Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.17309 del 27/06/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VALITUTTI Antonio – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19598/2018 proposto da:

S.U., domiciliato in Roma, P.zza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato Righini Paolo, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno;

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di BOLOGNA, del 26/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 13/03/2019 dal Cons. Dott. FIDANZIA ANDREA.

FATTI DI CAUSA

Il Tribunale di Bologna, con decreto depositato il 26 maggio 2018, ha rigettato la domanda di S.U., cittadino del Pakistan, volta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale o, in subordine, della protezione umanitaria.

E’ stato, in primo luogo, ritenuto che difettassero i presupposti per il riconoscimento in capo al ricorrente dello status di rifugiato, non essendo le sue dichiarazioni state ritenute attendibili (costui aveva riferito di essere fuggito dal Pakistan per sottrarsi agli zii paterni ed ai cugini che, per motivi legati alla religione, lo avevano aggredito, poi ferito con un colpo di pistola, e, infine,attentato alla sua vita).

Inoltre, con riferimento alla richiesta di protezione sussidiaria, il Tribunale di Bologna ha evidenziato l’insussistenza del rischio del ricorrente di essere esposto a grave danno in caso di ritorno nel paese d’origine, non essendovi pericolo per la sicurezza della popolazione civile nella sua regione di provenienza (Punjab).

Infine, il ricorrente non è stato comunque ritenuto meritevole del permesso per motivi umanitari, non essendo stata comprovata una sua specifica situazione di vulnerabilità personale.

Ha proposto ricorso per cassazione S.U. affidandolo a quattro motivi. Il Ministero dell’Interno non ha svolto difese.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3.

Lamenta il ricorrente che il Tribunale di Bologna, nel valutare la credibilità del suo racconto, non ha applicato i criteri normativi di cui all’art. 3, comma 5 Legge citata.

Ritiene il ricorrente che il Tribunale di Bologna abbia ritenuto l’inattendibilità delle sue dichiarazioni valorizzando discordanze e contraddizioni su elementi secondari, ma non dubitando del fatto principe, ovvero che era fuggito dal proprio per una persecuzione religiosa.

2. Il motivo è inammissibile.

Va osservato che, anche recentemente, questa Corte ha statuito che la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito. (Sez. 1 -, Ordinanza n. 3340 del 05/02/2019, Rv. 652549).

Nel caso di specie, il Tribunale di Bologna ha valutato le dichiarazioni del ricorrente tenendo ben presenti i parametri previsti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, essendo stati particolarmente analizzati i profili della plausibilità e della coerenza del racconto, evidenziando con ricchezza di particolari i punti nei quali il narrato del richiedente era privo di tali necessari requisiti. In particolare, ha constatato che dallo stesso racconto dell’istante era risultato che le forze dell’ordine e la magistratura si erano attivate iniziando un procedimento a carico dei presunti aggressori, in relazione al primo degli episodi narrati, mentre il ricorrente non aveva fornito alcuna spiegazione attendibile in ordine alla mancata denuncia del secondo episodio (pag. 3).

D’altra parte, il ricorrente ha censurato in modo generico le obiezioni svolte dal giudice di primo grado al suo racconto senza confrontarsi minimamente con le articolate argomentazioni del decreto impugnato con le quali è stata evidenziata l’estrema genericità, l’incoerenza e le contraddittorietà del narrato.

Inoltre, il Tribunale di Bologna non ha affatto ritenuto non credibile il racconto del ricorrente solo su aspetti secondari, avendo valutato che l’inattendibilità dello stesso era tale da determinare l’insussistenza del pericolo addotto.

Il ricorrente, con l’apparente doglianza della violazione da parte del Tribunale di Bologna di una norma di legge, ovvero del citato art. 3, comma 5 Legge cit. ha, in realtà, svolto – peraltro in modo assai generico – delle censure di merito, in quanto finalizzate a prospettare una diversa lettura delle sue dichiarazioni.

In proposito, questa Corte, sempre nella pronuncia n. 3340 del 05/02/2019 sopra citata, ha statuito che, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità.

3. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 1.

Si duole il ricorrente che il Tribunale di Bologna è venuto meno al dovere di cooperazione per non aver concesso termine al ricorrente per procurarsi i documenti del processo penale celebrato in Pakistan contro i suoi persecutori.

4. Il motivo è infondato.

Va preliminarmente osservato che la proposizione del ricorso al tribunale nella materia della protezione internazionale non si sottrae all’applicazione del principio di allegazione dei fatti posti a sostegno della domanda, sicchè il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli d’ufficio (Cass. 19197/2015; Cass. 17069/2018).

Il ricorrente si duole della mancata concessione da parte del giudice di merito di un termine per il deposito di documentazione che gli poteva giovare senza aver neppure dedotto di aver richiesto tale termine al Tribunale di Bologna, di talchè il giudice avrebbe dovuto concederlo di sua iniziativa, peraltro, a fronte di una narrazione giudicata inattendibile.

In proposito, è evidente che il dovere di cooperazione istruttoria presupponga la credibilità ed attendibilità dei fatti allegati dall’istante.

5. Con il terzo motivo è stata dedotta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c).

Lamenta il ricorrente che le COI attestano l’esistenza di gravi persecuzioni religiose nella regione del Punjab e la mancanza di azioni da parte della polizia per arginarle.

6. Il motivo è inammissibile.

Il Tribunale di Bologna ha evidenziato, sulla scorta delle COI più recenti, che non sussiste in Pakistan una situazione di violenza indiscriminata tale da porre in serio pericolo la vita o l’incolumità fisica della popolazione civile per il solo fatto di soggiornarvi.

Nel ricorso il sig. S. ha evidenziato un altro profilo (le persecuzioni religiose) ritenuto dallo stesso idoneo al riconoscimento della protezione sussidiaria, che non è stato, tuttavia, trattato dal Tribunale, se non con riferimento all’ambito più limitato della persecuzione per motivi religiosi perpetrata ai danni del ricorrente dai suoi parenti.

Orbene, il ricorrente, allo scopo di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, in ossequio al principio di specificità del motivo, avrebbe dovuto non solo allegare l’avvenuta deduzione della predetta questione innanzi al giudice di merito, ma indicare in quale atto del giudizio lo avesse eventualmente fatto, onde consentire alla Suprema Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della questione (vedi Sez. 6-1, n. 15430 del 13/06/2018 (Rv. 649332).

In realtà, il ricorrente non ha indicato nè il luogo nè il modo di deduzione di tale censura innanzi al Tribunale di Bologna, con conseguente violazione del principio di autosufficienza e specificità del ricorso.

7. Con il quarto motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

Lamenta il ricorrente la mera apparenza della motivazione della sentenza, trascurando la stessa di acquisire gli atti e ponderare gli elementi decisivi per valutare il merito della sua domanda.

8. Il motivo è inammissibile.

Il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 5, senza neppure indicare il fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti il cui esame sarebbe stato omesso.

Le censure del ricorrente sono, peraltro, estremamente generiche.

Si richiama la mancanza dell’attivazione dei poteri istruttori, esclusa, per un verso dalla non credibilità delle dichiarazioni del richiedente, per altro verso, dagli accertamenti effettuati – con il ricorso a fonti internazionali – circa la situazione della zona di provenienza dell’istante Il rigetto del ricorso non comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, non essendosi il Ministero dell’Interno costituito in giudizio.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 13 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 27 giugno 2019

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