Il rispetto del principio di personalità della prestazione, che connota i rapporti di cui agli art. 2229 c.c. e segg., ben può contemperarsi con l’autonomia pur riconosciuta allo studio associato, nel senso che, pur potendosi attribuire la titolarità dei diritti di credito derivanti dallo svolgimento dell’attività professionale degli associati allo studio, resta obbligatorio che lo svolgimento della prestazione sia resa personalmente dal singolo associato munito dei requisiti che la legge impone per la prestazione richiesta, non rientrando il diritto di credito a titolo di compenso per l’attività svolta tra quelli per i quali sussiste un divieto assoluto di cessione.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –
Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –
Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –
Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –
Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 8378/2015 proposto da:
P.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA VARRONE 9, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO VANNICELLI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato SAMANTHA GUZZARDI giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
A.M.R., elettivamente domiciliata in ROMA alla VIA TACITO 41 presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO DI CIOMMO che la rappresenta e difende giusta procura a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 282/2014 della CORTE D’APPELLO di TRENTO, depositata il 23/09/2014;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 22/03/2019 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;
Lette le memorie depositate da entrambe le parti.
RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO 1. A.M.R., quale socia accomandataria della società Consulteam s.a.s., all’epoca di introduzione del giudizio, già cancellata dal registro delle imprese, proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Trento in favore del rag. P.A. per l’attività professionale svolta in favore della società estinta e relativa alla difesa ed assistenza in un contenzioso tributario, conclusosi poi favorevolmente per la società con pronuncia di rigetto del ricorso per cassazione promosso dall’Agenzia delle Entrate.
Deduceva l’opponente che il creditore era partecipe di uno studio professionale associato operante in Trento, al quale aderiva anche B.R., genero dell’opponente e che era prassi dello studio associato quella di praticare sconti e trattamenti di favore gli associati, ai loro congiunti e alle società ai medesimi riferibili in relazione alle prestazioni professionali rese.
Pertanto, con la fattura n. *****, riferentesi proprio alle prestazioni professionali offerte dal P. per il giudizio in cassazione, era stato applicato uno sconto di Euro 3.202,99, residuando un onorario di fatto simbolico di Euro 104,80 che era stato versato, così che avendo l’opponente separatamente provveduto a saldare i compensi dovuti agli avvocati che avevano assistito la società in cassazione, nulla era più dovuto, dovendo altresì escludersi che fosse richiedibile da parte dell’opposto il compenso per il giudizio di ottemperanza, che invece era stato curato da altro professionista.
Si costituiva il P. il quale contestava l’esistenza di un accordo di gratuità per i compensi richiesti e rilevava che la fattura prodotta dalla controparte era stata emessa a sua insaputa, sicchè non poteva pregiudicare le sue ragioni creditorie.
Il Tribunale di Trento, con la sentenza n. 44 del 17 gennaio 2013 accoglieva solo in parte l’opposizione, determinando nella minor somma di Euro 7.367,70 il credito spettante all’opposto, ritenendo che non era stata provata l’esistenza di un accordo per la gratuità del compenso ovvero per l’applicabilità di uno sconto.
La Corte d’Appello di Trento con la sentenza n. 282 del 23 settembre 2014, ha accolto il gravame della A., revocando il decreto ingiuntivo opposto, ed affermando che non sussisteva alcuna residua ragione di credito in favore dell’appellato.
Nell’esaminare la doglianza concernente la pretesa efficacia estintiva della fattura emessa dallo studio associato, rilevava che dalla deposizione resa dalla segretaria dello stesso studio emergeva che la fattura era stata predisposta sulla base della prestazione resa dal P. quale risultante dalla pratica in possesso dello studio e che la stessa, come di norma avveniva, era frutto di una bozza che era redatta da parte dei professionisti associati.
