Prodotti o servizi, affinità, natura o destinazione, fungibilità, rischio della confusione

Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.31938 del 06/12/2019

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Prodotti o servizi, affinità, natura o destinazione, fungibilità, rischio della confusione

Si intendono affini quei prodotti o servizi che, per la loro natura, la loro destinazione alla medesima clientela o alla soddisfazione del medesimo bisogno, risultano in misura rilevante fungibili e, pertanto, in concorrenza, cosicchè la mancanza della distinzione precisa tra i segni che li identificano nel mercato comporta il rischio della confusione e, dunque, della illecita aggressione all’altrui avviamento e all’altrui clientela.

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – rel. Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 27808/2015 proposto da:

Perfetti Van Melle Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in Roma Via Crescenzio 20, presso lo studio dell’avvocato Cesare Persichelli, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato Paolina Ines Testa in forza di procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Pepsico Inc.;

– intimato –

e contro

Ministero dello Sviluppo Economico – Direzione Generale Lotta Contraffazione, elettivamente domiciliato in Roma Via Dei Portoghesi 12 presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ex lege;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 41/2015 della COMMISSIONE dei RICORSI contro i provvedimenti dell’UFFICIO ITALIANO BREVETTI E MARCHI di ROMA, depositata il 23/09/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 17/10/2019 dal Consigliere Dott. UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE SCOTTI.

FATTI DI CAUSA

1. In data 9/9/2011 la Perfetti Van Melle s.p.a. ha depositato la domanda di marchio italiano n. *****, pubblicata il 6/10/2011, avente ad oggetto un marchio figurativo contenente l’espressione “*****” stilizzata, in colore grigio contornato di bianco, su fondo rettangolare più scuro, per la classe 30 “caramelle, confetteria, pasticceria, dolci, chewing gum, caramello, cioccolato, gelatine, confetteria, caramelle gommose, lecca-lecca, toffees, mentine, liquirizia, zucchero, caffè, cacao”.

In data 27/9/2011 ha presentato opposizione Pepsico Inc. sulla base di tre marchi registrati per i prodotti delle classi *****, ossia il marchio comunitario denominativo n. *****, registrato il 21/1/2004, rappresentato dalla scritta “*****””, il marchio comunitario figurativo n. *****, registrato il 11/6/2011, contenente la scritta “*****”” stilizzata, inclinata verso destra e in rilievo; il marchio comunitario figurativo n. *****, su domanda del 13/10/2003, contenente la scritta “*****”” stilizzata, con forte connotazione ovale, inserita nell’ambito di un marchio complesso contenete anche la rappresentazione grafica dei prodotti (patatine, in formato particolare, a piramide a base triangolare).

L’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi ha ammesso l’opposizione e l’ha esaminata nel merito, accogliendola parzialmente, con esclusione dei prodotti “chewing gum, zucchero e cacao”, giudicati non affini.

Contro tale decisione ha presentato ricorso la Perfetti Van Melle a cui ha resistito la Pepsico Inc.

La Commissione dei ricorsi contro i provvedimenti dell’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi con provvedimento dell’8/6 -23/9/2015 ha accolto parzialmente il ricorso, limitatamente all’infondatezza dell’opposizione per le categorie merceologiche “caramello” e “caffè”, ulteriormente escluse, respingendolo per il resto, a spese compensate.

3. Avverso tale provvedimento, comunicato in data 8/10/2015, con atto notificato il 23/11/2015. ha proposto ricorso per cassazione la Perfetti Van Melle s.p.a., svolgendo tre motivi.

Con atto notificato il 29/12/2015 ha proposto controricorso il Ministero dello Sviluppo Economico, chiedendo la dichiarazione di inammissibilità o il rigetto dell’avversaria impugnazione.

L’intimata Pepsico Inc. non si è costituita in giudizio.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, la ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione all’art. 12, comma 1, lett. d), cod. propr. ind., con riferimento alla valutazione di affinità tra i prodotti destinati a essere contraddistinti dai marchi a confronto.

1.1. La Commissione, dopo aver correttamente premesso di poter prendere in considerazione la dispiegata opposizione solo per la categoria di prodotti per la quale Pepsico aveva fornito la prescritta prova d’uso (ossia le chips a base di mais) e per le categorie affini, aveva ritenuto che il rischio di confusione fosse configurabile limitatamente “a quei prodotti che presentino un elevato livello di sostituibilità dal lato della domanda”, finendo con il ravvisare tale requisito “per tutti i prodotti alimentari venduti in piccole confezioni, di prezzo unitario relativamente basso, e destinati a un consumo occasionale fuori pasto”.

