Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.26773 del 21/10/2019

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La perdita della qualità di socio in capo a chi non abbia sottoscritto la propria quota di ricostituzione del capitale sociale lascia permanere la legittimazione ad esperire le azione di annullamento e di nullità della deliberazione assembleare adottata ex art. 2447 o 2482 c.c., in quanto sarebbe logicamente incongruo, oltre che in contrasto con il principio di cui all’art. 24 Cost., comma 1, ritenere come causa del difetto di legittimazione proprio quel fatto che l’istante assume essere contra legem e di cui vorrebbe vedere eliminati gli effetti.

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAMBITO Maria Giovanna – Presidente –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – rel. Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23522/2015 proposto da:

Ruvo Servizi S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Lungotevere Marzio n. 1, presso lo studio dell’avvocato Macario Francesco, rappresentata e difesa dall’avvocato Chionna Vincenzo Vito, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

M.G., elettivamente domiciliato in Roma, Via C.

Fracassini n. 18, presso lo studio dell’avvocato Bailo Federico, rappresentato e difeso dall’avvocato Petrarota Vito, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1438/2014 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 16/09/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 26/06/2019 dal cons. Dott. NAZZICONE LOREDANA;

lette le conclusioni scritte del P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARDINO ALBERTO, che ha chiesto che la Corte di cassazione voglia rigettare il ricorso.

FATTI DI CAUSA

M.G. impugnò davanti al Tribunale di Trani la deliberazione adottata in data 16 maggio 2017, con la quale l’assemblea dei soci della Ruvo Servizi s.r.l., in ragione della perdita di oltre un terzo del capitale sociale che ne aveva determinato la riduzione al di sotto del limite legale, procedeva ad azzerare il capitale ed a ricostituirlo ad Euro 165.000,00 in via scindibile (con ulteriore riduzione ad Euro 70.400,00, al fine di eliminare le perdite residue), imputando a capitale le somme già versate dal socio di maggioranza in conto futuro aumento di capitale, in adempimento dell’obbligo imposto ai soci con Delib. 28 luglio 2016, e vincolando la sottoscrizione delle quote di spettanza dei soci di minoranza al versamento delle somme dovute dai medesimi in esecuzione della detta Delib. 2016.

A conforto dell’impugnazione il socio deduceva, tra l’altro, il fatto che l’aumento fosse stato adottato in violazione dell’art. 2481 c.c., comma 2, in quanto le quote sottoscritte dalla Prisma soc. consortile a r.l., l’altra socia di minoranza, non erano state interamente liberate; nonchè in violazione dell’art. 2481-bis c.c., perchè era stato escluso, per mezzo del vincolo anzidetto, il suo diritto di opzione.

Il Tribunale con sentenza del 17 settembre 2010 respinse l’eccezione di inammissibilità od improcedibilità dell’impugnazione, opposta dalla società sul rilievo del difetto di legittimazione e di interesse ad agire del M., e ne accolse la domanda, ritenendo fondate entrambe le doglianze.

Propose appello la società, in ragione dell’errata applicazione dell’art. 2481 c.c., comma 2, non avendo il tribunale considerato che la norma vieta solo l’attuazione della delibera di aumento, ma non la sua adozione; e per aver ritenuto che la condizione posta ai fini della sottoscrizione delle quote di pertinenza dei soci di minoranza riguardasse anche il M., quando invece essa riguardava la sola Prisma soc. consortile a r.l. Propose, inoltre, appello incidentale il socio, con riguardo ai motivi disattesi di invalidità della deliberazione.

Con sentenza del 5 marzo 2015, la Corte d’appello di Bari ha respinto le impugnazioni, principale ed incidentale.

Avverso questa sentenza viene proposto ricorso dalla società, affidato a quattro motivi. Resiste l’intimato con controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – I motivi di ricorso vanno così riassunti:

1) violazione e falsa applicazione dell’art. 2481 c.c., comma 2, in quanto l’aumento del capitale sociale non può essere precluso per il mero inadempimento di un socio all’obbligo di versare i 7/10, dovuti al fine di liberare l’intero conferimento iniziale, posto che ciò finirebbe per impedire, a discrezione del socio stesso, qualsiasi aumento del capitale, paralizzando l’attività sociale; in ogni modo, la norma vieta l’esecuzione, non l’assunzione della delibera di aumento, che resta valida;

2) omesso esame di fatto decisivo e conseguente violazione dell’art. 2481 c.c., comma 2, non avendo la corte del merito considerato che la deliberazione assembleare era imposta dalle particolari condizioni economiche della società, in relazione alle perdite maturate nei due esercizi precedenti, onde è applicabile l’art. 2482-ter c.c., il quale, anzi, impone la riduzione e la ricostruzione del capitale sociale; mentre ritenere precluso l’aumento in ragione solo del mancato versamento, da parte del socio Prisma soc. coop. a r.l., del conferimento iniziale affiderebbe le sorti della società proprio al socio inadempiente;

3) violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 c.c. e ss. e art. 2481-bis c.c., in quanto la Delib. assembleare 16 maggio 2007 aveva semplicemente subordinato l’esercizio del diritto di opzione della socia Prisma soc. coop. a r.l. alla circostanza che fossero stati da essa integralmente eseguiti i conferimenti precedentemente dovuti, e non somme ulteriori o diverse; laddove, nulla dovendo a tal titolo il M., il suo diritto di opzione non era subordinato a nessuna condizione;

4) violazione e falsa applicazione degli artt. 2479 e 2479-ter c.c., in quanto al socio M. non spetta la legittimazione attiva all’azione di impugnazione della deliberazione, posto che egli aveva perso la qualità in virtù dell’azzeramento del capitale sociale, dal medesimo liberamente non sottoscritto in occasione della sua successiva ricostituzione.