In tal senso rilevava anche la previsione dello statuto dell’associazione, come modificato con atto del 12 aprile 2000, dal quale emergeva che “i compensi di qualsiasi natura derivanti dalle attività professionali spettano e possono essere riscossi solo dall’Associazione” (art. 17), la quale aveva disposto in via negoziale che l’associazione fosse titolare dei crediti professionali maturati dagli associati, posto che la stessa associazione sosteneva le spese di gestione dello studio e curava la distribuzione degli utili.
Nel potere di riscossione doveva ritenersi incluso anche quello di disporre del credito, mediante l’applicazione di sconti ovvero la rinuncia.
La fattura richiamata dall’opponente, pur a voler ammettere che i singoli associati conservino il diritto di agire autonomamente per la riscossione dei loro crediti, era in ogni caso opponibile all’appellato, stante il riconoscimento di un’autonoma legittimazione a disporre del credito anche in capo allo studio associato, sicchè una volta emessa la fattura non poteva il P. pretendere compensi per i quali risultava già essere stato saldato quanto ritenuto dovuto.
La sentenza impugnata ha poi rilevato che non poteva condividersi l’assunto del Tribunale secondo cui fosse ormai preclusa la questione concernente la titolarità del credito, in quanto la contestazione de qua non si configurava alla stregua di un’eccezione in senso stretto, ma atteneva al merito e rappresentava una mera difesa.
L’univoco riferimento nella citazione in opposizione alla fattura emessa dallo studio associato, e la successiva illustrazione nella memoria ex art. 183 c.p.c., comma 6, della sua incidenza sulla titolarità del credito, impedivano quindi di ritenere che l’appellante fosse incorsa in preclusioni.
Pertanto, essendo emerso che con il saldo della fattura richiamata fosse stato estinto il credito vantato dal P., l’opposizione doveva essere accolta.
Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso P.A. sulla base di sei motivi.
A.M.R. ha resistito con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
2. Il primo motivo di ricorso denuncia ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione delle norme di cui agli artt. 2229 c.c.e segg., in relazione al diritto al compenso spettante per lo svolgimento di una prestazione intellettuale.
Deduce il ricorrente che la sentenza ha attribuito rilevanza al fine di regolare i rapporti tra il prestatore d’opera intellettuale ed il cliente alla condotta di un soggetto terzo, quale lo studio associato, trascurando che il diritto di credito derivante dallo svolgimento di attività protetta è incedibile, stante il principio di personalità dell’esecuzione della prestazione.
La creazione di uno studio associato, che costituisce una soggettività giuridica autonoma diversa rispetto a quella dei singoli professionisti che vi partecipano, non consente di incidere sui rapporti derivanti dall’esecuzione della prestazione d’opera intellettuale.
Il motivo è infondato.
Alla luce dei più recenti sviluppi della giurisprudenza di questa Corte, deve ormai reputarsi superato l’orientamento, pur manifestato in alcune pronunce di legittimità, a mente del quale (cfr. Cass. n. 15633/2006) l’associazione tra professionisti – nella specie, tra avvocati – non configurandosi come centro autonomo di interessi dotato di propria autonomia strutturale e funzionale, nè come ente collettivo, non assume la titolarità del rapporto con i clienti, in sostituzione ovvero in aggiunta al professionista associato).
La stessa difesa del ricorrente appare invece ben consapevole dell’avvenuta assimilazione da parte delle decisioni più recenti di questa Corte dell’associazione tra professionisti, sub specie di studio associato, all’associazione ex art. 36 c.c., assimilazione dalla quale si è tratta la conclusione, conforme a quella raggiunta dal giudice di appello, per la quale (cfr. Cass. n. 15694/2011), poichè l’art. 36 c.c., stabilisce che l’ordinamento interno e l’amministrazione delle associazioni non riconosciute sono regolati dagli accordi tra gli associati, che ben possono attribuire all’associazione la legittimazione a stipulare contratti e ad acquisire la titolarità di rapporti, poi delegati ai singoli aderenti e da essi personalmente curati, ne consegue che, ove il giudice del merito accerti tale circostanza, sussiste la legittimazione attiva dello studio professionale associato – cui la legge attribuisce la capacità di porsi come autonomo centro d’imputazione di rapporti giuridici – rispetto ai crediti per le prestazioni svolte dai singoli professionisti a favore del cliente conferente l’incarico, in quanto il fenomeno associativo tra professionisti può non essere univocamente finalizzato alla divisione delle spese ed alla gestione congiunta dei proventi (conf. Cass. n. 15417/2016; Cass. n. 8768/2018 che ha ribadito l’assimilazione della figura in esame alle associazioni non riconosciute).
