre di regola a carico dell’interessato, essi sono considerati veritieri ove possa ritenersi che il richiedente, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda:
-) abbia compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla e, così, abbia offerto tutti gli elementi pertinenti in suo possesso ed abbia fornito una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi;
-) abbia fornito dichiarazioni coerenti e plausibili e non in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone, e risulti altresì, in generale credibile.
Tale disposizione, è stato detto in una nota decisione che ha enucleato il c.d. dovere di cooperazione istruttoria, “affida all’autorità esaminante un ruolo attivo ed integrativo nell’istruzione della domanda, disancorato dal principio dispositivo proprio del giudizio civile ordinario e libero da preclusioni o impedimenti processuali, con la possibilità di assumere informazioni ed acquisire tutta la documentazione reperibile per verificare la sussistenza delle condizioni della protezione internazionale” (Cass., Sez. Un., 17 novembre 2008, n. 27310).
Accanto al c.d. dovere di cooperazione istruttoria, peraltro, la norma contempla un ulteriore aspetto tale da comprimere, ben maggiormente, il principio dispositivo, di quanto non faccia la semplice attribuzione all’autorità esaminante di poteri istruttori officiosi, poteri ampiamente conosciuti in altri ambiti dell’ordinamento, basti pensare alla previsione dell’art. 421 c.p.c., giacchè consente altresì di porre a base del riconoscimento della protezione internazionale fatti che provati non sono, alla sola condizione che ricorrano le condizioni considerate dall’art. 3, comma 5 in esame.
2.1.5. – Facendo il punto di quanto finora si è detto, è quindi palese:
i) da un lato che l’attenuazione del principio dispositivo in cui la c.d. “cooperazione istruttoria” consiste si collochi non dal versante dell’allegazione, ma esclusivamente da quello della prova: chè, anzi, l’allegazione deve essere adeguatamente circostanziata, secondo quanto si è già visto;
ii) dall’altro lato che il dovere di cooperazione istruttoria, collocato esclusivamente dal versante probatorio, trova per espressa previsione normativa un preciso limite tanto nella reticenza del richiedente (in ciò risolvendosi l’omissione di uno sforzo ragionevole per circostanziare i fatti) quanto nella non credibilità delle circostanze che egli pone a sostegno della domanda.
Si tratta quindi di deficienze, reticenza e non credibilità, parimenti riferibili al quadro delle allegazioni, di guisa che, intanto si concretizza il dovere di cooperazione istruttoria, in quanto si sia in presenza di allegazioni precise, complete, circostanziate e credibili, e non invece generiche, non personalizzate, stereotipate, approssimative e, a maggior ragione, non credibili.
Compete insomma al richiedente innescare l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria. Per il che egli non incontra peraltro difficoltà alcuna, ove la sua narrazione sia vera e reale: gli basterà descrivere in dettaglio la sua vicenda, integrando se del caso la narrazione attraverso le risposte alle domande eventualmente rivoltegli.
La soggezione del richiedente alla valutazione di credibilità, per lo scopo dell’innesco del c.d. dovere di cooperazione istruttoria, lungi del resto dal comprimere o limitare l’esercizio del diritto alla protezione internazionale, ne costituisce viceversa intensa agevolazione: a fronte della regola generale dettata dal citato art. 2697 c.c., in forza del quale l’attore è onerato della prova dei fatti costitutivi della domanda, la speciale disciplina dettata in materia di protezione internazionale offre al richiedente, come si è visto, non solo di cooperare con lui nella ricerca di quelle prove che egli non abbia potuto offrire, ma finanche di credergli pur in difetto di prova.
E di credergli, però, se sia credibile: nel che il controllo di credibilità – sia ai fini dell’innesco del dovere di c.d. cooperazione istruttoria, sia perchè fatti non provati possano essere considerati veritieri – non può che essere adeguatamente penetrante, dal momento che esso è l’unico strumento che l’ordinamento si riserva al fine di scongiurare un troppo comodo uso strumentale della normativa in discorso.
Nè ha ragione di essere paventato il pericolo che la valutazione di credibilità si risolva in facile usbergo affidato alla Commissione territoriale, e poi al giudice di merito, per omettere di dar corso agli approfondimenti istruttori che il caso richiede. E’ difatti agevole rammentare che, in tema di protezione internazionale e umanitaria, la valutazione di credibilità delle dichiarazioni del richiedente non è affidata alla mera soggettiva ed insindababile opinione del giudice, ma è il risultato di una procedimentalizzazione legale della decisione, da compiersi non sulla base della mera mancanza di riscontri oggettivi, ma alla stregua dei criteri indicati nell’art. 3, comma 5, della norma richiamata, tenendo conto “della situazione individuale e della circostanze personali del richiedente”, con riguardo alla sua condizione sociale e all’età, non potendo darsi rilievo a mere discordanze o contraddizioni su aspetti secondari o isolati (p. es. tra le tante Cass. 14 novembre 2017, n. 26921), fermo restando, infine, che la valutazione di credibilità è sottoposta, sul piano motivazionale, al controllo, in sede di legittimità, dell’osservanza del “minimo costituzionale”.
