Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.7719 del 20/03/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13097-2016 proposto da:

G.R., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, preso, la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato GIUSEPPE MALTA;

– ricorrente –

contro

M.T., D.G., DA.GI., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA OTRANTO 18, presso lo studio dell’avvocato ROSSELLA RAGO, rappresentati e difesi dall’avvocato RAFFAELE MARIA SASSANO;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 163/2015 della CORTE D’APPELLO di POTENZA, depositata il 15/04/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 22/11/2018 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI.

Il COLLEGIO:

PREMESSO IN FATTO

La Corte d’appello di Potenza, con sentenza in data 15.4.2015 n. 163, in parziale riforma della decisione di prime cure, ha accolto l’appello principale proposto da Da.Gi. e D.G. e M.T., ed ha rigettato l’appello incidentale proposto da G.R., condannando quest’ultimo previo accertamento “incidenter tantum” del titolo di provenienza della comproprietà in capo ai danneggiati – al risarcimento del danno cagionato ai comproprietari del terreno sito in agro di *****, dal quale aveva asportato il 90% della legna ricavata dal taglio degli alberi del bosco ceduo.

La sentenza di appello, non notificata, è stata ritualmente impugnata per cassazione da G.R. con quattro motivi.

Resistono con controricorso gli intimati Da.Gi. e D.G. e M.T..

La causa è stata ritenuta definibile mediante procedimento in camera di consiglio, in adunanza non partecipata, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., comma 1, nn. 1) e 5), e dell’art. 380 bis c.p.c., essendo formulata proposta di inammissibilità del ricorso.

La parte ricorrente ha depositato memoria illustrativa ex art. 380 bis c.p.c..

RITENUTO

Il primo motivo (omessa od insufficiente motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) è inammissibile, sia in quanto non rispondente al paradigma del vizio di legittimità come definito dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sia in quanto fondato su atti e documenti dei quali non viene data contezza nel ricorso, essendo omessa la trascrizione e la indicazione del luogo processuale di reperimento. Ed invero:

a) la censura, formulata come critica al procedimento logico seguito dal Giudice di appello, non tiene conto del mutamento normativo intervenuto con la riforma del D.L. n. 83 del 2012, conv. in L. n. 134 del 2012 (applicabile alle sentenze pubblicate successivamente alla data 11.9.2012) che ha limitato il sindacato di legittimità esclusivamente al vizio di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”: l’ambito in cui opera il vizio motivazionale deve individuarsi, pertanto, nella omessa rilevazione e considerazione da parte del Giudice di merito di un “fatto storico”, principale o secondario, ritualmente verificato in giudizio e di carattere “decisivo” in quanto idoneo ad immutare l’esito della decisione (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014; id. Sez. U, Sentenza n. 19881 del 22/09/2014; id. Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016), non accedendo invece alla verifica di legittimità la critica alla inadeguatezza del percorso logico posto a fondamento della decisione condotta alla stregua di elementi istruttori extratestuali, residuando – oltre alla ipotesi omissiva indicata – soltanto la ipotesi patologica insanabile della inesistenza del requisito essenziale di validità della sentenza ex art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), inteso nel suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6.

b) la censura non indica alcun altro “fatto storico”, tra quelli documentalmente provati ed esaminati dalla Corte territoriale, che quest’ultima abbia omesso del tutto di considerare nell’attività di rilevazione e selezione delle risultanze probatorie.

c) la critica, interamente volta a dimostrare il difetto di titolarità del credito risarcitorio, sul presupposto che i danneggiati erano subentrati nel contratto di affitto di solo pascolo del dante causa D.F., peraltro, anche dichiarato cessato, appare del tutto inconferente rispetto al differente accertamento del titolo proprietario compiuto dal Giudice di appello secondo cui F.G. e Da.Gi. e T.M. erano legittimati ad agire per il risarcimento danni in quanto “comproprietari in parti eguali e pro indiviso” del terreno, per la quota di 8/14, giusto atto pubblico di compravendita in data 18.5.1991, stipulato con l’alienate V.F. cui il bene era pervenuto da P.M., atto di compravendita opponibile al G. in quanto trascritto in data 23.5.1991, anteriormente all’atto di donazione del medesimo bene in data 1.5.1992 stipulato da M.G. in favore del G., non potendo quest’ultimo opporre il precedente acquisto del proprio dante causa per divisione ereditaria effettuata nel 1954 tra i due fratelli M., in quanto a tale atto non avevano partecipato tutti i coeredi, e lo stesso si palesava, peraltro, soltanto come mero “progetto di divisione” e non era stato trascritto, sicchè, in ogni caso, risultava inopponibile ai D.- M..

