LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VALITUTTI Antonio – Presidente –
Dott. MELONI Marina – Consigliere –
Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –
Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –
Dott. FIDANZIA Andrea – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 13765/2018 proposto da:
A.S., domiciliato in Roma, P.zza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato Grande Flavio, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
Ministero dell’Interno, in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliato in Roma, Via Dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope legis;
– controricorrente –
avverso il decreto del TRIBUNALE di BOLOGNA, del 17/03/2018; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13/03/2019 dal cons. Dott. FIDANZIA ANDREA.
FATTI DI CAUSA
Il Tribunale di Bologna, con decreto depositato il 17 marzo 2018, ha rigettato la domanda di A.S., cittadino del *****, volta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale o, in subordine, della protezione umanitaria.
E’ stato, in primo luogo, ritenuto che difettassero i presupposti per il riconoscimento in capo al ricorrente dello status di rifugiato, non essendo le due dichiarazioni state ritenute attendibili (costui aveva riferito di essere fuggito dal ***** per sottrarsi alla minaccia di morte di una organizzazione terroristica di religione sunnita che, in primo momento, lo aveva costretto a lavorare, quale tecnico informatico, per tale gruppo e lo aveva, successivamente aggredito fisicamente e minacciato, una volta scoperto che lo stesso ricorrente era di religione *****).
Inoltre, con riferimento alla richiesta di protezione sussidiaria, il Tribunale di Bologna ha evidenziato l’insussistenza del pericolo del ricorrente di essere esposto a grave danno in caso di ritorno nel paese d’origine, non essendovi pericolo per la sicurezza della popolazione nella regione del *****.
Infine, il ricorrente non era comunque meritevole del permesso per motivi umanitari, non essendo stata allegata una specifica situazione di vulnerabilità personale del ricorrente.
Ha proposto ricorso per cassazione A.S. affidandolo a tre motivi. Il Ministero dell’Interno si è costituito con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo è stata dedotta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5.
Contesta il ricorrente la valutazione di vaghezza e genericità delle sue dichiarazioni effettuata dal giudice di primo grado sia in relazione al contenuto della lettera che il gruppo terroristico religioso gli impose di scrivere, sia in relazione alle aggressioni subite.
Contesta il ricorrente anche il giudizio formulato dal Tribunale di non coerenza logica e contraddittorietà tra le dichiarazioni rese alla Commissione Territoriale e quelle rilasciate davanti al Giudice di merito.
2. Il motivo è inammissibile.
Va osservato che, anche recentemente, questa Corte ha statuito che la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma. 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito. (Sez. 1 -, Ordinanza n. 3340 del 05/02/2019, Rv. 652549).
Nel caso di specie, il Tribunale di Bologna ha valutato le dichiarazioni del ricorrente tenendo ben presenti i parametri previsti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 essendo stati particolarmente analizzati i profili della plausibilità e della coerenza del racconto, evidenziando con ricchezza di particolari i punti nei quali il narrato del richiedente era privo di tali necessari requisiti.
D’altra parte, il ricorrente ha censurato le obiezioni svolte dal giudice di primo grado al suo racconto con il mero rilievo che “provavano troppo” o si è comunque limitato genericamente a contestare il giudizio di genericità, vaghezza e, in generale, di inattendibilità delle sue dichiarazioni formulato dal Tribunale.
Inoltre, il ricorrente, con l’apparente censura della violazione da parte del Tribunale di una norma di legge, ovvero il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 ha, in realtà svolto delle censure di merito, in quanto finalizzato a prospettare una diversa lettura delle sue dichiarazioni.
In proposito, questa Corte, sempre nella pronuncia n. 3340 del 05/02/2019 sopra citata, ha statuito che, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, con la conseguenza che il giudizio di fatto in ordine alla credibilità del richiedente non può essere censurato sub specie violazione di legge ed è quindi sottratto al sindacato di legittimità.
3. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 360, comma 1, n. 3 in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 7,8 e 14.
Lamenta il ricorrente che, avuto riguardo alla sua vicenda personale, in caso di ritorno in *****, è concretamente esposto al rischio per la propria vita, con conseguente diritto al riconoscimento dello status di rifugiato o, quantomeno, della protezione sussidiaria.
4. Il motivo è inammissibile.
Il ricorrente fonda la sua richiesta di protezione internazionale sul grave rischio per la propria vita cui sarebbe esposto in caso di ritorno in *****, così fornendo – inammissibilmente in questa sede – una ricostruzione difforme da quella accertata dal Tribunale, non cogliendo che il Tribunale di Bologna, con motivazione adeguata, ha ritenuto le sue dichiarazioni inattendibili e non credibili, escludendo così in radice il rischio paventato.
5. Con il terzo motivo è stata dedotta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 360, comma 1, n. 3 in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14.
Lamenta il ricorrente che il dettato del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 anche alla luce dell’art. 8 della direttiva 2004/83/CE, non consente il diniego della protezione sul rilievo che in una parte del territorio del paese d’origine il richiedente non ha motivo di temere di essere perseguitato o di subire un danno grave ed è ragionevole attendersi che egli si stabilisca in tale parte del paese.
6. Il motivo è infondato.
Il ragionamento svolto dal ricorrente avrebbe un fondamento ove fosse stato accertato che nella parte di territorio del paese di origine da cui lo stesso proviene vi fosse un pericolo concreto di “grave danno” alla persona ed il giudice di merito gli avesse negato la protezione sul rilievo che avrebbe potuto trasferirsi in altra parte del suo Stato più sicura.
In realtà, nel caso di specie, è stato accertato che la sua regione di provenienza non presenta i paventati pericoli.
In proposito, anche recentemente questa Corte ha statuito che, in tema di protezione internazionale, il riconoscimento dello “status” di rifugiato politico va escluso nell’ipotesi in cui il pericolo di persecuzione non sussista nella parte di territorio del paese di origine dalla quale proviene il richiedente, essendo tale ipotesi diversa da quella prevista dall’art. 8 della direttiva 2004/83/CE, non recepita nel nostro ordinamento, in cui il pericolo di persecuzione sussista nel territorio di provenienza, ma potrebbe tuttavia essere evitato con il trasferimento in altra parte del territorio del medesimo paese in cui tale pericolo non sussiste (Sez. 1, n. 28433 del 07/11/2018, Rv. 651471).
Il rigetto del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, essendosi il Ministero dell’Interno costituito in giudizio.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in Euro 2100, oltre S.P.A.D. oltre accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 13 marzo 2019.
Depositato in Cancelleria il 27 giugno 2019