Non appare poi contraddire tale esito il diverso principio affermato da Cass. n. 17683/2010, alla quale si appella la difesa del ricorrente, a mente della quale lo studio professionale associato anche se privo di personalità giuridica rientra a pieno titolo nel novero di quei fenomeni di aggregazione di interessi (quali le società personali, le associazioni non riconosciute, i condomini edilizi, i consorzi con attività esterna e i gruppi Europei di interesse economico di cui anche i liberi professionisti possono essere membri) cui la legge attribuisce la capacità di porsi come autonomi centri di imputazione di rapporti giuridici e che sono perciò dotati di capacità di stare in giudizio come tali, in persona dei loro componenti o di chi, comunque, ne abbia la legale rappresentanza secondo il paradigma indicato dall’art. 36 c.c..
Infatti, fermo restando che il suddetto studio professionale associato non può legittimamente sostituirsi ai singoli professionisti nei rapporti con la clientela, ove si tratti di prestazioni per l’espletamento delle quali la legge richiede particolari titoli di abilitazione di cui soltanto il singolo può essere in possesso, il rispetto del principio di personalità della prestazione, che connota i rapporti di cui agli art. 2229 c.c. e segg., ben può contemperarsi con l’autonomia pur riconosciuta allo studio associato, nel senso che, pur potendosi attribuire la titolarità dei diritti di credito derivanti dallo svolgimento dell’attività professionale degli associati allo studio, resta obbligatorio che lo svolgimento della prestazione sia resa personalmente dal singolo associato munito dei requisiti che la legge impone per la prestazione richiesta, non rientrando il diritto di credito a titolo di compenso per l’attività svolta tra quelli per i quali sussiste un divieto assoluto di cessione, come peraltro ammesso anche ai fini tributari da questa Corte (cfr. Cass. n. 28957/2008 che, in relazione all’attività di arbitro svolta da un avvocato, e che rientra tra quelle tipiche della sua professione, ha ammesso che possa essere svolta da un professionista aderente ad una associazione professionale, costituita ai sensi della L. 23 novembre 1939, n. 1815, art. 1, ritenendo legittimamente che il professionista imputi compensi derivanti dall’attività di arbitro all’associazione professionale, ove tale obbligo sia previsto dall’atto costitutivo dell’associazione professionale, come peraltro ritenuto nella fattispecie, alla luce delle previsioni statutarie, oggetto del secondo motivo di ricorso).
3. Il secondo motivo di ricorso denuncia ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione degli artt. 1362 c.c. e segg., in tema di interpretazione della comune intenzione dei contraenti, in riferimento all’esegesi offerta degli artt. 16 e 17 dello statuto associativo, come modificato in data 12 aprile 2000.
A detta del ricorrente, l’interpretazione della clausola di cui all’art. 17, nel senso che la titolarità dei crediti spetterebbe in via esclusiva allo studio associato” sarebbe erronea e contrasterebbe, oltre che con la rubrica dell’articolo, anche con quanto emerso dalla prova testimoniale.
Al più potrebbe attribuirsi alla clausola l’idoneità a fondare un semplice mandato all’incasso conferito dagli associati all’associazione, e non anche una vera e propria cessione del diritto al compenso.
Anche tale motivo deve essere disatteso.