Così ragionando con l’adozione del criterio della sostituibilità dal lato della domanda e trascurando la funzione di indicatore di origine del marchio, secondo la ricorrente, la Commissione aveva ignorato l’orientamento giurisprudenziale consolidato che collega la definizione di affinità alla funzione di indicazione di provenienza del marchio e ravvisa l’affinità laddove la clientela possa ragionevolmente ritenere il collegamento dei prodotti alla medesima fonte produttiva.

Inoltre l’adottato criterio del prezzo unitario sarebbe tautologico e privo di portata selettiva; l’affinità implica la comunanza di una qualità ontologica dei prodotti e non la mera appartenenza a un medesimo ambito culturale o di costume; il riferimento alla destinazione non aveva alcuna attinenza alla funzione di origine del marchio.

1.2. Il D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, art. 12, comma 1, lett. d), ossia del Codice della proprietà industriale, dispone che non possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa i segni che alla data del deposito della domanda “siano identici o simili ad un marchio già da altri registrato nello Stato o con efficacia nello Stato, in seguito a domanda depositata in data anteriore o avente effetto da data anteriore in forza di un diritto di priorità o di una valida rivendicazione di preesistenza per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o i servizi possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni”.

In vista della valutazione circa l’affinità fra i prodotti, che nella norma citata assume rilievo sia per selezionare la platea dei marchi anteriori pregiudicanti, sia sotto il profilo eziologico quale causa della confusione del pubblico, la Commissione si è conformata alla giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale si intendono affini quei prodotti o servizi che, per la loro natura, la loro destinazione alla medesima clientela o alla soddisfazione del medesimo bisogno, risultano in misura rilevante fungibili e, pertanto, in concorrenza, cosicchè la mancanza della distinzione precisa tra i segni che li identificano nel mercato comporta il rischio della confusione e, dunque, della illecita aggressione all’altrui avviamento e all’altrui clientela (Sez. 1, 18/08/2017, n. 20189, Rv. 645394-01, che ha ulteriormente precisato che non è idonea a provare tale affinità l’inclusione nella medesima classe dell’Accordo di Nizza del 15/6/1957, riveduto a Stoccolma il 14/7/1967, firmato a Ginevra il 13/5/1977, ratificato in Italia con L. 27 aprile 1982, n. 243, così come, al contrario, l’affinità non può essere esclusa dall’appartenenza a classi diverse dell’Accordo medesimo; in tal senso anche Sez. 1, n. 3639 del 13/02/2009, Rv. 606805-01).

Infatti l’affinità tra prodotti, ai fini della tutela contro la contraffazione dei relativi marchi, rilevante ai fini del giudizio di confondibilità tra gli stessi, postula che i beni o i prodotti siano ricercati ed acquistati dal pubblico in forza di motivazioni identiche, o strettamente correlate, tali per cui l’affinità funzionale tra essi esistente induca il consumatore a ritenere che provengano dalla medesima fonte produttiva, indipendentemente dall’eventuale uniformità dei canali di commercializzazione. L’identità delle esigenze che spingono all’acquisto dei prodotti di cui si afferma l’affinità merceologica non può, tuttavia, essere ancorata a criteri eccessivamente generici (quali l’esigenza di vestirsi, sfamarsi, dissetarsi, leggere, etc.), rischiandosi altrimenti di smarrire il nesso che, anche secondo nozioni di comune esperienza, deve potersi presumere esistente tra l’identità dei bisogni cui quei beni sono preordinati e l’unicità della loro fonte di provenienza, che costituisce la vera ragione di tutela del marchio (Sez. 1, n. 7414 del 13/04/2015, Rv. 635216-01; Sez. 1, n. 4386 del 04/03/2015, Rv. 634759-01).

L’apprezzamento sulla confondibilità va compiuto dal giudice di merito accertando non soltanto l’identità o almeno la confondibilità dei due segni, ma anche l’identità e la confondibilità tra i prodotti, sulla base quanto meno della loro affinità; tali giudizi non possono essere considerati tra loro indipendenti, ma sono entrambi strumenti che consentono di accertare la cosiddetta “confondibilità tra imprese” (Sez. 1, n. 24909 del 10/10/2008, Rv. 605119-01; Sez.1, 13/3/2009, n. 10218).

