Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.7633 del 18/03/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – rel. Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso ricorso 5619-2018 proposto da:

CI.AN., CO.AN., CO.AL., nella qualità

di eredi di C.G., C.V., C.M.R., tutti nella qualità di eredi di C.P. e M.A., elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentanti e difesi dagli avvocati VINCENZO MORRONE, GIOVANNI ROBERTAZZI;

– ricorrenti –

contro

R.M., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati GIANLUCA ALBORE, ANGELO DI PERNA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 40/2017 della CORTE D’APPELLO di SALERNO, depositata il 12/1/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 12/12/2018 dal Consigliere Dott. ALDO CARRATO.

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

Con sentenza n. 40/2017 (pubblicata il 12 gennaio 2017), la Corte di appello di Salerno, pronunziando sull’appello proposto da M.A., C.G., C.M.R. e C.V. (nelle dedotte rispettive qualità) contro R.M. avverso la sentenza n. 34/2010 emessa dal Tribunale di Salerno-sez. dist. di Montecorvino Rovella (che si era pronunciato in ordine alla domanda di pagamento del saldo relativo ad un contratto di appalto concluso “inter partes”), nonchè sull’appello incidentale formulato dallo stesso Raiola, dichiarava inammissibili entrambi i gravami.

A sostegno dell’adottata decisione la Corte salernitana rilevava che gli appellanti principali – pur assumendo la qualità di coniuge superstite (la M.) e di figli di C.P. (quale attore in primo grado e destinatario della sentenza del Tribunale di prime cure) – non avevano dimostrato mediante la produzione di idonea e tempestiva documentazione la fonte della loro legittimazione, specificamente contestata dall’appellato all’atto della sua costituzione in secondo grado, ragion per cui la loro impugnazione non poteva che essere dichiara inammissibile.

Nei confronti dell’indicata sentenza di appello hanno proposto ricorso per cassazione, riferito a due motivi, M.A., C.G., C.M.R. e C.V..

L’intimato R.M. ha resistito con controricorso.

Con il primo motivo di ricorso i ricorrenti hanno denunciato – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4 – la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 161 c.p.c., sul presupposto che essi, alla prima udienza di comparizione in appello, avevano comprovato documentalmente la loro qualità di eredi del C.P., mediante allegazione dello stato di famiglia del defunto, tenendo presente che l’originario attore, dante causa di essi appellanti, era deceduto quattro anni prima della pubblicazione della sentenza di primo grado.

Con il secondo mezzo i ricorrenti hanno dedotto – in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – la violazione dell’art. 112 c.p.c., avuto riguardo all’asserita insufficiente e contraddittoria motivazione in merito al punto decisivo della controversia prospettato con la prima censura.

Su proposta del relatore, il quale riteneva che il primo motivo potesse essere dichiarato inammissibile o manifestamente infondato e che il secondo potesse essere considerato inammissibile, con la conseguente definibilità nelle forme dell’art. 380-bis c.p.c., in relazione all’art. 375 c.p.c., comma 1, nn. 1 e 5), il presidente ha fissato l’adunanza della camera di consiglio.

Il difensore dei ricorrenti ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380-bis, comma 2, c.p.c., unitamente alla quale ha prodotto – ponendo riferimento all’art. 372 c.p.c. – anche il certificato di morte del loro dante causa C.P., deceduto il 3 agosto 2006, anteriormente all’emanazione della sentenza di primo grado.

Innanzitutto il collegio rileva l’inammissibilità di quest’ultima allegazione documentale siccome esulante dai casi di cui all’art. 372 c.p.c., non riguardando la nullità della sentenza impugnata nè l’ammissibilità del proposto ricorso.

Ciò chiarito in via pregiudiziale, ritiene il collegio che – in conformità alla formulata proposta ex art. 380-bis c.p.c. – il primo motivo è da dichiararsi infondato mentre il secondo va propriamente qualificato come inammissibile.

Ed invero – quanto alla prima censura – la Corte territoriale ha esattamente rilevato in punto di diritto che gli attuali ricorrenti – già appellanti principali – non avevano ritualmente comprovato in appello la loro qualità di eredi dell’originario attore e destinatario della sentenza di primo grado ( C.P.), con il conseguente accertamento del loro difetto di legittimazione ad agire in sede di impugnazione.

