LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –
Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –
Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –
Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –
Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
Sul ricorso 29259/2017 proposto da:
O.E., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE CARSO 23, presso lo studio dell’avvocato MARIA ROSARIA DAMIZIA, rappresentata e difesa dall’avvocato SILVIA PAOLANTONI giusta procura speciale a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
ESSE EMME CONSULTING SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore Dott. M.A., S.E., domiciliati ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentatati e difesi dall’avvocato MAURO DALLA CHIESA giusta procura speciale in calce al controricorso;
– controricorrente –
e contro
S.E.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 1804/2017 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 02/05/2017;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/03/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PATRONE IGNAZIO, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;
udito l’Avvocato MARIA ROSARIA DAMIZIA per delega orale;
udito l’Avvocato MAURO DALLA CHIESA.
FATTI DI CAUSA
La Corte d’appello di Milano, con sentenza 2.5.2017 n. 1804, ha rigettato l’appello proposto da O.E. e confermato la decisione n. 632/2015 del tribunale di Varese che aveva ritenuto infondata la domanda di condanna al risarcimento del danno per responsabilità professionale proposta dall’ O. nei confronti di ESSE EMME Consulting s.r.l. e del legale rapp.te della stessa Dott.ssa S.E., cui il primo si era rivolto per farsi assistere nella definizione della lite potenziale insorta con l’Agenzia delle Entrate in seguito a notifica, in data 5.12.2003, di avviso di accertamento in rettifica, ai fini IRPEF, dei maggiori redditi rispetto a quelli indicati dal contribuente, quale socio della BED s.n.c., nella dichiarazione relativa al periodo d’imposta 1998.
Il Giudice di appello ha affidato la decisione ad un duplice ordine di ragioni:
1-la impugnazione si palesava inammissibile nella parte in cui (affermando quale condotta imputabile a colpa l’omessa indicazione a BED s.n.c. di effettuare il perfezionamento del condono in data anteriore al 3.2.2004, data in cui l’avviso di accertamento al socio diveniva definitivo) immutava alla originaria domanda che aveva dedotto quale condotta negligente la colpevole inerzia della professionista nel presentare, dopo la notifica dell’avviso al socio, la domanda di condono L. n. 289 del 2002, ex art. 15 e quindi la omessa impugnazione della sentenza della CTP di Varese che respingeva la opposizione avverso la cartella di pagamento.
2-in ogni caso, a prescindere dal rilievo di inammissibilità, era da condividersi l’accertamento compiuto dal primo giudice che, in relazione tanto alla domanda principale quanto alla domanda subordinata – che dalla prima si distingueva soltanto per la riduzione del quantum chiesto a titolo risarcitorio -, aveva ritenuto insussistente una condotta negligente del professionista per non avere questi reso noto ai soci che avrebbero potuto beneficiare della istanza di condono della società di persone, ai sensi della L. n. 289 del 2002, art. 15 solo se il perfezionamento della procedura, con il pagamento della prima rata effettuato dalla società, fosse avvenuto in data anteriore alla definitività dell’avviso notificato al singolo socio, atteso che:
a) la legge di proroga evidenziava un testo normativo che non consentiva di comprendere nella disciplina condonistica anche la ipotesi – ricorrente nella specie – dell’avviso di accertamento notificato in data successiva alla entrata in vigore (1.1.2003) della L. n. 289 del 2002, nonostante fosse emesso in base alle risultanze di un PVC elevato e consegnato – o notificato – in data 29.5.2001 alla BED s.n.c., anteriormente a tale data: e tale soluzione era stata accolta dalla Corte costituzionale con la ordinanza 7.4.2006 n. 145, cui si era conformata la decisione della CTP di Varese n. 71 in data 24.5.2006 con la quale era stato rigettato il ricorso proposto dall’ O. avverso la cartella di pagamento: la originaria incertezza interpretativa della norma e la successiva soluzione adotta dal Giudice delle Leggi, escludeva un errore professionale ascrivibile a colpa, dovendosi altresì rilevare che era stata la BED s.n.c. a ritardare fino all’ultimo giorno utile il perfezionamento del condono, sicchè alla stessa dovevano essere imputati eventuali pregiudizi subiti dal socio;
b) non vi era prova di contratto d’opera professionale instaurato tra l’ O. ed il professionista o la società EMME ESSE Consulting, avente ad oggetto la definizione del rapporto d’imposta facente capo al singolo socio, sicchè non poteva ravvisarsi alcun inadempimento nella omessa impugnazione dell’avviso di accertamento: condotta omissiva che, in ogni caso, risultava priva di efficienza causale, in quanto il socio, avuto riguardo alla espressa previsione di legge, non avrebbe comunque potuto beneficiare del condono.
La Corte territoriale, inoltre, rilevava che non era devoluta al proprio esame la questione relativa al rigetto della eccezione di prescrizione presuntiva del credito per compensi professionali, nonchè della statuizione di condanna al pagamento della sanzione ex art. 96 c.p.c., comma 3, non avendo l’appellante specificamente chiesto nelle conclusioni dell’atto di appello la riforma di tali capi della decisione impugnata, venendo poi ad esaminare egualmente nel merito tali motivi che rigettava in quanto: a) la eccezione ex art. 2959 c.c. era da ritenersi infondata, stante la ammissione dell’ O. che la obbligazione non era stata estinta, ed attesa la prova delle prestazioni d’opera eseguite da EMME ESSE Consulting s.r.l. nella tenuta della contabilità a favore del socio fino all’anno 2007 e dalla S. nel giudizio tributario svoltosi avanti la CTP di Varese; b) la condotta processuale dell’ O. era stata improntata a colpa grave avendo egli fondata la difesa in giudizio su allegazioni palesemente inveritiere.
La sentenza di appello non notificata è stata ritualmente impugnata per cassazione con tredici motivi da O.E..
Resistono con controricorso gli intimati.
Il ricorrente ha depositato memoria illustrativa ex art. 378 c.p.c..
RAGIONI DELLA DECISIONE
p. 1. Primo motivo: violazione art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.