Il giudizio di affinità va fondato sulla fungibilità dei prodotti per la loro natura e la loro destinazione alla medesima clientela o alla soddisfazione del medesimo bisogno. Tale affinità implica la comunanza di una qualità ontologica dei prodotti, e non la mera appartenenza ad un medesimo ambito di origine culturale o di costo (Sez. 1, n. 23787 del 22/12/2004, Rv. 582601-01).

1.3. Non persuade neppure la critica sviluppata dalla ricorrente, che imputa alla sentenza impugnata di aver trascurato la fondamentale funzione del marchio di indicazione di provenienza e di non aver considerato la ragionevole probabilità che i consumatori possano ritenere il collegamento dei prodotti alla medesima fonte produttiva.

La Commissione ha valutato il rischio di confondibilità fra i prodotti anche in ragione delle loro qualità ontologiche, rapportate al tipo di bisogno che mirano a soddisfare, quale fattore concorrente per la formulazione del giudizio di confondibilità fra imprese produttrici, così considerando anche la funzione di indicatore di provenienza che connota l’uso del segno distintivo.

L’orientamento giurisprudenziale in questione, che attribuisce rilievo all’intrinseca natura dei prodotti, alla loro destinazione alla stessa clientela e alla soddisfazione degli stessi bisogni, mira all’adozione di un parametro di valutazione oggettivo, svincolato da criteri soggettivi collegati all’elaborazione della ragionevole capacità espansiva della produzione di una certa impresa e pur sempre presuppone che la vicinanza merceologica dei prodotti induca nel pubblico interessato la ragionevole convinzione della provenienza dalla stessa impresa, da apprezzarsi in un contesto commerciale dominato ormai da imprese plurisettoriali e non più monotematiche.

1.5. Le conclusioni raggiunte appaiono inoltre conformi al diritto Europeo.

La Direttiva 16/12/2015 n. 24362015/2436/CE, del Parlamento Europeo e del Consiglio sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa (rifusione), all’art. 5, comma 1, lett. b), prevede che l’esclusione della registrazione o la nullità del marchio identico o simile al marchio d’impresa anteriore se l’identità o somiglianza dei prodotti o servizi contraddistinti dai due marchi d’impresa può dar adito a un rischio di confusione per il pubblico comportante anche un rischio di associazione tra il marchio d’impresa e il marchio d’impresa anteriore.

Secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, un rischio di confusione presuppone nel contempo un’identità o una somiglianza tra il marchio di cui è chiesta la registrazione e il marchio anteriore e un’identità o una somiglianza tra i prodotti o i servizi indicati nella domanda di registrazione e quelli per i quali è stato registrato il marchio anteriore. Si tratta di condizioni cumulative; l’esistenza di un rischio di confusione per il pubblico deve quindi essere oggetto di valutazione globale, in considerazione di tutti i fattori pertinenti del caso di specie. Questa valutazione globale del rischio di confusione implica una certa interdipendenza tra i fattori che entrano in considerazione: così, un tenue grado di somiglianza tra i prodotti o i servizi designati può essere compensato da un elevato grado di somiglianza tra i marchi e viceversa.

Il carattere distintivo del marchio anteriore, in particolare la sua notorietà, va preso in considerazione per valutare se la somiglianza tra i prodotti o i servizi contraddistinti dai due marchi sia sufficiente a provocare un rischio di confusione. Tuttavia, per valutare se sussista identità o somiglianza dei prodotti e dei servizi in questione, si deve tener conto di tutti i fattori pertinenti che caratterizzano il rapporto tra tali prodotti o servizi: la loro natura, la loro destinazione, il loro impiego nonchè la loro concorrenzialità o complementarità (Corte giustizia UE, sez. I, 18/12/2008, n. 16).

2. Con il secondo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, la ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione all’art. 12, comma 1, lett. d), cod. propr. ind., con riferimento al giudizio di confondibilità fra i marchi a confronto.

2.1. A tal fine – secondo la ricorrente – pare essenziale che il carattere distintivo del segno anteriore sia valutato con criteri corretti; pur riconoscendo il carattere descrittivo del segno (attinente alla forma diversa da quella della tradizionale patatina in fette sottili e quindi in un certo senso “tridimensionale”), la Commissione aveva dato prevalenza al richiamo di fantasia.