Anche il secondo motivo (violazione artt. 81 e 100 c.p.c.; insufficiente motivazione su un punto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) è inammissibile, in quanto:

a) la cumulativa denuncia, con il medesimo motivo, di vizi attinenti alle ipotesi previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4) 5) (idest: formulazione di un singolo motivo articolato in più profili di doglianza, ciascuno dei quali avrebbe potuto essere prospettato come un autonomo motivo), non impedisce l’accesso del motivo all’esame di legittimità allorchè esso, comunque, evidenzi distintamente la trattazione delle doglianze relative all’interpretazione o all’applicazione delle norme di procedura appropriate al fatto processuale (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), ed i profili attinenti alla ricostruzione del fatto (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), così da consentire alla Corte di individuare agevolmente ciascuna autonoma critica formulata alla sentenza impugnata in relazione ai diversi vizi di legittimità contestati in rubrica (cfr. Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 9793 del 23/04/2013; id. Sez. U, Sentenza n. 9100 del 06/05/2015). Diversamente, il motivo “formalmente unico” ma articolato in plurime censure di legittimità, si palesa inammissibile tutte le volte in cui l’esposizione contestuale dei diversi argomenti a sostegno di entrambe le censure non consenta di discernere – come nel caso del motivo di ricorso sottoposto ad esame – le ragioni poste a fondamento, rispettivamente di ciascuna di esse: in tal caso, infatti, le questioni formulate indistintamente nella esposizione del motivo e concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo ed in genere il merito della causa, costringerebbero il Giudice di legittimità ad operare una indebita scelta tra le singole censure teoricamente proponibili e riconducibili ai diversi mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., non potendo sostituirsi la Corte al difensore per dare forma e contenuto giuridici alle doglianze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 19443 del 23/09/2011; id. Sez. 1, Sentenza n. 21611 del 20/09/2013), trattandosi di compito riservato in via esclusiva alla parte interessata, come emerge dal combinato disposto dell’art. 360 c.p.c., e dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4 (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 18242 del 28/11/2003id. Sez. 1, Sentenza n. 22499 del 19/10/2006; id. Sez. 1, Sentenza n. 5353 del 08/03/2007; id. Sez. 3, Sentenza n. 18421 del 19/08/2009; id. Sez. 1, Sentenza n. 19443 del 23/09/2011; id. Sez. 3, Sentenza n. 3248 del 02/03/2012);

b) la Corte territoriale non ha affatto confuso tra “legittimazione ad agire” e “titolarità del diritto” controverso, avendo specificamente esaminato l’atto di citazione introduttivo del giudizio, ritenendo che i danneggiati avevano tenuto distinte le quote di proprietà indivisa del terreno – pari a 8/14 – acquistate con l’atto di compravendita del 1991, ed in base alle quali agivano con azione risarcitoria, dalle altre quote – pari a 6/14 – del medesimo fondo agricolo in relazione alle quali vantavano invece un titolo derivativo fondato sul contratto di affitto del proprio dante causa D.F., ed in relazione alle quali soltanto il G. aveva opposto il proprio titolo donativo (sent. motiv. pag. 7) c) inconferente è poi la dissertazione in ordine alla efficacia da riconoscere alla trascrizione ed alla opponibilità del diritto ai terzi, non essendo neppure comprensibile quale sia la critica rivolta alla statuizione della sentenza di appello in ordine alla applicazione del principio “prior in tempore, potior in jure”, in relazione al contratto di compravendita del 1991 ed all’atto pubblico di donazione del 1992, documenti dei quali neppure è data contezza come richiesto a pena di inammissibilità ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6.

