LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI CERBO Vincenzo – Primo Presidente f.f. –
Dott. VIVALDI Roberta – Presidente di sez. –
Dott. GRECO Antonio – Consigliere –
Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –
Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –
Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –
Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –
Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –
Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 5639-2018 proposto da:
RADIO BELLA E MONELLA s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PANAMA 77, presso lo studio dell’avvocato GIANLUCA BARNESCHI, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELLO SVILUPPO ECONOMICO, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 438/2018 del CONSIGLIO DI STATO, depositata il 23/01/2018;
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18/12/2018 dal Consigliere RAFFAELE FRASCA.
RILEVATO
che:
1. La s.r.l. Radio Bella e Monella ha proposto ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 362 c.p.c., comma 1, contro il Ministero della Comunicazione (ora Ministero dello Sviluppo economico), avverso la sentenza del Consiglio di Stato n. 438 del 23 gennaio 2018, la quale ha rigettato il suo appello contro la sentenza del TAR Lazio, sede di Roma, n. 3416 del 21 marzo 2016, che, provvedendo sui relativi giudizi riuniti, aveva respinto i ricorsi da essa introdotti con i numeri 6412 del 2009 e 4588 del 2015, quest’ultimo integrato con motivi aggiunti.
1.1. Tali giudizi erano stati proposti dalla qui ricorrente:
A) il primo (iscritto al n. r. 6412 del 2009) per ottenere l’annullamento: al) del provvedimento 30 aprile 2009 prot. n. 5280, ricevuto il giorno 25 maggio 2009, con il quale il Direttore della Direzione generale per i servizi di comunicazione elettronica e radiodiffusione – Dipartimento per le comunicazioni ha escluso l’impianto di via *****, operante sulla frequenza di 97,75 MHz, dall’allegato tecnico dell’atto di concessione rilasciato alla Radio Bella e Monella S.r.l., titolare dell’omonima emittente radiofonica privata; a2) della nota 19 maggio 2009 prot. n. 2725 ITV R570 99 AL, ricevuta il giorno 25 maggio 2009, del settore IV dell’Ispettorato territoriale per il Veneto, di trasmissione del suddetto provvedimento; a3) di ogni atto presupposto, connesso o conseguente, e in particolare della nota 16 febbraio 2009 prot. n. 952 ITV R570 99 AL del predetto Ispettorato;
B) il secondo (iscritto al n. r.g. 4588 del 2015) per ottenere l’annullamento: bi) della nota 11 marzo 2015 prot. n. 32023, che comunicava l’esecuzione dell’ordinanza 30 luglio 1999 n. 162, di disattivazione dell’impianto predetto; b2) della nota 3 aprile 2015 prot. n. 42945, che conferma l’esecuzione dell’ordinanza citata; b3) della nota 29 maggio 2015 prot. n. 70438, sempre concernente l’esecuzione dell’ordinanza 30 luglio 1999 n. 162, di disattivazione dell’impianto predetto.
2. La vicenda oggetto di giudizio concerne una situazione che trae origine dall’acquisto nel 1995, da parte della ricorrente – radio privata, operante come impresa di radiodiffusione sonora a carattere commerciale in ambito locale con decreto di concessione del Ministero delle Poste e Telecomunicazioni 2 marzo 1994, rilasciato ai sensi dell’allora vigente L. 6 agosto 1990, n. 223, art. 32 e valido “per gli impianti di radiodiffusione sonora e i relativi collegamenti di telecomunicazione, censiti dal titolare… ed eventualmente modificati dallo stesso… o acquistati da altro soggetto il quale li abbia censiti” del ramo di azienda di proprietà di un’altra impresa del settore, comprendente anche un impianto di diffusione.
Riguardo ad esso, successivamente, con ordinanza 30 luglio 1999 n. 162 l’Ispettorato regionale per il Veneto del Ministero delle comunicazioni ingiungeva alla ricorrente la disattivazione ai sensi della L. n. 223 del 1990, art. 32, comma 5 sul presupposto, fondato su accertamenti dei competenti organi di polizia, che esso fosse rimasto inattivo per un periodo di tempo rilevante.
2.1. La ricorrente impugnava detta ordinanza con ricorso al TAR del Lazio, sede di Roma, ed il ricorso veniva respinto con sentenza 13 ottobre 2008 n. 8882, che veniva appellata.
Il Consiglio di Stato, dopo aver disposto la sospensione dell’esecutività della sentenza di primo grado, con sentenza n. 522 del 2015 rigettava l’appello, confermando quindi la reiezione dell’impugnativa dell’ordinanza di disattivazione 162/1999.