Sostiene il ricorrente che la Corte d’appello avrebbe travisato le allegazioni svolte a supporto della domanda introduttiva in primo grado, atteso che la condotta negligente dei convenuti andava ravvisata non nella mancata presentazione della autonoma domanda di condono relativa alla posizione del socio, ma nella omessa informazione che solo il perfezionamento tempestivo del condono richiesto da BED s.n.c. – con il versamento delle relative somme prima che gli avvisi di accertamento divenissero definitivi – “avrebbe estinto anche la posizione debitoria di tutti i singoli soci” (ricorso pag. 18). Aggiunge ancora di aver consegnato alla professionista la cartella di pagamento successivamente notificatagli e che il giudizio tributario introdotto avanti la CTP di Varese si era concluso con il rigetto del ricorso, in quanto la domanda di condono L. n. 289 del 2002, ex art. 15 era stata tardivamente proposta dopo che l’avviso di accertamento era divenuto definitivo. Pertanto alcuna immutazione di domanda si era verificata con i motivi di gravame dedotti con l’atto di appello.
Il motivo è fondato.
Nel caso di denuncia di vizio di nullità processuale, il ricorrente è tenuto ad assolvere ai requisiti di ammissibilità dei motivi di ricorso, prescritti dall’art. 366 c.p.c. (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 8077 del 22/05/2012; id. Sez. 1, Sentenza n. 9888 del 13/05/2016; id. Sez. 3 -, Ordinanza n. 6014 del 13/03/2018): pertanto qualora venga dedotto il vizio per omessa pronuncia su una o più domande avanzate in primo grado è necessario, al fine dell’ammissibilità del ricorso per cassazione, la specifica indicazione dei motivi sottoposti al giudice del gravame sui quali egli non si sarebbe pronunciato, essendo in tal caso indispensabile la conoscenza puntuale dei motivi di appello (cfr. Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 26234 del 02/12/2005; id. Sez. 2, Sentenza n. 6361 del 19/03/2007; id. Sez. L, Sentenza n. 14561 del 17/08/2012; id. Sez. 2, Sentenza n. 17049 del 20/08/2015; id. Sez. 3 -, Ordinanza n. 6014 del 13/03/2018).
Orbene il ricorrente, ha riportato il contenuto della domanda introduttiva del giudizio (ricorso pag. 16-17), nonchè della memoria ex art. c.p.c., comma 6, n. 1) (ricorso pag. 18), dalla quale emerge chiaramente come tra i profili di responsabilità contrattuale contestati vi fosse anche quello concernente l’assicurazione fornita dalla professionista che il condono fiscale ottenuto della società di persone avrebbe esteso i suoi effetti sugli atti impositivi notificati ai soci, non essendo dato ravvisare pertanto alcuna innovazione nei fatti di responsabilità – come rilevati dal Giudice di appello in sentenza, in motiv. pag. 7 – nel motivo di gravame proposto con l’atto di appello.
La fondatezza del motivo non determina tuttavia la cassazione della sentenza impugnata, atteso che la Corte d’appello ha esaminati comunque i motivi di gravame anche nel merito, ritenendoli infondati anche in relazione alla doglianza concernente il tardivo perfezionamento del condono eseguito dalla BED s.n.c. con il versamento degli importi dovuti soltanto l’ultimo giorno utile in data 16.4.2004 (cfr. sentenza in motiv. pag. 7 “Anche a prescindere dal correlativo rilievo di inammissibilità ex art. 345 c.p.c., le doglianze di parte appellante sono comunque infondate nel merito”).
p. 2. Secondo motivo: violazione e falsa applicazione della L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 15 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Terzo motivo: violazione art. 1176 c.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Quarto motivo: violazione e falsa applicazione della L. n. 289 del 2002, art. 15 e dell’art. 1176 c.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Sesto motivo (omesso esame di fatto decisivo in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).
2.1 Sostiene il ricorrente di avere, fin dal primo grado, fondato l’addebito mosso alla EMME ESSE Consulting s.r.l. ed alla Dott.ssa S. esclusivamente sul mancato tempestivo perfezionamento del condono della società in quanto, come asserito dalla professionista tale condono avrebbe “privato di efficacia” gli avvisi di accertamento notificati ai singoli soci, tacendo tuttavia l’aspetto essenziale per cui solo se il condono fosse stato effettuato prima del decorso del termine di decadenza per la impugnazione di detti avvisi, ne avrebbero potuto beneficiare anche i singoli soci. Contesta la statuizione della sentenza di appello che ha ritenuto non provato il conferimento alla Dott.ssa S. del mandato a proporre istanza di condono a favore del socio o ad impugnare l’avviso di accertamento, deducendo che il fatto di inadempimento atteneva non a tali incarichi, mai conferiti, ma al rapporto di consulenza, avendo colpevolmente taciuto la professionista la necessità che il versamento della prima rata richiesto dalla legge per perfezionare il condono fosse effettuato dalla società prima della scadenza del termine di impugnazione degli avvisi di accertamento (primo e sesto motivo).
Critica la sentenza impugnata nella parte in cui avrebbe ancorato la insussistenza della condotta negligente del professionista ad oggettivi dubbi interpretativi della norma sul condono, formatisi in seno alla stessa Agenzia delle Entrate, in ordine all’effetto estensivo del condono chiesto dalle “società di persone”, nei confronti delle quali fossero stati elevati PVC “condonabili” ex lege n. 289 del 2002, anche ai tributi IRPEF dovuti dai soci per i redditi di partecipazione derivanti dalla attività d’impresa svolta dalla società (circolare AE n. 12/E del 21.3.2003), atteso che alcuna indicazione forniva detta circolare circa la preclusione al condono dell’avviso divenuto definitivo, preclusione che, pertanto, non era da ritenere dubbia ed era stata soltanto chiarita dalla successiva circolare del 17.12.2004, mentre la Corte costituzionale nella ordinanza n. 245/2006 non aveva esaminato tale questione ma quella differente se la sospensione dei termini per impugnare gli atti impositivi fosse da applicare solo per gli accertamenti relativi al periodo di imposta anno 2002: conseguentemente andava affermata e non esclusa la responsabilità contrattuale di EMME ESSE Consulting s.r.l. e di S.E. (secondo motivo).