Ed, invero, una volta ribadita la possibilità che, con apposite clausole statutarie lo studio associato possa divenire titolare delle ragioni di credito derivanti dallo svolgimento dell’attività professionale dei singoli associati, come esposto in occasione della disamina del motivo che precede, va ricordato che costituisce principio di diritto del tutto consolidato presso questa Corte di legittimità quello secondo il quale, con riguardo all’interpretazione del contenuto di una convenzione negoziale adottata dal giudice di merito, l’invocato sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sè, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati appunto a quel giudice, ma deve appuntarsi esclusivamente sul (mancato) rispetto dei canoni normativi di interpretazione dettati dal legislatore agli artt. 1362 c.c. e segg. e sulla (in) coerenza e (il)logicità della motivazione addotta (cosi, tra le tante, Cass., Sez. 3, 10 febbraio 2015, n. 2465): l’indagine ermeneutica, è, in fatto, riservata esclusivamente al giudice di merito, e può essere censurata in sede di legittimità solo per inadeguatezza della motivazione o per violazione delle relative regole di interpretazione (vizi entrambi impredicabili con riguardo alla sentenza oggi impugnata), con la conseguenza che non può trovare ingresso la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca nella prospettazione di una diversa valutazione ricostruttiva degli stessi elementi di fatto esaminati dal giudice a quo.
In disparte la carenza del requisito di specificità del motivo nella parte in cui si adduce l’erroneità dell’esito ermeneutico al quale è pervenuta la Corte distrettuale facendo riferimento al contenuto delle prove testimoniali raccolte in giudizio, ovvero a missive inviate in epoca successiva all’emissione della fattura ed alla richiesta di pagamento avanzata personalmente dal P., omettendo però, in violazione del principio di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, di riportarne ancorchè per sintesi ed in relazione alle parti che rilevano ai fini della censura in esame, il contenuto in ricorso, ovvero di indicare, in relazione ai documenti, quando siano stati versati in causa e dove gli stessi siano attualmente reperibili, deve reputarsi che l’interpretazione alla quale è giunta la Corte di merito in ordine alle previsioni statutarie non può essere tacciata di implausibilità, rivelando quindi che la doglianza del ricorrente si risolve nella richiesta, che non può avere accoglimento in questa sede, di pervenire ad una diversa ed alternativa lettura del testo negoziale.
A prescindere, infatti, dal contenuto della rubrica, l’art. 17 dello statuto recita espressamente che “i compensi di qualsiasi natura derivati dalle attività professionali spettano e possono essere riscossi solo dall’Associazione”.
Orbene, una volta ritenuto che anche il credito oggetto del presente giudizio risulti evidentemente scaturire dall’attività professionale svolta dal P., partecipe dello studio associato, l’utilizzo del verbo “spettano” in aggiunta alla previsione della facoltà di riscossione rende non implausibile la tesi fatta propria dalla sentenza gravata secondo cui non si fosse al cospetto di una semplice previsione di conferimento di un mandato all’incasso, come invece sostenuto dalla difesa del ricorrente, ma che gli associati avessero inteso attribuire la stessa titolarità del diritto allo studio, trovando tale attribuzione una sua giustificazione nelle ulteriori previsioni statutarie (il che in conformità della regola di interpretazione sistematica di cui all’art. 1363 c.c.) che disponevano che fosse lo studio a dover sostenere le spese di gestione dello studio e che si dovesse poi procedere alla distribuzione degli utili (previsione quest’ultima che chiaramente presuppone una gestione unitaria dei compensi, in vista di una successiva ripartizione dell’attivo, sicchè la diversa tesi fatta propria dal P. rischierebbe di vanificare la stessa portata negoziale dell’art. 16, in contrasto con la regola di cui all’art. 1367 c.c.).
4. Il terzo motivo di ricorso denuncia sempre ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione dell’art. 116 c.p.c., nonchè degli artt. 2697 e 2233 c.c., per avere i giudici di merito ravvisato l’esistenza di un accordo di gratuità della prestazione professionale.