Nelle more del giudizio di appello deciso da quella sentenza il Ministero emanava il provvedimento 30 aprile 2009 indicato sopra sub a1), con il quale, sul presupposto dell’intimata disattivazione dell’impianto, procedeva ad escluderlo dall’allegato tecnico dell’atto di concessione rilasciato alla ricorrente.
La ricorrente impugnava allora detto atto e gli altri in precedenza indicati con il giudizio iscritto al n. r. 6412/2009 del TAR Lazio.
Il Ministero, nella pendenza di detto giudizio, a seguito della sentenza n. 552 del 2015, con le note 11 marzo e 3 aprile 2015 indicate sopra sub b1) e b2), disponeva nel senso di eseguire l’ordinanza di disattivazione e la ricorrente introduceva davanti al TAR Lazio il ricorso iscritto n. 4588 del 2015 R.G. del TAR territoriale.
3. Con la sentenza n. 3416 del 2016 il TAR Lazio, dopo averli riuniti, respingeva entrambi i ricorsi, sul rilievo che, a fronte del giudicato formatosi sul rigetto dell’impugnazione dell’ordinanza di disattivazione n. 162/1999, l’esecuzione disposta con gli atti impugnati era dovuta.
4. Per quello che si legge nella sentenza impugnata, atteso che il ricorso in esame omette di farlo, si rileva che:
aa) la qui ricorrente appellava prospettando un’unica complessa censura, riconducibile secondo il Consiglio di Stato a due motivi, così individuati dallo stesso consesso: “- con il primo di essi (…) che il ricorso n. 6412/2009 si sarebbe dovuto dichiarare improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, perchè a suo dire l’impianto per cui è causa” era “stato definitivamente legittimato ex tunc in base ad una nota 4 luglio 2003 prot. n. 903518 del Ministero competente, (…) prodotta come doc. 2 nel ricorso n. 4588/2015 (…);
– con il secondo motivo (…) che il ricorso n. 4855 (rectius: 4588)/2015 si sarebbe dovuto respingere nel merito perchè i provvedimenti impugnati, attesa la nuova legittimazione dell’impianto nei termini spiegati, si sarebbero dovuti qualificare non già come esecuzione dell’ordinanza 162/99, ma come nuovi provvedimenti di disattivazione, che si sarebbero dovuti congruamente motivare e comunque” erano “di competenza non dell’Ispettorato territoriale, ma dell’amministrazione centrale;”;
bb) il Ministero resisteva, chiedendo che l’appello fosse respinto, eccependo in particolare che la censura fondata sulla nota 4 luglio 2003 prot. n. 903518 sarebbe stata inammissibile, perchè dedotta per la prima volta in appello, e comunque infondata nel merito, perchè la nota in questione si riferiva non ad una nuova attivazione, ma ad un oggetto diverso, ovvero la verifica dei requisiti di cui alla L. 20 marzo 2001, n. 66, art. 1 di conversione del D.L. 23 gennaio 2001, n. 5, che aveva disposto, a certe condizioni, una proroga dell’assegnazione delle frequenze in attesa dell’entrata in vigore del piano nazionale relativo.
