LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE MASI Oronzo – Presidente –
Dott. ZOSO Liliana Maria Teresa – Consigliere –
Dott. CROLLA Cosmo – Consigliere –
Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –
Dott. PENTA Andrea – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 28158/2015 proposto da:
Roma Capitale (già Comune di Roma; C.F.: *****), in persona del Commissario pro tempore Dott. T.F.P., rappresentata e difesa, anche disgiuntamente, dagli Avv.ti Domenico Rossi (C.F.:
RSSDNC65L07C352T) ed Antonio Ciavarella (C.F.: CVRNTN67B18H501G) dell’Avvocatura Capitolina e presso di loro domiciliato in Roma, alla Via del Tempio di Giove n. 21, giusta procura speciale in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova (C.F.: *****), con sede in Roma, alla Via della Bufalotta 1281, in persona del legale rappresentante pro tempore Dott. Gregorio Cicciù, difesa e rappresentata, anche disgiuntamente, dal Prof. Avv. Victor Uckmar (C.F.: CKMVTR25H01D969H) e dall’Avv. Caterina Corrado Oliva (C.F.:
CRRCRN76E50D969M) ed elettivamente domiciliata presso di loro nello studio Uckmar in Roma, alla Via Nazionale n. 200, come da procura a margine del controricorso;
– controricorrente –
-avverso la sentenza n. 2434/21/2015 emessa dalla CTR del Lazio in data 24/04/2015 e non notificata;
udita la relazione della causa svolta all’udienza camerale del 26/2/2019 dal Consigliere Dott. Andrea Penta.
RITENUTO IN FATTO
La Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova proponeva tre distinti ricorsi avverso altrettanti avvisi di accertamento notificati per parziale o omesso versamento dell’imposta ICI relativamente agli anni 2005, 2006 e 2007 con riferimento ad alcuni immobili di sua proprietà, a seguito del mancato riconoscimento del diritto all’esenzione del tributo ai sensi del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 7.
Si costituiva in giudizio Roma Capitale, contro deducendo rispetto alle eccezioni sollevate dalla ricorrente.
Con sentenza n. 511/52/12, la CTR adita rigettava i ricorsi.
Avverso tale sentenza la contribuente proponeva appello.
Con sentenza del 12.5.2014, la C.T.R. del Lazio – sez. distaccata di Latina – accoglieva l’appello sulla base, per quanto qui ancora rileva, delle seguenti considerazioni:
1) premesso che il D.Lgs. n. 507 del 1992, art. 7, comma 1, (recte, 504), nel novero degli immobili sottratti all’imposizione del tributo di specie, alla lettera b) includeva i fabbricati classificati o classificabili nelle categorie catastali da E/1 a E/9, nonchè, alla lettera d), quelli esclusivamente destinati all’esercizio del culto e, nella successiva lettera i), gli immobili utilizzati dai soggetti di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 87, comma 1, lett. e), per quanto interessa con esclusiva destinazione assistenziale ricettiva, larga parte del compendio di cui si discuteva constava di immobili comunque accatastati sub E/7;
2) quanto ai restanti cespiti, poi, per alcuni la destinazione cultuale emergeva da perizie giurate, attestati ministeriali, planimetrie e attestazioni dei religiosi, di guisa da integrare il requisito previsto alla lettera d);
3) con particolare riguardo al disposto di cui alla successiva lettera i), inoltre, la Congregazione appellante aveva dato adeguato conto di possedere il requisito soggettivo di cui al summenzionato art. 87 del Tuir (vale a dire, la sua condizione di ente di diritto privato, non costituito in forma societaria, residente nel territorio dello Stato e non avente quale oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali), laddove, quanto al presupposto oggettivo, era congruamente emersa la destinazione abitativa degli immobili, stante la loro destinazione a foresteria dei ministri di culto;
1) pertanto, l’appellante era in possesso dei requisiti oggettivi e soggettivi richiesti dalla legge e, dunque, aveva pieno titolo per ottenere l’esenzione richiesta, anche in considerazione della assoluta genericità delle contestazioni di controparte in ordine alla destinazione degli immobili in parola.