Si assume che la Corte d’Appello ha riscontrato l’esistenza di una prassi secondo cui lo studio era uso praticare dei consistenti sconti in favore degli stretti congiunti degli associati, fondandosi sul solo contenuto della fattura, che reca appunto il riferimento ad uno sconto concordato.
Inoltre non si sarebbe tenuto conto della circostanza che una parte dell’attività professionale per la quale è stato richiesto il compenso sarebbe successiva alla data di emissione della fattura, in quanto era stato richiesto il pagamento anche per la redazione della memoria illustrativa in vista della decisione della Corte di Cassazione (sentenza di questa Corte n. 19210/2006, pubblicata in data 6/9/2006 all’esito dell’udienza del 14/6/2006), così che in relazione a tale attività al P. non poteva essere opposto uno sconto praticato in epoca anteriore.
Il sesto motivo di ricorso lamenta poi ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omessa disamina di un fatto decisivo per il giudizio, rappresentato dal fatto che la prestazione svolta dal P. nell’interesse della società di cui era socia la A. era iniziata sin dal 1994, in epoca anteriore alla stessa creazione dell’associazione professionale, sicchè pur essendo l’attività cessata in epoca successiva, il credito maturato esulava da quelli suscettibili di rientrare nella titolarità dello studio. Del pari era stato omesso di valutare che, sebbene la fattura recasse la data del dicembre del 2005, la prestazione svolta dal P. in relazione alla difesa della società in sede di legittimità,'”si era protratta anche nel 2006.
I motivi che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione sono infondati.
Il terzo motivo a ben vedere non contiene alcuna denuncia del paradigma dell’art. 2697 c.c. e di quello dell’art. 116 c.p.c., bensì lamenta soltanto un’erronea valutazione di risultanze probatorie.
La violazione dell’art. 2697 c.c., si configura se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni, mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato alla “valutazione delle prove” (Cass. n. 11892 del 2016; Cass. S.U. n. 16598/2016).
Costituisce giurisprudenza costante di questa Corte quella secondo cui (cfr. Cass. n. 23893/2016) nel contratto di prestazione d’opera intellettuale, come nelle altre ipotesi di lavoro autonomo, l’onerosità è elemento normale, anche se non essenziale, sicchè, per esigere il pagamento, il professionista deve provare il conferimento dell’incarico e l’adempimento dello stesso, e non anche la pattuizione di un corrispettivo, mentre è onere del committente dimostrare l’eventuale accordo sulla gratuità della prestazione; tuttavia (cfr. Cass. n. 2769/2014) le disposizioni degli artt. 2229 c.c. e segg., che disciplinano il contratto d’opera intellettuale, non escludono la legittimità di accordi di prestazione gratuita, nè determinano una presunzione di onerosità, nemmeno “iuris tantum” (conf. Cass. n. 21251/2007; Cass. n. 8787/2000).
Nèp fattispecie, i giudici di appello hanno tratto il convincimento circa l’esistenza di una volontà in tale direzione dell’associazione, a tanto legittimata in base alle previsioni statutarie che le attribuivano la titolarità del diritto di credito, partendo in primo luogo dal contenuto della fattura, che reca espressamente il riferimento alla applicazione di uno sconto, ritenendo che l’aggettivo “concordato” fosse effettivamente corrispondente ad una volontà degli associati, alla luce di quanto riferito dalla teste M. che, in veste di segretaria dello studio, aveva predisposto la fattura secondo le consuete modalità, ricordando che la prassi era nel senso che la sua attività riprendeva quanto emergeva da una bozza o da una comunicazione descrittiva compilata dagli stessi associati, sicchè la determinazione del suo importo, comprensiva anche dello sconto praticato, era in ogni caso da ricondurre ad una manifestazione di volontà degli associati o di chi, per conto dello studio, curava la riscossione dei crediti spettanti allo studio.