In ogni caso, aggiunge il ricorrente, qualora l’incertezza interpretativa fosse stata effettivamente rilevante, la Corte distrettuale avrebbe dovuto tanto più ravvisare la condotta colpevole, in quanto la professionista avrebbe allora dovuto prudentemente operare in modo da non pregiudicare gli esiti favorevoli degli effetti fiscali del condono, o definendo la procedura di condono della società prima della definitività degli avvisi, o consigliando i soci di pagare l’importo rettificato onde evitare di incorrere nelle sanzioni e negli interessi di mora (terzo motivo). Tale omissione avrebbe determinato il danno patrimoniale lamentato, esteso – diversamente da quanto affermato dal Giudice di appello – anche alla somma capitale riguardante l’ammontare delle imposte, indicata nell’avviso di accertamento, e non soltanto alle sanzioni pecuniarie tributarie (quarto motivo).
2.2 I motivi secondo, terzo, quarto e sesto, che per la stretta connessione logica possono essere esaminati congiuntamente, sono tutti infondati.
2.3 L’accertamento del Giudice di appello fa leva sulla scusabilità dell’errore interpretativo della norma sul condono, evidenziato anche dalle richiamate circolari della Agenzia delle Entrate, per poi pervenire al giudizio di irrilevanza causale della condotta della professionista sulla determinazione del danno – lamentato dal ricorrente.
Come si evince dalla parziale trascrizione della circolare n. 12/E del 21.3.2003, riportata nella motivazione della sentenza impugnata (pag. 9), il dubbio che si palesava atteneva al condono dei processi verbali di constatazione (PVC) notificati alla società di persone, e più precisamente all’eventuale effetto estensivo del condono effettuato dalla società (con riferimento ai suoi tributi: IVA ed IRAP) a favore anche dei singoli soci (in relazione ai loro distinti tributi IRPEF). Ad una originaria apertura in tal senso, la Agenzia delle Entrate aveva poi fatto seguire il diverso orientamento inteso a salvaguardare la autonomia dell’avviso di accertamento rispetto al PVC.
Orbene tale incertezza interpretativa, diversamente da quanto opinato dal ricorrente, riverberava certamente i suoi effetti nella fattispecie concreta, in cui veniva in questione la procedura di condono ex lege n. 289 del 2002, art. 15, del PVC elevato nei confronti della BED s.n.c., notificato o consegnato in data 29.5.2001, condono che non era, invece, praticabile in relazione agli avvisi di accertamento in quanto notificati in data 5.12.2003 – dunque oltre il termine dell’1.1.2003 di entrata in vigore della L. n. 289 del 2002 – alla società ed ai soci (L. n. 289 del 2002, art. 15, comma 1 “….i processi verbali di constatazione relativamente a quali, alla data di entrata in vigore della presente legge, non è stato notificato avviso di accertamento ovvero ricevuto invito al contraddittorio, possono essere definiti secondo le modalità previste dal presente articolo….”). In relazione quindi a tale problematica il Giudice di appello ha verificato la condotta tenuta dalla professionista con riferimento ad entrambe le diverse versioni dei fatti formulate, secondo il Giudice di appello, dal ricorrente, rispettivamente nell’atto di citazione e nell’atto di appello: 1-) del mancato “suggerimento” che il perfezionamento del condono del PVC, notificato alla società di persone, dovesse effettuarsi in data anteriore al decorso del termine di decadenza per la impugnazione avanti il Giudice tributario degli avvisi di accertamento rivolti ai singoli soci, ovvero 2-) della mancata presentazione di autonome istanze di condono in favore del singolo – socio (vedi sentenza appello, in motivaz. pag. 6, pag. 9, pag. 12).
La Corte distrettuale ha correttamente rilevato come i dubbi prospettati, venuti in rilievo anche a seguito alle ripetute leggi di proroga dei termini per il perfezionamento del condono, avevano determinato la rimessione della questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3 Cost. del combinato disposto della L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 15(Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato legge finanziaria 2003), e della L. 24 dicembre 2003, n. 350, art. 2, comma 48, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2004), nella parte in cui non prevede che la “sospensione” dei termini di impugnazione sino al 19 aprile 2004 sia applicabile con riguardo anche ai ricorsi avverso gli avvisi di accertamento concernenti periodi d’imposta anteriori al 2002, notificati dopo il 1 gennaio 2003 e che traggono origine da processi verbali di constatazione anteriori al 1 gennaio 2003. Questione ritenuta infondata dal Giudice delle Leggi che ha interpretato la norma statuendo “che in conclusione, per uno stesso periodo d’imposta “anteriore al 2002", mentre l’avviso di accertamento per il quale alla data del 1 gennaio 2003 non sono ancora spirati i termini di impugnazione è suscettibile di condono ed è impugnabile fino al 19 aprile 2004, viceversa, l’avviso di accertamento notificato successivamente al 1 gennaio 2003 – come è avvenuto nel caso di specie – non è suscettibile di condono ed è impugnabile nei termini ordinari” (cfr. Corte costituzionale, ordinanza n. 145/2006, in motivazione).
Individuata, pertanto, la esigenza interpretativa che poneva la norma sul condono (non coglie invece la indicata “ratio decidendi” della Corte costituzionale il ricorrente, avendo erroneamente inteso che la questione attenesse soltanto alla sospensione dei termini di ricorso asseritamente applicabile “ai crediti relativi al periodo di imposta 2002”), tale questione risultava evidentemente decisiva ai fini della verifica della incidenza eziologica del prospettato errore professionale consistito nel “ritardato” perfezionamento della procedura di condono di cui si era avvalsa la BED s.n.c..
2.4 L’assunto del ricorrente secondo cui, se il perfezionamento della procedura di definizione agevolata fosse intervenuto anteriormente alla data 3.2.2004 (definitività dell’avviso di accertamento notificato al socio), gli effetti del condono ottenuto dalla società si sarebbero estesi automaticamente anche agli accertamenti effettuati nei confronti dei singoli soci, non trova, infatti, alcun fondamento normativo.
Occorre osservare in proposito che il disposto del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 5, prevede che il reddito delle “società di persone” sia imputato a ciascun socio proporzionalmente alla quota di partecipazione agli utili ed indipendentemente dalla effettiva percezione, sia che si tratti di reddito dichiarato dalla società, sia che si tratti di reddito accertato dall’Ufficio.
In tema di imposta sui redditi, infatti, l’accertamento che è alla base della rettifica delle dichiarazioni dei redditi delle società di persone e delle associazioni di cui al D.P.R. 22 dicembre, n. 917, art. 5 e dei soci delle stesse, ha carattere unitario e riguarda inscindibilmente sia la società che tutti i soci salvo il caso in cui questi prospettino questioni personali -, avendo ad oggetto non singole posizioni debitorie, ma la fattispecie costitutiva dell’obbligazione tributaria, composta da elementi comuni.