5. Con la sentenza impugnata il Consiglio di Stato ha rigettato l’appello e in particolare il primo motivo “incentrato sulla presunta improcedibilità del ricorso originario a motivo della nota 4 luglio 2003 prot. n. 903518 di cui si è detto, che avrebbe, secondo la difesa della ricorrente appellante, nuovamente legittimato, con effetto retroattivo, l’impianto per cui è causa”, premettendo in primo luogo che:
“Il valore giuridico della nota in questione, peraltro, non è quello affermato dalla ricorrente stessa, così come sottolineato nei termini di cui sempre in premesse, dalla difesa dell’amministrazione. 3. Della nota stessa, si devono riprodurre anzitutto i contenuti (doc. 2 in I grado ricorrente appellante nel ricorso n. 4588/2015). Essa proviene, come si è detto, dal MISE, e precisamente dalla V divisione della Direzione generale concessioni e autorizzazioni, ed ha per oggetto: “Esito della verifica del possesso dei requisiti previsti per la prosecuzione dell’attività di radiodiffusione sonora, ai sensi della L. 20 marzo 2001, n. 66”. Per quanto qui interessa, nel testo afferma poi testualmente: “In esito alla domanda di verifica del possesso dei requisiti necessari per la prosecuzione dell’esercizio dell’attività di radiodiffusione privata sonora a carattere commerciale in ambito locale, inoltrata ai sensi della L. 20 marzo 2001, n. 66, art. 1, comma 2 ter e della Det. 16 luglio 2001, art. 1 della Direzione generale concessioni e autorizzazioni… si comunica, a seguito della verifica effettuata sulla documentazione prodotta, che” la radio in questione, di cui si indicano l’insegna e la denominazione sociale, “risulta in possesso dei requisiti di cui alla citata L. n. 66 del 2001, art. 1, commi 2 bis e 2 ter. Pertanto, la medesima può proseguire nell’esercizio dell’attività di cui sopra, con gli obblighi e i diritti del concessionario, fino all’adozione del Piano di assegnazione delle frequenze di radiodiffusione sonora in tecnica analogica, secondo quanto previsto dalla citata L. n. 66 del 2001, art. 1, comma 2”. Correlata alla nota, per le ragioni di cui si dirà, è poi (doc. 2 bis in I grado ricorrente appellante nel ricorso n. 4588/2015) una dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, nelle forme del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, art. 47 in cui il legale rappresentante della ricorrente dichiara che “gli impianti di radiodiffusione e di collegamento esercitati… sono i seguenti” e a ciò fa seguire un elenco di 33 impianti, che reca al numero 8 l’impianto per cui è causa.”.
Dopo la premessa il Consiglio di Stato ha così continuato:
“4. L’esatto valore della nota appena riportata, e della dichiarazione sostitutiva, si comprende in base alle norme di legge lì richiamate, che si riportano per chiarezza. Il riferimento, propriamente, è al D.L. 23 gennaio 2001, n. 5, rubricato “Disposizioni urgenti per il differimento di termini in materia di trasmissioni radiotelevisive analogiche e digitali, nonchè per il risanamento di impianti radiotelevisivi” e convertito con modificazioni appunto nella citata L. 20 marzo 2001, n. 66. La norma che qui interessa è del D.L. n. 5 del 2001, art. 1, il comma 2 per cui “L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni adotta, entro il 31 dicembre 2001 e con le procedure di cui alla L. 31 luglio 1997, n. 249, il piano nazionale di assegnazione delle frequenze per radiodiffusione sonora in tecnica digitale e, successivamente all’effettiva introduzione di tale sistema e allo sviluppo del relativo mercato, il piano di assegnazione delle frequenze di radiodiffusione sonora in tecnica analogica di cui alla predetta legge. Fino all’adozione del predetto piano di assegnazione delle frequenze in tecnica analogica, i soggetti legittimamente operanti possono proseguire nell’esercizio dell’attività con gli obblighi e i diritti del concessionario.”. Del comma riportato, rileva l’ultima parte, che in sostanza stabilisce un regime transitorio: fino al riordino del settore, previsto dalla prima parte del comma stesso, chi già gestisce una radio privata, così come pacificamene la ricorrente appellante, può continuare a farlo. Avvalersi di questo regime transitorio peraltro richiede una serie di requisiti e un adempimento formale, previsti dai successivi commi dello stesso articolo. Al comma 2 bis, si prevede anzitutto che l’imprenditore interessato debba essere titolare di un’azienda con dati requisiti dimensionali minimi, là precisati: per quanto concerne le radio private operanti in ambito locale, in particolare si richiede “la natura giuridica di società di capitali che impieghi almeno quindici dipendenti in regola con le vigenti disposizioni in materia previdenziale”. Al comma 2 ter prima parte si prevedono poi alcuni requisiti di onorabilità del legale rappresentante, consistenti nell’assenza di pregiudizi penali o di polizia. Qui poi rileva l’ultima parte dello stesso comma 2 ter, per cui “Ai fini delle verifiche di cui al comma 2-bis ed al presente comma, le emittenti interessate inoltrano al Ministero delle comunicazioni entro il 30 settembre 2001 le dichiarazioni e la documentazione necessarie, secondo modalità definite dallo stesso Ministero entro il 30 giugno 2001”. Il Ministero ha effettivamente emanato l’atto qui previsto, ovvero la Det. 16 luglio 2001 citata nel corpo della nota, la quale dettaglia i contenuti della domanda da presentare. E’ solo in quest’ultimo atto, all’art. 1, comma 2, lett. g) la quale elenca “dati e dichiarazioni da inserire nella domanda”, che compare il riferimento ad un “elenco degli impianti di diffusione e di collegamento legittimamente eserciti alla data di presentazione della domanda, redatto secondo l’allegato B al presente provvedimento”. Il documento 2 bis di cui s’è detto, redatto dalla ricorrente appellante, è appunto l’elenco in questione, redatto secondo lo schema offerto dall’atto ministeriale.