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso Roma Capitale (già Comune di Roma), sulla base di due motivi. La Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova ha resistito con controricorso.
In prossimità dell’udienza, la resistente ha depositato memorie illustrative ex art. 378 c.p.c..
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per non aver la CTR considerato che l’onere di provare il possesso di tutti i requisiti previsti dal D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 7, comma 1, per beneficiare dell’esenzione dal pagamento del tributo gravava sulla contribuente e non era stato da quest’ultima assolto, avuto particolare riguardo alla destinazione d’uso (non per attività commerciale) impressa agli immobili in contestazione.
1.1. Il motivo è inammissibile e, comunque, infondato.
In primo luogo, non si è al cospetto di una violazione del principio generale di ripartizione dell’onere probatorio, atteso che la CTR ha implicitamente posto a carico della contribuente l’onere di dimostrare il possesso dei requisiti soggettivi ed oggettivi per poter usufruire dell’esenzione richiesta, evidenziando che, al di là dell’inquadramento della maggior parte degli immobili tra quelli accatastati sub E/7, per gli altri la destinazione a culto emergeva dai documenti (perizie giurate, attestati ministeriali, planimetrie ed attestazioni dei religiosi) prodotti dalla Congregazione e, quanto agli immobili con destinazione assistenziale ricettiva, quest’ultima aveva dato adeguato conto di possedere il requisito soggettivo prescritto dall’art. 87 del Tuir, essendo inoltre “congruamente emersa”, con riferimento al presupposto oggettivo, la loro destinazione abitativa e, in particolare, “a foresteria dei ministri di culto”.
A ben vedere, con il motivo in esame, la ricorrente – lungi dal denunciare l’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata dalle norme di legge richiamate – alleghi un’erronea ricognizione, da parte del giudice a quo, della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa: operazione che non attiene all’esatta interpretazione della norma di legge, inerendo bensì alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, unicamente sotto l’aspetto del vizio di motivazione (cfr., ex plurimis, Sez. L, Sentenza n. 7394 del 26/03/2010, Rv. 612745; Sez. 5, Sentenza n. 26110 del 30/12/2015, Rv. 638171), neppure coinvolgendo, la prospettazione critica della ricorrente, l’eventuale falsa applicazione delle norme richiamate sotto il profilo dell’erronea sussunzione giuridica di un fatto in sè incontroverso, insistendo propriamente nella prospettazione di una diversa ricostruzione dei fatti di causa, rispetto a quanto operato dal giudice a quo. Infatti, è appena il caso di rilevare come la combinata valutazione delle circostanze di fatto indicate dalla corte territoriale a fondamento del ragionamento probatorio in concreto eseguito (secondo il meccanismo presuntivo di cui all’art. 2729 c.c.) non può in alcun modo considerarsi fondata su indici privi, ictu oculi, di quella minima capacità rappresentativa suscettibile di giustificare l’apprezzamento ricostruttivo che il giudice del merito ha ritenuto di porre a fondamento del ragionamento probatorio argomentato in sentenza. Nel caso di specie, al di là del formale richiamo, contenuto nell’epigrafe del motivo d’impugnazione in esame, al vizio di violazione e falsa applicazione di legge, Pubi consistam delle censure sollevate dall’odierna ricorrente deve piuttosto individuarsi nella negata congruità dell’interpretazione fornita dalla corte territoriale del contenuto rappresentativo degli elementi di prova complessivamente acquisiti, dei fatti di causa o delle circostanze ritenute rilevanti. Si tratta, come appare manifesto, di un’argomentazione critica con evidenza diretta a censurare una (tipica) erronea ricognizione della fattispecie concreta, di necessità mediata dalla contestata valutazione delle risultanze probatorie di causa; e pertanto di una tipica censura diretta a denunciare il vizio di motivazione in cui sarebbe incorso il provvedimento impugnato. Ciò posto, il motivo d’impugnazione così formulato deve ritenersi inammissibile, non essendo consentito alla parte censurare come violazione di norma di diritto, e non come vizio di motivazione, un errore in cui si assume che sia incorso il giudice di merito nella ricostruzione di un fatto giuridicamente rilevante, sul quale la sentenza doveva pronunciarsi (Sez. 3, Sentenza n. 10385 del 18/05/2005, Rv. 581564; Sez. 5, Sentenza n. 9185 del 21/04/2011, Rv. 616892), non potendo ritenersi neppure soddisfatti i requisiti minimi previsti dall’art. 360 c.p.c., n. 5, ai fini del controllo della legittimità della motivazione nella prospettiva dell’omesso esame di fatti decisivi controversi tra le parti (Sez. U, Sentenza n. 10313 del 05/05/2006 e, di recente, Sez. L, Sentenza n. 195 del 11/01/2016).