Il marchio di Pepsico era quindi un segno debole, utilizzato per un solo tipo di prodotto merceologicamente molto distante, e pertanto la decisione di non adottare il più tollerante standard di confondibilità previsto per tali segni, per cui sono sufficienti modifiche grafiche differenziatrici, doveva ritenersi erronea.

2.2. Giova ricordare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, la qualificazione del segno distintivo come marchio cosiddetto “debole” non incide sull’attitudine dello stesso alla registrazione, ma soltanto sull’intensità della tutela che ne deriva, nel senso che, a differenza del marchio cosiddetto “forte”, in relazione al quale vanno considerate illegittime tutte le modificazioni, pur rilevanti ed originali, che ne lascino comunque sussistere l’identità sostanziale ovvero il nucleo ideologico espressivo costituente l’idea fondamentale in cui si riassume, caratterizzandola, la sua attitudine individualizzante, per il marchio debole sono sufficienti ad escluderne la confondibilità anche lievi modificazioni od aggiunte. (Sez. 1, n. 13170 del 24/06/2016, Rv. 640226-01; Sez. 1, n. 15927 del 18/06/2018, Rv. 649528-01).

2.3. La censura è infondata.

Lungi dall’aver riconosciuto il carattere descrittivo dell’espressione “*****”, ritenuto sinonimo del concetto di “tridimensionale”, la Commissione lo ha escluso espressamente (pag. 7 4 capoverso, primo periodo), limitandosi incidentalmente a riconoscere che l’ideazione del marchio abbia in qualche modo anche risentito dell’intento di trasmettere un messaggio di caratterizzazione più consistente – e in un certo senso tridimensionale – della tradizionale chips a fetta sottile, ma precisando che tale messaggio descrittivo era solo una componente – per di più non facilmente e immediatamente percepibile – del valore semantico del marchio, che invece a livello di prima impressione trasmetteva un significato fantastico ad una espressione usata normalmente nel campo, affatto eterogeneo, della comunicazione visiva.

In ogni caso l’apprezzamento del giudice del merito sulla confondibilità dei segni nel caso di affinità dei prodotti costituisce un giudizio di fatto, incensurabile in cassazione, se sorretto da motivazione immune da vizi logici e giuridici (Sez. 1, n. 1906 del 28/01/2010, Rv. 611399-01; Sez. 1, n. 4405 del 28/02/2006, Rv. 589976-01; Sez. I, 04/12/1999, n. 13592; Sez. 1, n. 2692 del 29/05/1978, Rv. 392078-01).

3. Con il terzo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., nn. 5 e 3, la ricorrente denuncia omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione fra le parti, nonchè violazione o falsa applicazione di legge in relazione all’art. 12, comma 1, lett. d), cod. propr. ind., con riferimento all’esame della componente distintiva del marchio anteriore.

3.1. La famiglia di marchi utilizzata da Pepsico è caratterizzata dalla presenza del suffisso “apostrofo S”, che costituisce elemento distintivo; la sentenza impugnata aveva omesso l’esame di tale elemento distintivo, considerandolo di per sè e non in relazione alla famiglia dei marchi dell’opponente.

3.2. Il denunciato omesso esame di fatto decisivo non sussiste.

Dopo aver assunto quale cuore del marchio l’espressione “*****” nella sua particolare grafica, la Commissione dei Ricorsi ha valutato specificamente la presenza nel marchio Pepsico della lettera “s” collocata in posizione apicale, ossia nella forma “s”, tipica del genitivo sassone, esprimendo al riguardo un giudizio di merito e di fatto, non sindacabile in sede di legittimità, circa la sua inidoneità a fungere da idoneo elemento di differenziazione, sia sotto il profilo visivo (per le sue ridotte dimensioni), sia sotto quello fonetico e concettuale, tenendo anche conto del livello di attenzione prestato dal consumatore medio di quel tipo di prodotti merceologici, soggetti ad acquisti “d’impulso”.

Non appare agevolmente comprensibile – nè la ricorrente lo spiega adeguatamente nel ricorso – perchè la valutazione così espressa debba mutare, considerando il predetto elemento distintivo in relazione a tutta la famiglia dei marchi dell’opponente.

4. Il ricorso deve quindi essere rigettato con la condanna della ricorrente alla rifusione delle spese di lite in favore del controricorrente.

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese in favore del controricorrente, liquidate nella somma di Euro 6.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 17 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 6 dicembre 2019

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