Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.17315 del 27/06/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VALITUTTI Antonio – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20737/2018 proposto da:

A.M., domiciliato in Roma, P.zza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato Natale Luigi, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore, domiciliato in Roma, Via Dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di NAPOLI, del 19/06/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 13/03/2019 dal Cons. Dott. AMATORE ROBERTO.

RILEVATO

che:

1. Con il decreto impugnato il Tribunale di Napoli – decidendo sulla opposizione al provvedimento emesso dalla Commissione territoriale di Caserta (con il quale era stata negata a A.M., cittadino del Bangladesh, la richiesta protezione internazionale per il reclamato status di rifugiato e, in via subordinata, per la invocata protezione sussidiaria e umanitaria) – ha rigettato le richieste di protezione avanzate dal ricorrente.

Il tribunale ha ritenuto non credibile il racconto del richiedente in ordine alle ragioni che lo avevano indotto a fuggire dal suo paese di origine, avendo il ricorrente narrato di essere stato costretto a fuggire dal Bangladesh per sottrarsi ad una possibile condanna a morte, in seguito all’uccisione del cugino per una disputa ereditaria. Il tribunale ha, infatti, ritenuto non credibile la versione dei fatti raccontata in quanto non era verosimile che un indiziato di omicidio riuscisse così facilmente ad espatriare, attraversando anche la Malesia e la Turchia, e che i suoi familiari continuassero a vivere tranquillamente in Bangladesh, nonostante la descritta faida familiare che aveva condotto anche alla uccisione del cugino.

Il giudice del merito ha, infatti, ritenuto non fondata la domanda volta al riconoscimento dello status di rifugiato, non essendo credibile il narrato del richiedente e ha, del pari, valutato come infondata anche la richiesta di protezione sussidiaria, non configurandosi le ipotesi previste dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14; ha evidenziato, in ordine a quest’ultimo profilo di tutela, che il Bangladesh è un paese democratico non interessato da conflitti interni generalizzati, nonostante sia interessato da criticità per il conflitto politico tra i partiti e per la violazione del diritto di espressione. Il tribunale impugnato ha altresì osservato che non ricorrevano, nel caso di specie, neanche le condizioni per il riconoscimento della protezione umanitaria ai sensi del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, non potendosi rintracciare, nel caso di specie, una condizione di particolare vulnerabilità del ricorrente.

2. Il decreto, pubblicato il 19.6.2018, è stata impugnata da A.M. con ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, cui ha replicato con controricorso il Ministero dell’Interno.

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo la parte ricorrente – lamentando, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, artt. 3 e 5 e del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8, comma 3 e art. 27, comma 1 bis – si duole dell’erroneità della decisione impugnata perchè fondata sulla sola valutazione di non credibilità soggettiva del richiedente, senza che il tribunale avesse, come era suo onere, attivato i suoi poteri officiosi istruttori per verificare le condizioni socio-politiche del paese di provenienza del richiedente. Si evidenzia ancora l’erroneità della decisione impugnata laddove aveva respinto la domanda di protezione per la mancata prova da parte del richiedente delle circostanze allegate a sostegno della esistenza della situazione di pericolo determinante la ragione di fuga dal paese di provenienza.

2. Con un secondo motivo si articola, sempre in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, vizio di violazione e falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, artt. 2, 7, 8 e 11 e al D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 2. Osserva il ricorrente che il diniego del reclamato riconoscimento dello status di rifugiato era stato argomento dal giudice del merito sulla base della ritenuta non credibilità del narrato del richiedente e sulla valutata assenza di una persecuzione statale in suo danno. Si evidenzia che quanto narrato dal ricorrente – per giustificare le ragioni della fuga dal paese di origine – non era stato smentito da alcuna acquisizione istruttoria di segno contrario e che, peraltro, il tribunale non aveva adeguatamente argomentato in ordine all’insussistenza dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato.

3. Con un terzo motivo si articola, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, vizio di violazione e falsa applicazione di legge in riferimento al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, comma 3 e art. 14, lett. c e al D.Lgs. 2 gennaio 2008, n. 25, art. 8, comma 3. Si denuncia come inapplicato, anche in relazione alla negata protezione sussidiaria, il potere istruttorio officioso del tribunale per la concreta verifica delle condizioni socio-politiche del paese di provenienza del richiedente. Osserva, ancora, il ricorrente che le valutazioni espresse dal tribunale in ordine alle predette condizioni erano non attuali e poco approfondite, posto che il più recente rapporto informativo di Amnesty International 2017-2018 aveva invece evidenziato una situazione di forte insicurezza socio-politica e di violenza indiscriminata in Bangladesh, violenza collegata alla contesa tra i partiti politici e alla prepotente attività persecutoria svolta dalle forze di polizia.

4. Con il quarto motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, comma 3, lett. a e del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8, comma 3. Richiede la parte ricorrente un diverso apprezzamento rispetto a quello espletato dal tribunale in ordine alla valutazione dei presupposti per il riconoscimento della richiesta protezione umanitaria. Osserva il ricorrente che l’attuale condizione socio-politica del Bangladesh giustificava il rilascio del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie.