Ne consegue che in caso di accertamento notificato alla società, il socio che non abbia dichiarato, per la parte di sua spettanza, il reddito societario nella misura risultante dalla rettifica operata dall’Amministrazione finanziaria a carico della società, è tenuto al pagamento del supplemento d’imposta (Corte cass. SS.UU. 8 gennaio 1993, n. 125; Cass. 25 febbraio 2002, n. 2699; 28 giugno 2002, n. 9461, in materia di ILOR).
Il reddito imponibile di cui all’art. 6 TUIR non immuta la sua natura tanto se l’esatta determinazione del suo ammontare consegua ad accertamento dell’Ufficio, quanto se derivi dalla dichiarazione del contribuente, quanto infine se derivi da accertamento al quale abbia aderito il contribuente, con la – conseguenza che, anche nel caso di “concordato tributario”, l’intervenuta definizione della lite nei confronti della società ai sensi del D.L. n. 564 del 1994 conv. in L. n. 656 del 1994, comporta che al socio deve essere attribuita per la medesima annualità, la quota parte dell’imponibile risultante dalla imposta versata dalla società per la definizione della lite fiscale, costituendo l’imputazione al socio della quota parte del reddito della società corretta applicazione del disposto del sopra citato art. 5 T.U.I.R. (cfr. Cass. 13186/2000; Corte cass V sez. 8.7.2005 n. 14418; id. 4.11.2008 n. 26476; id. 17.12.2008 n. 28448 -che escludono altresì che il disposto del D.L. n. 79 del 1997, art. 9 bis, comma 17, possa costituire limite al principio di trasparenza, in quanto norma rivolta esclusivamente ai soggetti che hanno aderito alla proposta e non anche ai soci rimasti estranei-). Al riguardo è stato, infatti, chiarito come “in tema di imposte sui redditi, il D.L. 28 marzo 1997, n. 79, art. 9-bis, comma 18, convertito, con modificazioni, nella L. 28 maggio 1997, n. 140, disponendo che “l’intervenuta definizione da parte delle società od associazioni di cui al testo unico sulle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 5 (…) costituisce titolo per l’accertamento, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 41-bis e successive modificazioni e integrazioni, nei confronti delle persone fisiche che non hanno definito i redditi prodotti in forma associata”, non ha contenuto innovativo dell’ordinamento tributario, ma costituisce esplicazione del principio stabilito dal D.P.R. n. 917 cit., art. 5 secondo il quale i redditi delle società personali sono imputati a ciascun socio, indipendentemente dalla percezione, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili, con la conseguenza che, anche in base al concordato definito entro il 15 dicembre 1995 in forza del D.L. n. 564 del 1994, art. 3 convertito in legge, con modificazioni, nella L. n. 656 del 1994, deve ritenersi consentito l’accertamento in capo ai singoli soci della rispettiva quota del reddito concordato dalla società” (cfr. Corte cass. V sez. 29.10.2008 n. 25941; id. 7.9.2010 n. 19137).
Ed ancora sempre in tema di determinazione “concordata” del reddito d’impresa della società di persone si è ribadito che, in tema di imposte sui redditi, il reddito della società di persone, divenuto incontestabile a seguito della definizione agevolata di cui al D.L. n. 79 del 1997, art. 9-bis conv., con modif., dalla L. n. 140 del 1997, costituisce titolo per l’accertamento a carico del socio ed il “consenso” della società prestato ai fini della definizione agevolata vincola il socio, rispetto alla quantificazione dei redditi da partecipazione perchè, non controvertendosi della qualità di socio ovvero della quota a ciascuno spettante ma, unicamente, degli effetti della detta definizione da parte della società su ciascun socio, ognuno di essi può opporre, soltanto ragioni di impugnativa specifiche e quindi di carattere personale (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 2827 del 09/02/2010; id. Sez. 5, Sentenza n. 22188 del 27/09/2013; id. Sez. 5, Sentenza n. 14490 del 15/07/2016; id. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 28007 del 23/11/2017).
Diversamente dalla dichiarazione o dall’accertamento della materia imponibile della società di persone, per cui trova applicazione il principio di “trasparenza” previsto dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 5TUIR, non si verifica alcuna trasposizione automatica – sulla situazione imponibile dei soci – degli effetti della procedura di definizione agevolata prevista dalla L. n. 289 del 2002, art. 15 di cui si sia avvalsa la società di persone. In tal caso, infatti, questa Corte ha specificato che “in tema di condono fiscale, la presentazione di dichiarazione integrativa da parte di una società di persone non comporta, nei confronti dei soci, preclusioni alla Amministrazione fiscale nell’accertamento dei redditi di partecipazione da loro percepiti, in quanto la formulazione della domanda di tale beneficio costituisce l’esercizio di un diritto dei contribuenti, lasciato al libero e personale apprezzamento di ciascuno di essi, conseguendone, pertanto, l’irrilevanza, ai fini IRPEF, del condono fruito dalla società rispetto ai soci che abbiano scelto di non avvalersene ed il diritto-dovere dell’amministrazione di procedere ad accertamento nei loro confronti” (cfr. Corte cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 7134 del 26/03/2014; id. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 14858 del 20/07/2016, in relazione alla procedura di definizione – agevolata delle liti pendenti L. n. 289 del 2002, ex art. 16). Corrispondentemente è stato affermato che “in tema di redditi da partecipazione societaria, il socio di società di persone, in quanto titolare di una soggettività tributaria autonoma rispetto a quella della società, ha il potere, non solo di contestare il reddito di partecipazione ad esso attribuito dal fisco in funzione di quello determinato (ai fini Ilor o Irap) nei confronti della società, ma anche di presentare, indipendentemente dalla società, istanza di condono” avvalendosi in tal modo della facoltà di sanare la sua posizione tributaria (cfr. Corte cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 23168 del 04/10/2017).