5. Ciò posto, due dati sono evidenti. In primo luogo, per accedere al regime transitorio di cui si è detto, il D.L. n. 5 del 2001 non prevede in via diretta alcun requisito che sia relativo agli impianti di trasmissione in quanto tali: il riferimento agli impianti in questione compare solo nella Det. 16 luglio 2001, che è un semplice atto amministrativo, e oltretutto è un riferimento di difficile comprensione, non essendo immediatamente chiaro a cosa servisse, nel silenzio della legge, richiedere la produzione di un documento in merito. In secondo luogo, la materia delle autorizzazioni in materia radiotelevisiva è sempre stata regolata da norme di legge, al tempo dalla L. 6 agosto 1990, n. 223: per incidere sulla relativa materia si richiede secondo logica una norma di pari forza, cioè una norma di legge o una norma amministrativa che su un espresso disposto di legge si fondi. Non è invece possibile, quali che fossero gli intenti perseguiti nel dettarla, riconoscere tale efficacia ad una previsione introdotta in via autonoma da un semplice atto amministrativo come la determina citata, da cui quindi non possono comunque derivare novazioni o rinnovi comunque intesi delle autorizzazioni in essere. In tali termini, si deve allora concludere che la nota 4 luglio 2003 più volte citata secondo la legge ebbe semplicemente il valore di ammettere l’impresa istante al regime transitorio di cui si è detto, e non incise in alcun modo sulla situazione dell’impianto di ***** per cui è causa, per il quale continuavano ad avere efficacia i provvedimenti i quali, a loro volta in conformità alla legge, ne avevano disposto la disattivazione.”.
Sulla base dell’esposta motivazione il Consiglio di Stato ha rigettato il primo motivo e, quindi, nel punto 6. ha affermato che “da quanto si è detto, segue la reiezione anche del secondo motivo, poichè nessuna nuova legittimazione dell’impianto stesso aveva avuto luogo, sì che la necessità di un nuovo provvedimento di disattivazione non sussisteva.”.
6. Al ricorso per cassazione ha resistito con controricorso il Ministero intimato.
7. La trattazione del ricorso è stata fissata in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380-bis.1. c.p.c. e del decreto di fissazione dell’adunanza della Corte si è fatta rituale notificazione agli avvocati delle parti.
8. Le parti hanno depositato memoria.
CONSIDERATO
che:
1. Con l’unico motivo di ricorso si prospetta letteralmente: “Violazione dell’art. 110 c.p.a. per rifiuto e/o omissione della giurisdizione amministrativa da parte del Consiglio di Stato su punto decisivo della controversia, in relazione al superamento dei limiti esterni della giurisdizione del giudice amministrativo nel merito e alla legittimità del sindacato amministrativo, con violazione e falsa applicazione della L. n. 223 del 1990, art. 16 – L. n. 422 del 1993, artt. 1 e 2, – L. n. 66 del 2001, art. 1, comma 2 Bis e 2 ter, nonchè L. n. 241 del 1990, ex art. 6, comma 1, lett. A) e B), in riferimento ai fondanti principi contenuti negli artt. 3,15,21,24,41,97 e 111 Cost.”.
L’illustrazione del motivo si sviluppa dalla pagina 6 sino alla pagina 22 del ricorso e da esse emerge che ciò che, secondo la ricorrente dovrebbe evidenziare il dedotto rifiuto di giurisdizione, risulta enunciato con passaggi che in alcun modo risultano idonei ad evidenziarlo e palesano soltanto una richiesta di censurare il risultato del giudizio espresso dal giudice amministrativo nell’esercizio della sua giurisdizione.
Tale conclusione è anzi anticipata dalla lettura, quasi in limine a pagina 7, già di una sorta di “manifesto” prodromico all’esposizione della censura, che risulta del tutto irriducibile al concetto di c.d. rifiuto di giurisdizione, in quanto preannunciante una “rivalutazione” del decisum del giudice speciale, che risulterebbe giustificata dal fatto che “la ricorrente ritiene e confida che la peculiare vicenda (…) possa essere più congruamente valutata, in quanto il rifiuto di giurisdizione concretizzatosi risulta in contrasto con la realtà amministrativa della vicenda, così come affermata in specifiche, reiterate circolari e linee guida delle direzioni generali del competente ministero ed anche in pareri dell’Avvocatura dello Stato”.