Il terzo motivo (violazione dell’art. 112 c.p.c.) è manifestamente inammissibile.

Il ricorrente sostiene che, non essendo stato chiesto dalle parti alcun accertamento in ordine ai titoli proprietari, la sentenza della Corte d’appello, nella parte in cui avrebbe risolto la causa in base alla verifica dei titoli di provenienza, sarebbe incorsa in ultrapetizione.

La tesi difensiva è palesemente pretestuosa, laddove si osservi che proprio il G., costituendosi in giudizio, aveva negato la titolarità del diritto al risarcimento dei danni in capo agli attori sul presupposto che gli stessi non vantassero alcun titolo proprietario sul terreno, opponendo in contrario i propri titoli donativi. Tanto è sufficiente a ritenere pienamente introdotta nel “thema controversum” del processo anche la questione relativa alla verifica – da compiere “incidenter tantum”, in assenza di specifica domanda delle parti di accertamento con efficacia di giudicato ex art. 34 c.p.c. – dei titoli di provenienza dell’acquisto della proprietà del terreno e dei titoli di godimento del fondo agricolo.

Il quarto motivo (violazione dell’art. 345 c.p.c.) è anch’esso manifestamente inammissibile.

Il ricorrente sostiene che la Corte distrettuale ha violato il divieto di “nova” stabilito dall’art. 345 c.p.c. per il giudizio di appello, in quanto la questione (incidentale) concernente i titoli proprietari era stata introdotta dai D.- M. soltanto con l’atto di appello, sicchè rimaneva sottratta al “quantum devolutum” alla cognizione del Giudice di appello.

L’intera censura si risolve in una mera riproposizione di principi giurisprudenziali del tutto pacifici, senza fornire alcuna idonea descrizione del “fatto processuale”, elemento questo indispensabile affinchè la Corte di legittimità possa delibare la ammissibilità del motivo, onde poi accedere all’esame diretto degli atti processuali, in considerazione del vizio di legittimità denunciato afferente la nullità processuale (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 8077 del 22/05/2012).

La censura, come formulata, risulta pertanto inosservante del requisito di specificità del motivo, stabilito dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 6, a pena di inammissibilità, in quanto l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un “error in procedendo”, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo, sicchè, laddove sia stata denunciata la falsa applicazione della regola del “tantum devolutum quantum appelatum”, è necessario, ai fini del rispetto del principio di specificità e autosufficienza del ricorso per cassazione, che nel ricorso stesso siano riportati, nei loro esatti termini e non genericamente ovvero per riassunto del loro contenuto, i passi dell’atto introduttivo con i quali la questione controversa è stata dedotta in giudizio e quelli dell’atto d’appello con cui le censure ritenute inammissibili per la loro novità sono state formulate (cfr. Corte cass. Sez. L, Sentenza n. 23420 del 10/11/2011; id. Sez. 5, Sentenza n. 19410 del 30/09/2015; id. Sez. L, Sentenza n. 11738 del 08/06/2016).

In ogni caso la censura risulta anche del tutto destituita di fondamento: la questione della titolarità del diritto al risarcimento dei danni e la contrapposta eccezione di mancanza di titolarità del diritto, introducono il necessario accertamento dei fatti costitutivi della pretesa vantata in giudizio, che spetta al Giudice – anche di appello – verificare (di ufficio: in ciò consistendo l’esercizio stesso dello “jus dicere”), alla stregua dei fatti rilevanti allegati e dimostrati in giudizio, indipendentemente da eventuali sollecitazioni o richieste delle parti, e sempre che sulla questione non si sia formato il giudicato interno, ipotesi che non ricorre nel caso di specie (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 2951 del 16/02/2016).

In conclusione il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e la parte ricorrente va condannata alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità liquidate in dispositivo.

PQM

dichiara inammissibile il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 22 novembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 20 marzo 2019

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