Ne segue che, se il singolo socio è legittimato ad impugnare l’avviso di accertamento dei maggiori redditi notificato alla società di persone (in quanto tale accertamento riflette la medesima base imponibile del reddito di impresa, tanto ai fini delle imposte dovute dalla società – IVA, IRAP od ILOR -, quanto delle imposte dovute dai soci – IRPEF -), ed il relativo giudizio richiede il litisconsorzio necessario tra società e soci (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 14815 del 04/06/2008. Il vizio originario del contraddittorio è sanabile, sia in grado di appello che in sede di legittimità, anche attraverso la riunione dei separati giudizi promossi dalla società e dai singoli soci -Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 3830 del 18/02/2010; id. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 3789 del 15/02/2018 -, e l’eventuale inosservanza del necessario giudizio plurisoggettivo, non determina l’efficacia vincolante del giudicato nei confronti delle parti che non sono state chiamate a partecipare al giudizio: Corte cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 19013 del 27/09/2016), la definizione agevolata del rapporto tributario facente capo al singolo contribuente è invece rimessa alla esclusiva iniziativa di quest’ultimo, atteso che l’autonomia soggettiva dei contribuenti – società e singoli soci – impone agli stessi autonome scelte – quali: la proposizione del ricorso avanti le Commissioni tributarie o l’acquiescenza al maggiore accertamento fiscale o ancora la presentazione della istanza di condono ex lege n. 289 del 2002 – mediante condotte riferibili separatamente a ciascuno di essi, e dalle quali scaturiscono quindi effetti giuridici riconducibili alla distinta sfera patrimoniale di ciascun contribuente.
2.5 Pertanto il perfezionamento della procedura di condono, richiesto dalla società, L. n. 289 del 2002, ex art. 15, comma 1, quando anche fosse intervenuto in data anteriore alla scadenza del termine di decadenza per la impugnazione degli avvisi di accertamento notificati ai soci, non avrebbe potuto sortire alcun effetto estensivo favorevole rispetto alla posizione tributaria (ai fini IRPEF) di questi ultimi.
Conseguentemente va esente da errore la statuizione della Corte d’appello secondo cui la condotta della professionista -pur se improntata ad incertezza interpretativa della norma sul condono, e fondata sulla ipotesi, rivelatasi successivamente errata, per cui il condono conseguito dalla società avrebbe estinto anche le posizioni debitori dei singoli soci definite negli avvisi di accertamento loro notificati – doveva ritenersi del tutto priva di efficienza causale nella produzione del danno lamentato dal ricorrente, proprio perchè il contestato ritardo nel perfezionamento della procedura di condono chiesta dalla società risultava essere del tutto irrilevante rispetto alla preclusione ex lege (stabilita con riferimento al discrimine temporale della notifica dell’atto impositivo entro la data dell’1.1.2003) di ottenere per i singoli soci il condono dei maggiori componenti reddituali accertati con avvisi notificato il 5.12.2003.
2.6 Il ricorrente, peraltro, non indica neppure quale fosse la condotta alternativa che la professionista avrebbe dovuto correttamente tenere nell’adempimento della propria obbligazione contrattuale, atteso che:
– alcun PVC od avviso di accertamento era stato notificato ai soci anteriormente alla data limite dell’1.1.2003, stabilita dalla legge per poter richiedere il condono L. n. 289 del 2002, ex art. 15 mentre l’avviso di accertamento successivamente notificato ai soci in data 5.12.2003 non era condonabile “ratione temporis”;
– la definizione “anticipata” del condono del PVC richiesto dalla società, prima della scadenza del termine di impugnazione dell’avviso di accertamento, non avrebbe comunque, nè consentito una estensione degli effetti favorevoli del condono sul maggior tributo ai fini IRPEF preteso dalla Agenzia delle Entrate nei confronti dei soci, nè fondato un valido motivo di annullamento dell’avviso di accertamento notificato al socio, ove anche fosse stato tempestivamente impugnato avanti il Giudice tributario, essendo – come visto – precluso “ratione temporis” il condono di tale atto impositivo;
tenuto conto dello stato della giurisprudenza (al tempo dei fatti ancora non era stata elaborata dalla giurisprudenza di legittimità la tesi ricostruttiva del litisconsorzio necessario tra società e soci), e delle incertezze interpretative delle norme sul condono e sulle leggi di proroga (peraltro risolte solo in tempo successivo), in difetto di precedenti giurisprudenziali od indicazioni utili fornite dalla norma di legge o dalla Amministrazione finanziaria in ordine ad una legittimazione alternativa o cumulativa della società e dei singoli soci, titolari di distinti rapporti tributari, alla presentazione della istanza di condono relativa al PVC notificato il 29.5.2001 alla sola società (non essendo dato, peraltro, neppure verificare se lo stesso esaurisse l’accertamento dei maggiori ricavi d’impresa in relazione esclusivamente alla posizione tributaria della società – ai fini IVA ed IRAP – o invece ricomprendesse anche le quote di partecipazione dei singoli soci in relazione ai maggiori redditi imponibili ai fini IRPEF), neppure potrebbe astrattamente ipotizzarsi una condotta esigibile dal prestatore d’opera professionale intesa a spingersi fino allo svolgimento di una particolare indagine frutto di personale inventiva ed elaborazione giuridica del sistema tributario delle società di persone, tale da prospettare, attraverso la impugnazione dell’atto impositivo notificato al socio, eventuali sospetti di illegittimità costituzionale della norma sul condono in relazione alla fruibilità del beneficio fiscale – in relazione al PVC – solo da parte della società di persone e non anche dei singoli soci i cui redditi imponibili vengono ad essere determinati per trasparenza (questione, peraltro, che neppure la Corte costituzionale, nella ordinanza n. 145/2006, ha inteso rilevare), trattandosi di condotta non esigibile avuto riguardo al contesto normativo e giurisprudenziale del tempo e che, comunque, neppure è stata dedotta dal ricorrente come fatto di colpevole inadempimento;
il ricorrente non specifica – ed anzi ha sempre escluso di aver allegato tali profili di responsabilità professionale – se la professionista avrebbe dovuto presentare autonoma “domanda di condono” a favore del singolo socio unitamente a quella presentata dalla società, con esclusivo riferimento al PVC in data 29.5.2001, non fornendo alcuna argomentazione critica in ordine al rilievo per cui unica legittimata a definire in via agevolata la pretesa fiscale fosse esclusivamente la società nei cui confronti il PVC era stato elevato; analogamente il ricorrente limitandosi a negare (in quanto da lui non dedotto nell’atto di citazione) la rilevanza del profilo di responsabilità concernente la mancata proposizione del ricorso tributario avverso l’avviso di accertamento, non coglie la “ratio decidendi” della sentenza impugnata (in motivazione, pag. 12) secondo cui difettava del tutto la prova che, qualora la professionista si fosse attivata, si sarebbe pervenuti con certezza ad un risultato favorevole del giudizio di impugnazione dell’atto positivo.
p. 3. L’esame dei seguenti motivi di ricorso.