Il riferimento ad una “più congrua valutazione” sottende di per sè una sollecitazione ad un controllo di quella operata dal giudice amministrativo compiendo il giudizio di cui era stato investito nell’ambito della sua giurisdizione, piuttosto che la denuncia di un rifiuto di esercitare la giurisdizione.
2. Infatti, i primi passaggi illustrativi del motivo evidenziano che:
a) a pagina 7 si comincia con l’invocare il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite in punto di nozione di vizio di giurisdizione per c.d. rifiuto di giurisdizione nella sentenza n. 13976 del 2017, nel senso che “si configuri un vizio di giurisdizione per c.d. rifiuto dell’esercizio della giurisdizione da parte del giudice speciale cui invece essa competa, è necessario che quel giudice non decida sulla situazione giuridica valutando la fondatezza della domanda, e, quindi, negandole tutela nel concreto esercizio della giurisdizione, ma affermi – contro la regola iuris che la giurisdizione sulla domanda gli attribuisce – che la situazione fatta valere non ha tutela in astratto, cioè sul piano normativo, davanti alla propria giurisdizione perchè la domanda riguardo ad essa formulata è estranea ad essa e nel contempo anche ad altra giurisdizione”;
b) senonchè subito dopo, sempre a pagina 7, per coerenziare l’applicabilità del ricordato principio di diritto con riferimento alla sentenza impugnata si dice: che “nel caso di specie è accaduto proprio ciò, dato che il Giudice di secondo grado, nello scrutinare l’appello ha, contra legem, presupposto che il formale atto d’assenso al proseguimento dell’attività in concessione fosse irrilevante, così negando l’invocata tutela, ignorando per soprannumero che la norma presupposta all’azione in illo tempore esercitata (D.P.R. n. 156 del 1973, art. 240) fosse stata abrogata D.Lgs. n. 259 del 2003, ex art. 218”.
2.1. Ora, è di tutta evidenza che ciò che si enuncia implica la pretesa cattiva applicazione di norme da parte della sentenza impugnata e non una negazione dell’esistenza di una norma in astratto per la situazione giuridica, il che rende l’assunto in modo manifesto del tutto inidoneo ad evidenziare le condizioni per l’applicazione dell’invocato principio di diritto e tanto non senza che debba rilevarsi pure che la sentenza impugnata non ha affatto predicato, come si vorrebbe, la vigenza del citato art. 240, nemmeno evocato.
2.2. Alla successiva pagina 9 si assume che “il Consiglio di Stato nel caso di specie ha ritenuto contro l’evidenza risultante dalla volontà del Legislatore che il formalizzato assenso ex L. n. 66 del 2001 non costituisce quid novum, con definitiva legittimazione dell’impianto in questione (in autotutela rispetto al precedente provvedimento ablativo)” e, quindi, assumendo che si sarebbe fatta un’esegesi delle norme della L. n. 223 del 1990, art. 16, della L. n. 422 del 1993, artt. 1 e 2 e della L. n. 66 del 2001 che avrebbe travisato la “volontà del Legislatore(…) sulla base di analisi non condivisibile” delle dette norme “non supportata da alcun elemento normativo o giurisprudenziale”, si sostiene che tanto sarebbe avvenuto nei punti 5 e 6 della motivazione della sentenza impugnata, che si riportano quanto al 5, per poi, di seguito, procedersi ad esporre critiche alle affermazioni in essi contenute;
2.3. Ebbene, è la stessa ricorrente con le sue affermazioni a porsi al di fuori del principio di diritto individuatore di cui a Cass., Sez. Un., n. 13976 del 2017 (più di recente ribadito da Cass., Sez. Un., n. 32773 del 2018), giacchè si duole espressamente non già della proclamazione dell’inesistenza di una norma astratta a tutela della situazione giuridica azionata davanti al G.A., bensì di una cattiva ricognizione delle norme che a suo dire erano applicabili e sarebbero state in concreto applicate: in tal modo è palese che si denunciano pretesi errores in iudicando di quel giudice nella loro interpretazione e applicazione e, dunque, si è del tutto al di fuori dell’ipotesi della negazione della norma astratta attributiva di una tutela davanti ad una giurisdizione.