In definitiva. a ben vedere, la ricorrente sollecita una rivalutazione del materiale probatorio, non consentita nella presente sede.
Del resto, la ricorrente non contesta le conclusioni cui è pervenuta la CTR, ma si limita a sostenere che erroneamente la stessa avrebbe ripartito tra le parti l’onere probatorio.
In quest’ottica, l’affermazione, contenuta nella sentenza qui impugnata, secondo cui le contestazioni formulate da Roma Capitale in ordine alla destinazione degli immobili sarebbero state assolutamente generiche è solo rafforzativa della conclusione in precedenza rassegnata dai giudici di merito, come si desume altresì dall’incipit della frase (“anche in considerazione”).
2. Con il secondo motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 7, comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per non aver la CTR considerato che, alla stregua di quanto affermato da controparte, molti degli immobili erano “destinati ad ospitare ministri religiosi ed alcuni… alla produzione zootecnica e agricola” (cfr. pag. 13 del ricorso), sicchè, essendo una parte dell’immobile posseduto destinata ad attività diverse da quelle previste dal D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 7, comma 1, lett. i), la contribuente non avrebbe avuto diritto a beneficiare della relativa esenzione.
2.1. Il motivo è inammissibile.
In tema di imposta comunale sugli immobili (ICI), l’esenzione dall’imposta prevista dal D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 7, comma 1, lett. i), è subordinata alla compresenza di un requisito oggettivo, rappresentato dallo svolgimento esclusivo nell’immobile di attività di assistenza o di altre attività equiparate dal legislatore ai fini dell’esenzione, e di un requisito soggettivo, costituito dallo svolgimento di tali attività da parte di un ente pubblico o privato che non abbia come oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (art. 87, comma 1, lett. c), cui il citato art. 7 rinvia). La sussistenza del requisito oggettivo – che in base ai principi generali è onere del contribuente dimostrare – non può essere desunta esclusivamente sulla base di documenti che attestino a priori il tipo di attività cui l’immobile è destinato, occorrendo invece verificare che tale attività, pur rientrante tra quelle esenti, non sia svolta, in concreto, con le modalità di un’attività commerciale (Sez. 5, Sentenza n. 20776 del 26/10/2005). La sussistenza del requisito oggettivo deve essere accertata in concreto, verificando che l’attività cui l’immobile è destinato, pur rientrando tra quelle esenti, non sia svolta con le modalità di un’attività commerciale (Sez. 5, Sentenza n. 4502 del 21/03/2012; Sez. 5, Sentenza n. 14226 del 08/07/2015).
Orbene, in primo luogo, non essendovene cenno nella sentenza impugnata, la ricorrente avrebbe dovuto indicare con precisione in quale fase e con quale atto processuale avesse sollevato la questione concernente la destinazione impressa a parte degli immobili in oggetto ad attività di produzione zootecnica ed agricola.
Inoltre, in violazione del principio di autosufficienza di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), la ricorrente ha omesso di trascrivere, almeno nei loro passaggi maggiormente significativi, l’atto processuale nel quale sarebbe contenuta l’affermazione imputata alla controparte a pagina 13 del ricorso.