Il quinto motivo (violazione dell’art. 1172 c.c. e dell’art. 1776 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), con il quale il ricorrente censura l’affermazione del Giudice distrettuale secondo cui una responsabilità professionale potrebbe in astratto configurarsi solo nei confronti della Dott.ssa S. e non anche della EMME ESSE Consulting s.r.l.;
settimo motivo (violazione e falsa applicazione dell’art. 1176 c.c., comma 2, e dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), con il quale si critica la sentenza impugnata per non aver applicato correttamente la regola del riparto probatorio, gravando sul debitore, una volta contestato dal creditore l’inadempimento, la prova che la mancata od inesatta esecuzione della prestazione (identificata nella omessa informazione della necessità che il condono della società si perfezionasse in data anteriore a quella in cui gli avvisi di accertamento si erano resi definitivi) non era dovuta a colpa od era dipesa da oggettiva impossibilità non imputabile rimane assorbito nel rigetto per infondatezza dei precedenti motivi di ricorso, in quanto entrambi i motivi si fondano sul medesimo presupposto, confutato nelle considerazioni sopra svolte, che se il condono della società si fosse perfezionato anteriormente alla definitività degli avvisi di accertamento notificati, i soci ne avrebbero beneficiato degli effetti.
p. 4. Ottavo motivo: violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.
Nono motivo: violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e degli artt. 1176 e 2697 c.c., con riferimento alla domanda subordinata, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
4.1 I motivi possono essere esaminati congiuntamente.
Deduce il ricorrente che la Corte d’appello ritenendo che la domanda principale e quella subordinata proposte in primo grado si differenziassero esclusivamente per il petitum sostanziale in relazione all’ammontare del danno, era incorso in omessa pronuncia sulla domanda subordinata, e comunque invece fondata su altri fatti di inadempimento, cronologicamente successivi all’11.3.2005 data di notifica della cartella di pagamento: a) la inutile impugnazione avanti la CTP di Varese della cartella di pagamento con un ricorso “ab origine” destinato al rigetto; b) la omessa comunicazione dell’esito negativo di tale giudizio definito con la sentenza della CTP di Varese n. 71/2006; c) la ritardata consegna all’ O. ed al nuovo commercialista da quello incaricato, degli atti e documenti relativi al fascicolo di parte di detto giudizio. Condotte tutte integranti colpa professionale che avevano determinato un aggravio del danno patrimoniale. In ogni caso il Giudice di appello non aveva tenuto conto della lievitazione dell’importo dovuto dall’ O. nel periodo intercorso tra la notifica della cartella di pagamento in data 11.3.2005 e il provvedimento di fermo amministrativo sul proprio autoveicolo comunicato in data 29.5.2009 cui aveva fatto seguito l’istanza, poi accolta, di rateizzazione del debito tributario, documenti tutti prodotti in primo grado.
4.2 I motivi sono inammissibili per difetto del requisito di specificità ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4…
Dall’esame dell’atto di citazione (trascritto alle pag. 44-46 del ricorso) risulta che l’ O., aveva dedotto con la domanda subordinata nuovi fatti di inadempimento consistiti sia nella mancata informazione sull’esito del giudizio avente ad oggetto la impugnazione della cartella di pagamento, sia nella successiva condotta tenuta dalla professionista che, su richiesta in data 25.1.2007 del nuovo commercialista (studio D.M. ed A.) cui si era rivolto l’ O., aveva in data 28.3.2007 e 1.2.2008 trasmesso copie del modello unico relativo agli anni 2003-2005, nonchè copia della ricevuta di versamento della prima rata del condono, mentre non aveva evaso le richieste formulate, in data 25 marzo ed 11 luglio 2008, dal medesimo studio professionale, relative alla trasmissione di copia degli avvisi di accertamento e del “successivo” condono.
La Corte d’appello, pur avendo richiamato espressamente in sentenza le ulteriori condotte descritte, qualificate come inadempimento contrattuale dall’ O., ha poi concluso sostenendo che la minor richiesta risarcitoria concernente “la sola “misura di aggravi, penali ed interessi, maturati progressivamente durante l’intero lasso di tempo….”, comportava la mera “reiterazione da parte dell’ O. di questioni già affrontate ed inidonee…..a conferire fondatezza alla domanda risarcitoria..” (cfr. sentenza appello, in motivazione, pag. 13), con ciò non avvedendosi che, altro era la contestazione di inadempimento concernente la mancata informazione in ordine alla definizione della procedura di condono a favore della società prima che divenissero definitivi gli avvisi di accertamento (oggetto della domanda principale), altro invece era il distinto inadempimento contrattuale individuato nella omessa comunicazione dell’esito negativo del giudizio tributario di impugnazione della cartella e nel ritardo e nella mancata consegna di documenti relativi a tale giudizio ed alla intera vicenda tributaria (oggetto della domanda subordinata), produttivo del diverso pregiudizio patrimoniale consistito nell’incremento del “debito da mora”.
Tanto premesso, dall’esame dell’atto di citazione (trascritto alle pag. 44-46 del ricorso) risulta che, dopo la esposizione della cronologia dei fatti, l’attore muoveva all’operato della professionista la critica di non averlo informato del deposito della sentenza tributaria sfavorevole, così precludendogli la possibilità di “valutare una eventuale impugnazione della sentenza stessa…..utile qualora l’odierno attore avesse voluto presentare un’istanza di sgravio….” (cfr. atto citazione trascritto pag. 47 ricorso).
Orbene tale essendo il fatto-inadempimento contestato (omessa comunicazione del deposito della sentenza tributaria, con conseguente impedimento a valutare la opportunità di proporre impugnazione avanti la Commissione tributaria regionale), ne segue che il ricorrente avrebbe dovuto dedurre a supporto del motivo anche quale fosse la efficienza causale di tale condotta omissiva sul risultato utile che, invece, attraverso tale impugnazione il socio avrebbe potuto conseguire: sul punto la esposizione difetta di qualsiasi allegazione, risultando quindi il motivo di ricorso privo del requisito di specificità.