2.4. Anche la lettura delle pagine successive del ricorso evidenzia che la prospettazione svolta si articola sempre in una critica all’interpretazione delle norme de quibus fatta dal Consiglio di Stato.
Questo emerge a pagina 11, a pagina 12 ed a pagina 14.
In essa, dopo avere nuovamente sostenuto una rilevanza della determinazione del 4 luglio 2003 diversa da quella argomentata dal Consiglio di Stato sulla base della ricognizione delle norme svolta nel punto 5 della motivazione e, dunque, un apprezzamento sul significato di un atto amministrativo, si sostiene in modo assertorio che: “attraverso l’erronea attività decisionale il Consiglio di Stato ha espressamente dichiarato che, in assenza di specifico ed esplicito intervento normativo, nessuna giurisdizione potrebbe riconoscere tutela ai fondamentali diritti inerenti l’attività di trasmissione radiofonica, avverso provvedimento amministrativo lesivo fondato (apparentemente) sull’applicazione della disciplina di settore. Dunque le decisive affermazioni motivazionali risultano infondate in toto, in contrasto con la volontà del Legislatore e con quanto conseguentemente costituitosi. Infatti, quanto affermato dal Giudice di secondo grado, con evidente forzatura degli strumenti normativi rilevanti e delle loro conseguenze nel sistema delle radiodiffusioni vigente, integra rifiuto di giurisdizione”.
Tale affermazione nuovamente non è in linea con il concetto di rifiuto della giurisdizione che la stessa ricorrente ha evocato citando Cass. Sez. Un., n. 13976 del 2017 perchè parlare di “forzatura normativa” implica un evidente riferimento ad un’attività applicativa ed interpretativa di norme e non alla negazione della astratta esistenza di norme idonee a riconoscere tutela alla situazione della ricorrente.
Ed anzi, detta affermazione, là dove descrive il decisum della sentenza impugnata alludendo ad una espressa dichiarazione che in assenza di specifico intervento normativo nessuna giurisdizione si potrebbe riconoscere, non trova in esso alcuna corrispondenza, giacchè il Consiglio di Stato ha alluso nel punto 5. (penultima pagina della sentenza) alla mancanza di intervento normativo con legge o con atto amministrativo basato su norma di legge che incidesse l’assetto della L. n. 223 del 1990: in pratica ha fatto riferimento alla mancanza di una norma incisiva su un’altra norma e, dunque, ha dato rilievo sì a quella mancanza, ma per desumere che la situazione era regolata da quell’altra norma.
Attività, dunque, di tipica ricognizione della normativa rilevante per la decisione ed in alcun modo di negazione dell’esistenza in astratto di una norma tutelante la situazione oggetto di giudizio.
A pagina 15 si svolge la stessa argomentazione inidonea di cui a pagina 14, della quale si è appena detto.
2.5. In pratica, tutta la lunga esposizione dell’illustrazione del motivo si risolve in una manifestazione di dissenso – peraltro anche di scarsa chiarezza e pertinenza ed in realtà tutt’altro che giustificativa dell’effetto postulato già con il primo motivo dell’appello dinanzi al giudice speciale e da questo escluso – dalla motivazione esposta nei punti 5 e 6 della sentenza. Motivazione sviluppatasi con argomentazioni basate sull’esegesi di norme, oltre che sull’interpretazione della nota del 4 luglio 2003, che hanno portato il Consiglio di Stato ad escludere che la stessa avesse inciso sulla situazione relativa alla disattivazione dell’impianto di pertinenza della ricorrente siccome stabilizzata in ragione dei relativi provvedimenti dispositivi.
Il motivo di ricorso si sostanzia in una manifestazione di dissenso dal risultato raggiunto dal giudice speciale nell’attività di interpretazione delle norme e della citata nota all’interno della sua giurisdizione e nell’esercizio di essa, sicchè nessun rifiuto di giurisdizione risulta esistente.
Ne segue che il ricorso è inammissibile, in quanto l’unico motivo non è riconducibile all’art. 362 c.p.c., comma 1.
3. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo ai sensi del D.M. n. 55 del 2014.
Avuto riguardo all’adozione di una pronuncia di inammissibilità del ricorso, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,comma 1 quater si deve dare atto che ricorrono i presupposti per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo, pari a quello versato a titolo di contributo unificato per il ricorso principale.
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione al resistente delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro seimiladuecento, oltre le spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater dà atto che il presente dispositivo giustifica la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello eventualmente dovuto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 18 dicembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 26 giugno 2019