2.1.6. – In definitiva, il dovere di cooperazione istruttoria non si concretizza qualora lo stesso richiedente abbia palesato il proprio intento, non già di muoversi nell’ottica della cooperazione, ma di strumentalizzare la normativa invocata. Soluzione, quella prospettata, pienamente armonica con la direttiva 2011/95-CE, secondo cui il richiedente è “tenuto a produrre quanto prima tutti gli elementi necessari per motivare la domanda di protezione internazionale” (art. 4), dal che si trae conferma che il dovere di cooperazione istruttoria non sorge affatto in caso dichiarazioni soggettivamente non credibili.
2.1.7. – Tale impostazione, risultante dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 riferito alla protezione internazionale nel suo complesso, si attaglia come tale tanto alla domanda volta al conseguimento dello status di rifugiato, quanto a quella diretta ad ottenere la protezione sussidiaria in ciascuna delle tre ipotesi contemplate dall’art. 14 dello stesso D.Lgs.: non solo il complesso normativo non offre cioè alcun appiglio per ritenere che il congegno riassunto nel citato art. 3, che ruota sulla credibilità del richiedente, non si applichi parimenti alla protezione sussidiaria con riguardo a tutte le sue declinazioni, ma, anzi, il riferimento contenuto in tale disposizione al complesso degli “elementi significativi della domanda”, quale che essa sia, rende manifesto che la stessa si riferisce indistintamente tanto allo status di rifugiato quanto alla protezione sussidiaria.
Con riguardo a quest’ultima, merita del resto evidenziare che la normativa ad essa specificamente riferita non interviene sull’area già governata dal D.Lgs. richiamato, art. 3. Il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. g) e h), conformemente al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2, comma 1, lett. f) e g) definisce “persona ammissibile alla protezione sussidiaria” il “cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel Paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno come definito dal presente decreto e il quale non può, o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese”.
La definizione di “danno grave” è fornita poi dal successivo art. 14 il quale lo identifica: a) nella condanna a morte; b) nella tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante; c) nella minaccia grave e individuale alla vita derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.
L’art. 14 ora menzionato, dunque, si limita ad individuare i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, ma, come osservato, nulla aggiunge al precetto, perciò anche ad essa riferibile, contenuto nella previsione in generale dettata dall’art. 3, del quale si è già dato conto.
2.1.8. – Va da sè che la domanda di protezione sussidiaria richiede la specifica allegazione, non reticente, ossia esaustiva, e credibile, nei termini prima illustrati, delle circostanze che ne legittimano l’accoglimento: condanna a morte, tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante, minaccia grave e individuale alla vita derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.
Specifica allegazione a fronte della quale il dovere di cooperazione istruttoria può d’altronde intrinsecamente operare – è essenziale per completezza precisare – solo con riguardo agli aspetti che attengono alla verifica della situazione obbiettiva del paese di origine, e non alle individuali condizioni del soggetto richiedente: nel che il c.d. dovere di cooperazione istruttoria – come nel caso in esame – incontra un evidente intrinseco limite ulteriore.
In particolare (v. Cass. 31 maggio 2018, n. 14006; Cass. 31 maggio 2018, n. 13858), questa Corte ha già avuto modo di chiarire che, in tema di protezione sussidiaria dello straniero, prevista nella già citata fattispecie contemplata dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), l’ipotesi della minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale implica, alternativamente:
-) una contestualizzazione della minaccia suddetta, in rapporto alla situazione soggettiva del richiedente, laddove il medesimo sia in grado di dimostrare di poter essere colpito in modo specifico, in ragione della sua situazione personale;
-) la dimostrazione dell’esistenza di un conflitto armato interno nel Paese o nella regione, caratterizzato dal ricorso ad una violenza indiscriminata, che raggiunga un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile, rientrato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione, correrebbe, per la sua sola presenza su quel territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia.
Ne deriva che, mentre il giudice è anche d’ufficio tenuto a verificare – elettivamente, ma non esclusivamente, attraverso lo scrutinio dei c.d. c.o.i., country of origin informations – se nel paese di provenienza sia oggettivamente sussistente una situazione di violenza indiscriminata talmente grave da costituire ostacolo al rimpatrio del richiedente, egli non può essere chiamato – nè d’altronde avrebbe gli strumenti per farlo – a supplire a deficienze probatorie concernenti la situazione personale del richiedente, dovendo a tal riguardo soltanto effettuare la verifica di credibilità prevista nel suo complesso dal già citato art. 3, comma 5.