– Ad analoga conclusione si deve pervenire anche in relazione alla generica doglianza del ritardo o della mancata consegna, al nuovo studio professionale cui si era rivolto l’ O., dei documenti relativi al giudizio tributario e degli altri documenti concernenti l’avviso di accertamento ed il “successivo condono”. Ed infatti, premesso che neppure viene specificato quali fossero i documenti relativi al giudizio tributario in possesso della professionista, tanto meno venendo indicato quale fosse il “successivo” condono (non è chiaro se si tratti della ricevuta delle successive rate del condono o di una autonoma istanza di condono presentata dalla Dott.ssa S.), risulta del tutto omessa la individuazione del nesso causale tra tali ritardi od omissioni e la lievitazione degli importi dovuti dall’ O., non avendo quest’ultimo neppure allegato:
a) in che modo la indisponibilità dei predetti documenti integrasse elemento ostativo alla soluzione di una definizione del rapporto tributario con il pagamento della somme dovute al Fisco.
b) se, avuta la tempestiva disponibilità dei documenti in questione, il ricorrente avrebbe effettivamente optato per il pagamento immediato della imposta dovuta, o invece avrebbe comunque egualmente dilazionato ed omesso tale pagamento, tenuto conto del tempo (oltre un anno) trascorso dalla richiesta – e quindi dalla acquisizione diretta – della sentenza tributaria da parte del nuovo commercialista A. e la istanza di rateizzazione del debito, e tenuto conto altresì della protrazione dell’omesso versamento della imposta e delle sanzioni, liquidate già nell’avviso di accertamento e nella cartella di pagamento, tanto che l’Agente per la riscossione aveva ritenuto necessario avvalersi del fermo amministrativo D.P.R. n. 602 del 1073, ex art. 86.
In sostanza l’ O. non ha fornito alcuna specificazione circa gli elementi circostanziali dedotti nel giudizio di merito alla stregua dei quali avrebbe dimostrato che, se fosse stato tempestivamente informato dell’esito negativo del giudizio tributario e qualora il nuovo studio commerciale avesse avuto la disponibilità dei documenti richiesti, avrebbe con certezza impedito l’incremento del debito per interessi da mora mediante il pagamento delle somme dovute ad estinzione del debito d’imposta.
p. 5. Decimo motivo: violazione dell’art. 112 c.p.c. sulla domanda riconvenzionale avversaria e sulla condanna ex art. 96 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.
Undicesimo motivo: violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e degli artt. 2956 e 2959 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Dodicesimo motivo: violazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 96 c.p.c., comma 3 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
5.1 Il ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha dichiarato inammissibili i motivi di gravame quinto e sesto – con i quali venivano investite le statuizioni della decisione del Tribunale relative all’accoglimento della domanda riconvenzionale intesa ad ottenere il pagamento dei compensi professionali ed alla applicazione ex officio della sanzione patrimoniale per azione risarcitoria esercitata con colpa grave – in quanto nelle “conclusioni dell’atto di citazione in appello”, l’ O. non aveva specificamente richiesto la riforma della sentenza di prime cure anche in relazione ai predetti capi, essendosi limitato ad insistere per l’accoglimento delle domande principale e subordinata di risarcimento danni.
Afferma inoltre che è errata la decisione della Corte d’appello che, esaminando egualmente il merito, ha ritenuto infondata la eccezione di prescrizione presuntiva del credito per compensi, in quanto il rapporto professionale non era mai stato contestato, mentre era stata negata la debenza del pagamento dei crediti azionati.
Deduce ancora l’erroneità della pronuncia relativa alla condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3 in quanto fondata su condotte processuali ritenute gravemente colpose che non trovano riscontro negli atti di causa.
5.2 Il decimo motivo è fondato, ma non decisivo.
Il ricorrente ha, infatti, richiamato il contenuto del proprio atto di citazione in appello – le cui conclusioni sono state parzialmente trascritte a pag. 52 del ricorso – nel quale oltre ad insistere nelle domande di condanna al risarcimento dei danni, aveva richiesto l’accoglimento della impugnazione “in riforma totale della sentenza n. 632/2015 del Tribunale di Varese…. per i motivi esposti in narrativa…”.
In conseguenza la pronuncia del Giudice di appello risulta palesemente errata in diritto, in quanto emessa in contrasto con il principio enunciato da questa Corte secondo cui, ai fini di una corretta interpretazione della domanda, il giudice di primo grado è tenuto ad interpretare le conclusioni contenute nell’atto di citazione, alle quali si è riportato l’attore in sede di precisazione delle conclusioni, tenendo conto della volontà della parte quale emergente non solo dalla formulazione letterale delle conclusioni assunte nella citazione, ma anche dall’intero complesso dell’atto che le contiene, considerando la sostanza della pretesa, così come è stata costantemente percepita dalle parti nel corso del giudizio di primo grado, tenendo conto non solo delle deduzioni e delle conclusioni inizialmente tratte nell’atto introduttivo, ma anche della condotta processuale delle parti, nonchè delle precisazioni e specificazioni intervenute in corso di causa (cfr. Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 18653 del 16/09/2004; id. Sez. 3, Sentenza n. 15802 del 28/07/2005; id. Sez. 3, Sentenza n. 75 del 08/01/2010).
Non ricorre, pertanto, alcuna incertezza nella individuazione della domanda quando il “petitum” sia comunque individuabile attraverso un esame complessivo dell’atto introduttivo del giudizio, non limitato alla parte di esso destinata a contenere le conclusioni, ma esteso anche alla parte espositiva (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 20294 del 25/09/2014), e del pari quando la generica richiesta conclusiva di integrale riforma della sentenza impugnata, contenuta nell’atto di appello, trovi puntuale specificazione nella individuazione, all’interno dei singoli motivi di gravame, dei capi di sentenza specificamente investiti dalla parte appellante, non essendo consentito, in tal caso, desumere dalla mera richiesta conclusiva della riforma della sentenza impugnata, alcuna presunzione di rinuncia ai motivi o ad alcuni motivi di appello formulati nell’atto di impugnazione.
Al vizio processuale in cui è incorso il Giudice di appello, non consegue tuttavia la cassazione della sentenza impugnata, atteso che la stessa Corte distrettuale ha poi passato in rassegna i motivi di gravame che aveva ritenuto inammissibili.