2. – La corte territoriale ha ritenuto viziata la deliberazione assembleare del 16 maggio 2007, con la quale l’assemblea ha azzerato il capitale sociale di Euro 114.524,00, con successivo aumento ad Euro 165.000,00 ed ulteriore riduzione ad Euro 70.400,00, al fine di ripianare le perdite residue.

Ha osservato che l’annullamento della deliberazione deriva, in primo luogo, dal fatto che, essendo stato l’aumento seguito da una nuova riduzione del capitale, il primo avrebbe dovuto avvenire dopo che i conferimenti iniziali fossero stati tutti eseguiti, a norma dell’art. 2481 c.c., comma 2, non essendo a ciò sufficiente la mera adozione del decreto ingiuntivo, ottenuto dalla società contro la socia morosa Prisma soc. coop. a r.l.

Ha osservato che la delibera è illegittima, in secondo luogo, in quanto, in seguito all’azzeramento del capitale sociale, la società aveva offerto ai soci la possibilità di sottoscrivere le nuove quote in proporzione alle loro partecipazioni, tuttavia “subordinando tale sottoscrizione al versamento delle quote indicate nella Delib. luglio 2006”: infatti, il M. era stato obbligato a versare Euro 8.250,00, pari al 5% di Euro 165.000,00, come deciso nell’assemblea del 28 luglio 2006. Ma, continua la corte, non è lecito imporre al socio l’esecuzione di versamenti in favore della società, potendo ciò derivare solo da un obbligo dal medesimo liberamente assunto, onde detta condizione limitava indebitamente il diritto di sottoscrizione del socio.

Il socio non sottoscrittore, inoltre, ha legittimazione ad impugnare, sebbene la sua partecipazione sia stata azzerata dall’operazione sul capitale.

3. – Quest’ultima affermazione è coerente con il principio secondo cui la perdita della qualità di socio in capo a chi non abbia sottoscritto la propria quota di ricostituzione del capitale sociale lascia permanere la legittimazione ad esperire le azione di annullamento e di nullità della deliberazione assembleare adottata ex art. 2447 o 2482 c.c., in quanto sarebbe logicamente incongruo, oltre che in contrasto con il principio di cui all’art. 24 Cost., comma 1, ritenere come causa del difetto di legittimazione proprio quel fatto che l’istante assume essere contra legem e di cui vorrebbe vedere eliminati gli effetti.

Si tratta di principio costantemente affermato da questa Corte (cfr. Cass. 25 settembre 2013, n. 21889; Cass. 7 novembre 2008, n. 26842; ed altre), ciò conducendo al rigetto del quarto motivo di ricorso, da esaminare per primo in ragione della sua priorità logico-giuridica.

4. – Il terzo motivo, del pari da anteporre alla trattazione dei primi due, in quanto riguarda questione idonea a definire il giudizio, è inammissibile.

La corte del merito ha ravvisato, come risulta dalla motivazione della sentenza impugnata, almeno due ragioni di invalidità della deliberazione assunta dall’assemblea sociale del 16 maggio 2007: ovvero, la violazione dell’art. 2481 c.c., comma 2, per essere stato eseguito l’aumento in presenza di quote non liberate, e la illegittima subordinazione del diritto di sottoscrizione in capo al socio M. al previo versamento di una somma ulteriore, stabilito senza il suo consenso e frutto della precedente decisione assembleare del 28 luglio 2006.

Orbene, il terzo motivo del ricorso mira a censurare la seconda ratio decidendi e ragione di invalidità della deliberazione, che ha condotto la corte territoriale a confermare la sentenza di annullamento della deliberazione de qua: ma, sul punto, la ricorrente non formula un motivo ammissibile, in quanto esso difetta di specificità, non riportando la parte delle deliberazioni societarie da cui si possa desumere la violazione dei criteri interpretativi invocati.

Com’è noto, l’interpretazione del contratto e degli atti privati è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale o (nel vigore del nuovo art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) per assenza assoluta di motivazione: ai fini della censura di violazione dei canoni ermeneutici, pertanto, è anzitutto indispensabile, in ossequio al principio di specificità del ricorso di cui all’art. 366 c.p.c., la trascrizione del testo integrale della regolamentazione privata (Cass. 22 febbraio 2007, n. 4178; nonchè, fra le altre, Cass. 23 agosto 2018, n. 21010; Cass. 1 marzo 2012, n. 3218).

In mancanza, non è dunque dato al giudice di legittimità di effettuare il proprio controllo sulla interpretazione resa dalla corte del merito e sull’eventuale violazione dei canoni ermeneutici che la guidano, ai sensi degli artt. 1362 c.c. e ss..

5. – I primi due motivi sono inammissibili, secondo il consolidato principio per il quale, ove la sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l’omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l’autonoma motivazione non impugnata, in nessun caso potrebbe produrre l’annullamento della sentenza (Cass. 18 aprile 2017, n. 9752; Cass. 14 febbraio 2012, n. 2108; Cass. 3 novembre 2011, n. 22753).

6. – Le spese seguono la soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite per il giudizio di legittimità, liquidate in Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfetarie al 15% sui compensi ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 26 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 21 ottobre 2019

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