2.1.9. – Traendo le fila, come questa Corte ha già avuto modo di osservare (v. in particolare Cass. 20 dicembre 2018, n. 33096; Cass. 19 febbraio 2019, n. 4892, ed i precedenti ivi richiamati), il citato art. 3 delinea un preciso iter logico che deve essere seguito nella valutazione della domanda di protezione internazionale, sia volta al riconoscimento dello status di rifugiato, sia volta al riconoscimento della protezione sussidiaria, ivi compresa l’ipotesi, prevalentemente ricorrente nella pratica, disciplinata dal ricordato art. 14, lett. c):
-) il giudice di merito deve anzitutto verificare la credibilità soggettiva della narrazione proveniente dal richiedente circa l’esposizione a rischio grave alla vita o alla persona;
-) qualora le dichiarazioni siano giudicate inattendibili, alla stregua degli criteri di valutazione previsti dallo stesso art. 3, non occorre procedere ad alcun ulteriore approfondimento istruttorio officioso concernente la situazione del Paese di origine, a meno che, come pure è stato chiarito, l’esito negativo del giudizio di veridicità sia esclusivamente riconducibile all’impossibilità di fornire riscontri probatori (v. Cass. 26 luglio 2018, n. 16925).
2.1.10. – Quanto detto si riassume nei seguenti principi.
In materia di protezione internazionale, il richiedente è tenuto ad allegare in modo preciso, completo e circostanziato i fatti costitutivi del diritto alla protezione richiesta e, quindi, a pervenire alla dimostrazione dei fatti medesimi, trovando deroga il principio dell’onere della prova, a fronte di una esaustiva allegazione, attraverso l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria e di quello di tenere per veri i fatti che lo stesso richiedente non è in grado di provare, soltanto qualora egli, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda e ad aver compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla, superi positivamente il vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, comma 5.
In materia di protezione internazionale, il vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, comma 5, trova applicazione tanto con riguardo alla domanda volta al riconoscimento dello status di rifugiato, tanto con riguardo alla domanda di riconoscimento della protezione sussidiaria, in ciascuna delle ipotesi contemplate dall’art. 14 dello stesso D.Lgs., con la conseguenza che, ove detto vaglio abbia esito negativo, l’autorità incaricata di esaminare la domanda non deve procedere ad alcun ulteriore approfondimento istruttorio officioso, neppure concernente la situazione del Paese di origine.
In materia di protezione sussidiaria, con riferimento all’accertamento del rischio effettivo di subire un grave danno alla persona, nell’ipotesi contemplata dal D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. c), il dovere di cooperazione istruttoria desumibile dall’art. 3, comma 5, medesimo D.Lgs., ove reso possibile dal positivo vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati dalla norma, impone al giudice di verificare – in via preferenziale, ma non esclusiva, attraverso lo scrutinio dei c.d. c.o.i., country of origin informations – se nel paese di provenienza sia oggettivamente sussistente una situazione di violenza indiscriminata talmente grave da costituire ostacolo al rientro del richiedente, ma non di supplire a deficienze probatorie concernenti la situazione personale del richiedente, essendo necessaria al riguardo soltanto la verifica di credibilità prevista nel suo complesso dal già citato art. 3, comma 5.
2.1.11. – Tanto premesso in iure, non resta se non osservare che il giudice di merito, come si è premesso, ha affermato che la domanda del richiedente, il quale aveva sostenuto di essersi allontanato dal ***** perchè accusato ingiustamente di un omicidio politico, era anzitutto inammissibile per la sua genericità (pagina 6 della sentenza impugnata), non essendo stato tra l’altro egli in grado di riferire i principi a cui si ispirava il partito politico al quale diceva di appartenere, nè la sua organizzazione, nè il ruolo che rivestiva all’interno di essa (pagina 7). Per l’effetto, ha affermato la Corte territoriale, “le vicende narrate dal ricorrente… Appaiono del tutto inattendibili: egli si limita, difatti, a motivare la propria fuga per sottrarsi alla giustizia del suo paese. Inoltre il suo racconto è assolutamente generico per quanto riguarda le circostanze di luogo, di tempo, delle persone eccetera circa i fatti narrati” (pagina 9).
Orbene, siffatta ratio decidendi, di per sè sola sufficiente a sostenere la decisione impugnata, non è stata specificamente censurata, sicchè la pronuncia impugnata deve in parte qua sol per questo rimanere ferma.
3. – Le spese seguono la soccombenza. Non sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato, essendo stato ammesso il ricorrente al patrocinio a spese dello Stato.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso, in favore del controricorrente, delle spese sostenute per questo giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 2.100,00, oltre alle spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della prima sezione civile, il 9 maggio 2019.
Depositato in Cancelleria il 12 giugno 2019