5. Il ricorso è infondato.

Deve essere subito precisato che la mancanza della pag. 2 del provvedimento impugnato non rende improcedibile il ricorso, giacchè la pagina mancante non contiene allegazioni rilevanti per stabilire la fondatezza o meno delle censure proposte (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 25407 del 12/12/2016).

5.1 Già il primo motivo è formulato in modo inammissibile.

Osserva la Corte come la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisca, invero, un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma. 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito. Per contro, poichè il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, mentre l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità, il giudizio di fatto circa la credibilità del ricorrente non può essere censurato sub specie della violazione di legge (Cass., 05/02/2019, n. 3340).

Ciò posto, va osservato come la parte ricorrente lamenti – in modo, peraltro, generico – la mancata attivazione dei poteri istruttori officiosi del giudice per la verifica delle condizioni socio-politiche del paese di provenienza del ricorrente, senza allegare in alcun modo quale siano le condizioni di quel paese tali da far ritenere sussistente il diritto del ricorrente ad ottenere lo status di rifugiato.

Detto altrimenti, non si può censurare la decisione impugnata sotto il profilo della mancata attivazione dei poteri istruttori del giudice del merito, senza dimostrare da parte del ricorrente di avere, nei gradi di merito, allegato quelle condizioni fattuali tali da far configurare una situazione di effettiva persecuzione del richiedente e di legittimare l’approfondimento istruttorio di quelle condizioni socio-politiche del paese di provenienza incompatibili con le peculiari condizioni soggettive del richiedente. Senza contare che l’accertamento del giudice di merito deve innanzi tutto avere ad oggetto la credibilità soggettiva della versione del richiedente circa l’esposizione a rischio grave alla vita o alla persona. Qualora le dichiarazioni siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non occorre procedere ad un approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine, salvo che – ipotesi neppure allegata nella specie – la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori (Cass., 27/06/2018, n. 16925; Cass., 12/11/2018, n. 28862).

5.2 Il secondo motivo di censura è infondato in ragione della dichiarazione di inammissibilità del primo motivo.

Requisito essenziale per il riconoscimento dello “status” di rifugiato è, invero, il fondato timore di persecuzione “personale e diretta” nel Paese d’origine del richiedente, a causa della razza, della religione, della nazionalità, dell’appartenenza ad un gruppo sociale ovvero per le opinioni politiche professate. Il relativo onere probatorio – che riceve un’attenuazione in funzione dell’intensità della persecuzione – incombe sull’istante, per il quale è tuttavia sufficiente dimostrare, anche in via indiziaria, la “credibilità” dei fatti allegati, i quali, peraltro, devono avere carattere di precisione, gravità e concordanza (Cass. 14157/2016).

Nel caso concreto, come si è detto, la credibilità è stata, per contro, esclusa con valutazione di fatto mai censurata dal ricorrente.

5.3 Il terzo motivo è, in parte, inammissibile e, in altra parte, infondato. Anche qui ricorrono i profili di genericità ed irricevibilità della doglianza già evidenziati in riferimento al primo motivo.

E’, poi, evidente che i presupposti di cui all’art. 14, lett. a) e b) (condanna a morte e tortura) sono esclusi per effetto della non credibilità del richiedente. Quanto al riconoscimento della protezione sussidiaria, a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, va, difatti, rappresentata dal ricorrente come minaccia grave e individuale alla sua vita, sia pure in rapporto alla situazione generale del paese di origine, ed il relativo accertamento costituisce apprezzamento di fatto di esclusiva competenza del giudice di merito non censurabile in sede di legittimità (Cass., 12/12/2018, n. 32064). Nel caso concreto, il Tribunale ha accertato – mediante il ricorso a fonti internazionali aggiornate – la insussistenza di una situazione di violenza indiscriminata nel Bangladesh, ed il mezzo ripropone in realtà questioni di merito non scrutinabili in questo giudizio di legittimità.

5.4 Il quarto motivo è infondato.

Ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria – secondo la disciplina previgente, applicabile ratione temporis (Cass. 4890/2019) – è evidente che l’attendibilità della narrazione dei fatti che hanno indotto lo straniero a lasciare il proprio Paese svolge un ruolo rilevante, atteso che ai fini di valutare se il richiedente abbia subito nel paese d’origine una effettiva e significativa compromissione dei diritti fondamentali inviolabili, pur partendo dalla situazione oggettiva del paese d’origine, questa deve essere necessariamente correlata alla condizione personale che ha determinato la ragione della partenza, secondo le allegazioni del richiedente (Cass. 4455/2018), la cui attendibilità soltanto consente l’attivazione dei poteri officiosi. Il che è stato escluso, nel caso di specie, per i motivi suesposti e il motivo si limita peraltro a formulare solo considerazioni astratte e di principio.

Ne consegue il complessivo rigetto del ricorso.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come da separato dispositivo.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, complessivamente liquidate in Euro 2.100 per compensi, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 13 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 27 giugno 2019

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