La specificità del motivo era vieppiù necessaria se si considera che la CTR ha fatto espressamente riferimento unicamente alla destinazione degli immobili a foresteria dei ministri di culto, equiparandola a quella abitativa. In quest’ottica, va ricordato che anche le attività assistenziali e recettiva possono determinare, al pari di quelle di religione o di culto, l’esenzione ICI (appunto, in base al D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 7, comma 1, lett. i). Invero, questa Corte già in passato ha statuito che l’esenzione in esame, prevista per gli immobili destinati esclusivamente allo svolgimento delle attività di religione o di culto di cui alla L. 20 maggio 1985, n. 222, art. 16, lett. a), spetta ad un ente ecclesiastico in relazione ad un immobile destinato ad abitazione di membri della propria comunità religiosa, con modalità assimilabili all’abitazione di una unità immobiliare da parte del proprietario e dei suoi familiari, comportando tale destinazione lo svolgimento di un’attività non commerciale, ma diretta alla “formazione del clero e dei religiosi”, espressamente compresa nell’elencazione di cui all’art. 16, lett. a) cit. ed avente altresì le caratteristiche di attività “ricettiva”, parimenti inclusa nell’esenzione di cui all’art. 7, comma 1, lett. i) cit., e da intendersi riferita all’ospitalità ed accoglienza di persone in genere, non necessariamente terze ed estranee all’ente proprietario (Sez. 5, Sentenza n. 26654 del 18/12/2009).
Anche tale motivo si espone, del resto, al rilievo di tradursi, in realtà, in un’erronea ricognizione, da parte del giudice a quo, della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, da censurare, se del caso, sulla base dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (denunciando, in particolare, l’omesso esame di un fatto decisivo), sollecitando da parte di questa Corte una differente valutazione del materiale probatorio. A tutto concedere, come condivisibilmente sostenuto dalla resistente, si sarebbe al cospetto di un errore di percezione, come tale da denunziare con il rimedio revocatorio di cui all’art. 395 c.p.c.
Da ultimo, la velata doglianza (pag. 14 del ricorso) concernente l’asserita violazione dell’art. 345 c.p.c. (per aver, a suo dire, la resistente prodotto in appello inammissibilmente nuovi documenti), oltre ad essere generica (non essendo neppure individuati tali documenti) e a non trovare corrispondenza nella rubrica del motivo, è del tutto apodittica (cfr. pag. 14 del ricorso).
3. Con il terzo motivo la ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione degli artt. 91,92 e 96 c.p.c., in combinato disposto con il D.M. 10 marzo 2014, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per essere la liquidazione delle spese processuali operata dalla CTR, a suo dire, sproporzionata ed abnorme sia tenuto conto che si trattava di una questione di controversa soluzione sia alla luce del limite fissato nel decreto per liquidazione degli onorari degli avvocati.
3.1. Il motivo è inammissibile e, comunque, infondato.
In primo luogo, si rivela del tutto generico, privo com’è di qualsivoglia concreto riferimento alla controversa concreta.
In secondo luogo, la questione sottoposta all’esame dei giudici tributari non presentava alcun particolare connotato di novità o di complessità, come evidenziato nell’analizzare il precedente motivo, con la conseguenza che correttamente la CTR ha fatto applicazione del principio di soccombenza.
Da ultimo, in ogni caso, tenuto conto che il valore della controversia era di Euro 310.117,30, gli importi liquidati dalla CTR si attestano al di sotto dei valori medi dei compensi calcolati sulla base dello scaglione di riferimento.
4. In definitiva, il ricorso non merita di essere accolto.
Le spese del presente grado di giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Ricorrono i presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), per il raddoppio del versamento del contributo unificato.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso, in favore del resistente, delle spese del presente grado di giudizio, che liquida in complessivi Euro 10.000,00, oltre spese forfettarie ed accessori di legge. Dichiara la parte ricorrente tenuta al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater.
Cosi deciso in Roma, nella camera di consiglio della V Sezione civile della Corte suprema di Cassazione, il 26 febbraio 2019.
Depositato in Cancelleria il 27 giugno 2019
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