In tale prospettiva non rileva che sia stata fornita o meno la prova di una prassi costante nel senso di praticare consistenti sconti agli associati ovvero ai loro congiunti, fondandosi la decisione gravata piuttosto sulla verifica che nel caso di specie vi era la prova, sulla base del materiale istruttorio in atti, che uno sconto era stato praticato e che ciò corrispondeva ad un’effettiva volontà dello studio.
La censura pertanto si risolve, nella parte in cui denuncia la violazione dell’art. 2697 c.c. e art. 116 c.p.c., in una critica all’apprezzamento dei fatti operato dal giudice di merito, e come tale non suscettibile di avere spazio in questa sede, dovendosi altresì escludere, per quanto detto, che risulti violata la prescrizione di cui all’art. 2233 c.c..
Quanto invece alla collocazione cronologica delle attività professionali per le quali viene richiesto il compenso in questa sede, rileva il Collegio che, come ribadito dallo stesso ricorrente a pag. 33, la richiesta attiene alle sole prestazioni rese per la difesa della società nel giudizio di cassazione al quale si è fatto in precedenza riferimento.
A nulla rileva, al fine di sottrarre la pretesa creditoria all’ambito di applicazione delle previsioni statutarie, la circostanza che il P. abbia assistito la società, anche sotto forma di patrocinio dinanzi alle commissioni tributarie, a far data dal 1994 (laddove lo studio associato è stato costituito nell’aprile del 2000).
Vale al riguardo fare richiamo al costante principio di questa Corte secondo cui, ancorchè con riferimento al tema della prescrizione (cfr. Cass. n. 4951/2016) il contratto che ha per oggetto una prestazione di lavoro autonomo è da considerarsi unico in relazione a tutta l’attività svolta in adempimento dell’obbligazione assunta, sicchè il termine di prescrizione del diritto al compenso decorre dal giorno in cui è stato espletato l’incarico commesso, e non già dal compimento di ogni singola prestazione professionale in cui si articola l’obbligazione (conf. Cass. n. 7378/2009).
Trattasi di una piana applicazione del principio di postnumerazione del corrispettivo che la giurisprudenza trae dalle previsioni di cui agli artt. 2225 e 2233 c.c. (così espressamente in motivazione Cass. n. 24046/2006), sicchè, avuto riguardo a quanto specificato in controricorso (e cioè che la notifica del ricorso per cassazione da parte dell’Agenzia delle Entrate risaliva al mese di giugno del 2000), non può dubitarsi che l’esaurimento dell’attività del P. sia avvenuta in epoca successiva alla costituzione dello studio associato (e che anche lo stesso compimento delle singole attività per le quali si richiede il compenso sia avvenuto in data successiva), così che l’individuazione della data di inizio dell’attività professionale risulta priva del carattere della decisività.
Quanto invece alla diversa affermazione secondo cui sarebbe stato richiesto il compenso in sede giudiziale anche per attività che esulano dal contenuto della fattura sopra richiamata, rileva il Collegio che la sentenza impugnata, con accertamento in fatto, che non risulta specificamente censurato dal ricorrente, ha affermato a pag. 9 che la fattura n. 3277/05 e la parcella azionata nel presente giudizio si riferiscono alle stesse prestazioni.
Già tale affermazione rende evidente come non sussista l’omessa disamina del fatto decisivo, avendo i giudici di merito ritenuto che, a prescindere dalla data di definizione della controversia in cassazione, vi era assoluta identità tra le prestazioni fatturate e quelle di cui alla richiesta di pagamento. Il motivo, inoltre, difetta evidentemente del requisito di specificità ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, in quanto omette di riportare in ricorso il contenuto della parcella sulla scorta della quale il ricorrente ha poi richiesto ed ottenuto il decreto ingiuntivo opposto, impedendo di verificare se effettivamente vi sia diversità tra le prestazioni fatturate e quelle per le quali si è agito in questa sede (nè può rilevare la sola circostanza che il giudizio di cassazione in relazione al quale il P. ha prestato assistenza sia stato definito in data successiva a quella di emissione della fattura, atteso che la difesa in sede di legittimità è stata assunta da avvocati, e che il compito del P. è consistito nella collaborazione ai legali ai fini della predisposizione delle difese in sede di legittimità, compito che, in mancanza di elementi specificamente individuati in ricorso che consentano di collocare diversamente la sua attività dal punto di vista cronologico, ben poteva essersi già esaurito alla data di emissione della fattura).