5.3 Tanto premesso, la Corte d’appello ha ritenuto di condividere la statuizione del primo giudice secondo cui la prescrizione presuntiva eccepita dall’ O. ai sensi dell’art. 2956 c.c., comma 1, n. 2) doveva intendersi rigettata in quanto l’appellante aveva ritenuto insussistente il rapporto obbligatorio avete ad oggetto le prestazioni professionali (cfr. sentenza appello, in motiv. pag. 13), mentre sussisteva in atti la prova del credito per compensi professionali vantato da EMME ESSE Consulting s.r.l. e dalla commercialista S..
Il ricorrente censura tale statuizione deducendo di non avere punto contestato il rapporto professionale, ed anzi di averlo presupposto, avendo ad oggetto la tenuta della contabilità societaria e la assistenza e difesa nel giudizio tributario avanti la CTP di Varese, atteso che proprio sul tale rapporto aveva fondato la pretesa risarcitoria per responsabilità contrattuale.
Il motivo undicesimo è infondato.
Anche a considerare innovativa la statuizione della Corte d’appello rispetto a quella adottata dal Tribunale – che aveva invece ritenuto “tacitamente rinunciata” la eccezione, in quanto non specificamente riproposta alla udienza di precisazione delle conclusioni in primo grado, e comunque pienamente provata tanto la esistenza e la esecuzione del rapporto, quanto la “non estinzione della obbligazione di pagamento” dei compensi – (cfr. ricorso, pag. 11 ove sono riportate in riassunto le motivazioni della sentenza del Tribunale di Varese), la censura mossa dal ricorrente si infrange nell’accertamento compiuto dal Giudice distrettuale della ammissione del mancato pagamento ex art. 2959 c.c., dovendo riferirsi la espressione contenuta nella sentenza d’appello “l’affermazione del debitore in ordine alla insussistenza della obbligazione”, non alla inesistenza del titolo contrattuale, sibbene alla contestazione formulata dall’ O. del “maggior” debito nascente da quel contratto, implicante quindi la ammissione implicita che tale maggiore importo non era stato pagato. La prescrizione presuntiva, infatti, opera esclusivamente sul presupposto che l’importo richiesto dalla controparte sia stato pagato, o meglio sulla presunzione legale dell’avvenuto pagamento con effetto estintivo del debito, mentre nella specie lo stesso ricorrente ha affermato (cfr. ricorso, pag. 55) di essersi difeso nel giudizio di merito: 1-disconoscendo i documenti prodotti a sostegno della pretesa per i compensi maturati; 2-eccependo che “le prestazioni professionali si erano esaurite nel 2006”; 3-sostenendo che, non avendo la società di consulenza e la S., anteriormente al giudizio di merito, “mai avanzato alcuna pretesa nei suoi confronti” ciò costitutiva “la migliore dimostrazione che non vi erano pendenze e che le prestazioni erano state onorate a suo tempo”.
Tali difese appaiono all’evidenza incompatibili con la originaria esistenza dei crediti per compensi, derivanti dal rapporto contrattuale, vantati dalla società di consulenza e dalla professionista, sostenendo il debitore di non avere alcun debito con essi, non perchè i crediti azionati, ossia quegli specifici debiti individuati nella domanda riconvenzionale, sebbene originariamente riferiti ad importi dovuti, fossero da considerare tuttavia estinti in quanto “presuntivamente” pagati (nel che si sostanzia la “eccezione di adempimento” certamente compatibile con la contestuale “eccezione di prescrizione presuntiva”: Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 785 del 27/01/1998; id. Sez. 3, Sentenza n. 7800 del 31/03/2010; id. Sez. 2 -, Ordinanza n. 23751 del 01/10/2018), ma invece perchè non poteva darsi la insorgenza stessa di tali (nuovi) crediti, in quanto derivanti da un titolo contrattuale già da tempo estinto (cfr. Corte cass. Sez. L, Sentenza n. 5910 del 14/06/1999; id. Sez. 3, Sentenza n. 14249 del 28/07/2004; id. Sez. 2, Sentenza n. 26986 del 02/12/2013).
5.4 Quanto alla condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3, la Corte d’appello ha fondato la pronuncia su contestazioni di fatti (la società di consulenza non aveva provveduto alla compilazione delle dichiarazioni dei redditi; la commercialista aveva proposto il ricorso tributario senza ricevere alcun mandato) poste a base dell’azione di condanna al risarcimento del danno che risultavano palesemente inveritiere in quanto smentite da altre allegazioni o dai documenti prodotti.
Il ricorrente si è limitato, al riguardo, a contestare semplicemente l’erroneità della statuizione, non avendo egli formulato alcuna delle allegazioni predette, senza tuttavia fornire alcun riscontro specifico, in termini di indicazione degli atti processuali e del loro contenuto, nonchè del luogo in cui rinvenirli, da cui emergerebbe l’inconsistente accertamento compiuto dal Giudice di merito.
E’ appena il caso di rilevare come la censura del vizio di errore di diritto avrebbe implicato una critica rivolta alla sussunzione dei fatti qualificati dalla Corte d’appello nella nozione di “colpa grave” con la quale la norma viene a definire il comportamento processuale di una delle parti. Diversamente la contestazione della esistenza o della inesatta rilevazione della condotta processuale, impinge nell’errore di fatto, che avrebbe allora dovuto essere dedotto nei limiti previsti dal vizio di legittimità di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Ove poi si intenda contestare l’affermazione della stessa esistenza negli scritti difensivi delle allegazioni dei fatti – ritenuti in veritieri dalla Corte d’appello – il ricorrente avrebbe dovuto avvalersi del rimedio revocatorio.
Consegue la inammissibilità del dodicesimo motivo.
– Alcun obbligo di esame grava sulla Corte in ordine al tredicesimo motivo – violazione dell’art. 91 c.p.c., del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma, n. 3), che non riveste i caratteri minimi essenziali del motivo di ricorso ex art. 366 c.p.c., con il quale il ricorrente si limita soltanto a richiedere la revisione del regolamento delle spese dell’intero giudizio sul presupposto dell’asserita fondatezza dei motivi di gravame.
p. 6. In conclusione il ricorso deve essere rigettato.
La parte ricorrente, soccombente, è tenuta alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità liquidate nel dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 6 febbraio 2019.
Depositato in Cancelleria il 26 giugno 2019
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