A tal proposito il giudice di appello ha attestato e documentalmente riscontrato che gli appellanti principali non avevano assolto all’onere di provare ritualmente la circostanza del decesso dell’originaria parte attrice (loro dante causa) – e quindi, e tanto nemmeno in altro modo, la loro qualità di eredi – siccome il loro procuratore si era limitato, alla prima udienza di comparizione nel giudizio di secondo grado, ad attestare che il C.P. era deceduto, senza oltretutto specificare nè la data dell’evento nè altri elementi idonei a comprovare la loro legittimazione, allegando una mera certificazione anagrafica attestante lo stato di famiglia originario del 29 settembre 1996 (rectius: 1976), dalla quale emergeva che il C.P. era ancora in vita. Inoltre, la Corte di appello di Salerno ha anche esattamente ritenuto che tale difetto di prova non poteva ritenersi superato per effetto della proposizione di gravame incidentale da parte dell’appellato, poichè lo stesso – per come si evince dal contenuto dello stesso appello incidentale (esaminabile in questa sede siccome attinente ad un “fatto processuale”) – aveva, in via preliminare, formulato l’eccezione di difetto di legittimazione attiva di tutti gli appellanti principali (per mancanza di idonea prova sia del decesso dell’assunto loro dante causa che della loro dichiarata qualità di eredi del C.P.), avanzando appello incidentale per la sola eventualità in cui detta eccezione fosse stata respinta.

Legittimamente, quindi, la Corte di secondo grado è pervenuta alla declaratoria di inammissibilità dell’appello principale (dalla quale è derivata, in via consequenziale, quella dell’appello incidentale), non avendo le parti appellanti idoneamente comprovato sul piano della ritualità processuale e della tempestività la loro qualità di eredi del C.P. (e, ancor prima, della stessa certezza temporale del decesso di quest’ultimo) in funzione della loro legittimazione attiva a proporre appello.

In tal senso il giudice di seconde cure si è uniformato alla giurisprudenza di questa Corte (v. Cass. S.U. n. 12065/2014 e Cass. n. 11276/2018) in base alla quale colui che, assumendo di essere erede di una delle parti originarie del giudizio, proponga impugnazione, deve fornire – a fronte della contestazione della controparte – la prova, ai sensi dell’art. 2697 c.c., oltre che del decesso della parte originaria, anche della sua qualità di erede di quest’ultima (nella specie non ritualmente prodotta, non essendo stata depositata apposita documentazione riscontrante tale legittimazione non potendo, ovviamente, considerarsi idonea l’allegazione di un risalente certificato di stato di famiglia, dal quale risultava che il dante causa degli appellanti era ancora in vita, senza la produzione di certificazione attestante la sopravvenuta morte di quest’ultimo e di correlata documentazione attestante l’assunzione della loro conseguente qualità di eredi).

Il secondo motivo è, all’evidenza, inammissibile perchè, con esso, risulta denunciato – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (pur ponendosi in modo inconferente alla violazione dell’art. 112 c.p.c.) – un asserito vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione che non risulta più deducibile “ratione temporis” avuto riguardo alla novellazione nel 2012 di tale disposizione normativa, non vertendosi, certamente (per quanto riportato in risposta al primo motivo), nell’ipotesi di una motivazione inesistente o meramente apparente sulla questione giuridica del difetto di prova della legittimazione degli stessi ricorrenti ad esperire l’appello.

In definitiva, per le illustrate ragioni, il ricorso deve essere integralmente respinto, con la conseguente condanna dei soccombenti ricorrenti, in solido fra loro, al pagamento delle spese del presente giudizio, che si liquidano nei sensi di cui in dispositivo.

Sussistono, inoltre, le condizioni per dare atto – ai sensi della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 1, comma 17, che ha aggiunto al D.P.R. n. 115 del 2002, all’art. 13, il comma 1- quater – dell’obbligo di versamento, da parte dei medesimo ricorrenti con vincolo solidale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione integralmente rigettata.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido fra loro, al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre al 15% per contributo forfettario, iva e cap nella misura e sulle voci come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti con vincolo solidale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della VI-2 Sezione civile della Corte di cassazione, il 12 dicembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 18 marzo 2019

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