5. Il quarto motivo denuncia ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3., la violazione dell’art. 167 c.p.c., in relazione all’art. 2697 c.c., per avere la Corte di merito ritenuto tempestivamente formulata l’eccezione di pagamento e quella sulla titolarità giuridica del rapporto.
I giudici di appello hanno sostenuto che la contestazione della titolarità del credito in capo al ricorrente non costituisce un’eccezione in senso stretto, ma rappresenta una mera difesa che ben poteva essere sviluppata, atteso il rinvio già in citazione all’emissione della fattura da parte dello studio associato, anche, come appunto avvenuto nella fattispecie, con le memorie di cui all’art. 183 c.p.c., comma 6.
Assume invece parte ricorrente che quella in esame sia un’eccezione in senso stretto e che per l’effetto non poteva essere delibata dal giudice di appello.
Il motivo deve essere disatteso, avendo la decisione gravata deciso la controversia conformemente al principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, che con la decisione n. 2951/2016, nel risolvere il contrasto che si era profilato tra diversi orientamenti di legittimità, hanno affermato che la carenza di titolarità, attiva o passiva, del rapporto controverso è rilevabile di ufficio dal giudice se risultante dagli atti di causa, in quanto la titolarità della posizione soggettiva, attiva o passiva, vantata in giudizio è un elemento costitutivo della domanda ed attiene al merito della decisione, sicchè spetta all’attore allegarla e provarla, salvo il riconoscimento, o lo svolgimento di difese incompatibili con la negazione, da parte del convenuto (conf. Cass. n. 15037/2016; Cass. n. 22525/2018).
A tali principi si è appunto attenuta la decisione impugnata che ha ritenuto che la contestazione quanto alla titolarità del diritto fatto valere in giudizio fosse una mera difesa, che vi era stata una puntuale contestazione da parte dell’opponente nei termini all’uopo deputati, con la memoria di cui all’art. 183 c.p.c., comma 6 e che la prova della titolarità del diritto in capo allo studio associato emergeva appunto dalla fattura alla quale la stessa A. aveva fatto richiamo già in citazione.
6. Il quinto motivo di ricorso lamenta infine la violazione dell’art. 345 c.p.c., comma 3, per avere la Corte d’Appello ritenuto ammissibile la produzione documentale effettuata dall’appellante per la prima volta in sede di gravame.
Il motivo è inammissibile.
Il ricorrente censura in realtà un’affermazione, relativa appunto alla pretesa ammissibilità della produzione di documenti avvenuta per la prima volta solo in grado di appello, che non risulta essere stata effettuata dai giudici di appello, richiamando a ben vedere quelle che sono le conclusioni formulate da parte appellante, così come riportate a pag. 2 della sentenza appellata, nella quale si dà atto che sono quelle formulate nell’atto di appello.
In alcuna parte della sentenza impugnata si può ricavare che la decisione sia stata fondata sulla scorta di documenti novellamente prodotti in grado di appello, come peraltro riconosce lo stesso ricorrente nel corpo del motivo in esame a pag. 32 del ricorso.
7. Al rigetto del ricorso consegue che le spese vanno regolate secondo il principio di soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
8. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, il comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
PQM
Rigetta il ricorso;
Condanna il ricorrente al rimborso delle spese in favore della controricorrente che liquida in complessivi Euro 3.000,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali, pari al 15% sui compensi, ed accessori di legge;
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 22 marzo 2019.
Depositato in Cancelleria il 2 luglio 2019
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