Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.8053 del 21/03/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – rel. Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13821-2017 proposto da:

J INVEST SPV SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CICERONE, 44, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO BUONFIGLIO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MARIO MARTELLI;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di TRIESTE, depositata il 30/11/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 04/12/2018 dal Consigliere ANTONINO SCALISI.

FATTI DI CAUSA

La società J-Invest SPV srl, con ricorso del 13 luglio 2016, chiedeva alla Corte di Appello di Trieste il riconoscimento del diritto ad equo indennizzo previsto dalle L. n. 89 del 2001 per l’eccessiva durata del fallimento della società ***** spa, nel quale aveva avanzato istanza di insinuazione, in qualità di società cessionaria di crediti dei Centrobanca spa e della Banca di Brescia spa. La procedura fallimentare aveva avuto una durata di 11 anni 9 mesi e ventuno giorni (dal 24 marzo 2004 al 3 febbraio 2016.

Il Giudice degnato dalla Corte di Appello di Trieste, con decreto cronol. 242/2016 del 25 aprile 2016, in parziale accoglimento delle richieste della ricorrente, determinava in anni due e sette mesi da arrotondarsi ex lege ad anni tre il tempo complessivo di sofferenza, dovendosi considerare che la ricorrente aveva assunto la veste di parte processuale, nella qualità di creditrice iscritta allo stato passivo, dopo la cessione dei crediti del precedente creditore. Pertanto, la Corte di Trieste ingiungeva al Ministero della Giustizia il pagamento della somma di Euro 1.200,00, nonchè le spese del giudizio sopportate dalla ricorrente.

Avverso questo decreto interponeva opposizione la società J-Invest SPV srl: 1) per errata determinazione degli anni eccedenti la ragionevole durata del fallimento; 2) per errata quantificazione dell’indennizzo riconosciuto.

La Corte di Appello di Trieste con decreto cronol. 379/2016 del 30 novembre 2016 in parziale accoglimento dell’opposizione ed in parziale riforma del decreto opposto condannava il Ministero della Giustizia al pagamento in favore dell’appellante dell’ulteriore importo di Euro 296,22 nonchè al pagamento della metà delle spese processuali. Secondo la Corte distrettuale, correttamente, il giudice delegato aveva rilevato che a seguito della cessione dei crediti ammessi al passivo del fallimento si era verificata una successione a titolo particolare della ricorrente nei relativi crediti, sicchè la stessa poteva avanzare la pretesa indennitaria da violazione del termine di durata ragionevole del processo, unicamente con riferimento alla durata della propria presenza nel procedimento. A sua volta, il Giudice delegato bene aveva calcolato il quantum dell’indennizzo, tenuto conto della mancata allegazione in ricorso di una particolare penosità dell’attesa. Andava, invece, rimborsata al ricorrente la somma di Euro 296,22 corrispondente al valore della marche da bollo, applicate sull’originale.

La cassazione di questo decreto è stato chiesto dalla società J-Invest SPV srl con ricorso affidato a tre motivi. Il Ministero della Giustizia ha resistito con controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.= Con il primo motivo di ricorso, la società J-Invest SPV srl lamenta la violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, artt. 2 e 2bis della, nonchè dell’art. 1263 c.c. e dell’art. 115L. Fall. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 Secondo la ricorrente, avrebbe errato la Corte distrettuale nel ritenere che la società cessionaria (attuale ricorrente) poteva avanzare la pretesa indennitaria, da violazione del termine di durata ragionevole del processo, unicamente con riferimento alla durata della propria presenza nel procedimento, non avendo considerato che il successore a titolo particolare nel diritto controverso, essendo l’effettivo titolare del diritto in contestazione assume necessariamente la medesima posizione del suo dante causa al quale subentra sul piano sostanziale e processuale.

1.1.= Il motivo è infondato.

Occorre rilevare che, nel caso in esame, possono trovare applicazione i principi espressi da questa Corte in fattispecie analoghe o assimilabili a questa in esame. Come è stato già affermato da questa Corte (sent. 24771 del 2015) in tema di equa riparazione, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, qualora la parte costituita sia deceduta anteriormente al decorso del termine di ragionevole durata del processo presupposto, l’erede ha diritto al riconoscimento dell’indennizzo iure proprio, dovuto al superamento del predetto termine, soltanto, a decorrere dalla sua costituzione in giudizio; ne consegue che, qualora l’erede agisca sia iure haereditatis che iure proprio, non può assumersi come riferimento temporale di determinazione del danno l’intera durata del procedimento, ma è necessario procedere ad una ricostruzione analitica delle diverse frazioni temporali al fine di valutarne separatamente la ragionevole durata (…) (Cass. n. 21646 del 2011); (….) non assume alcun rilievo la continuità della sua posizione processuale rispetto a quella del dante causa, prevista dall’art. 110 c.p.c., in quanto il sistema sanzionatorio delineato dalla CEDU e tradotto in norme nazionali dalla L. n. 89 del 2001, non si fonda sull’automatismo di una pena pecuniaria a carico dello Stato, ma sulla somministrazione di sanzioni riparatorie a beneficio di chi dal ritardo abbia ricevuto danni patrimoniali o non patrimoniali, mediante indennizzi modulabili in relazione al concreto patema subito, il quale presuppone la conoscenza del processo e l’interesse alla sua rapida conclusione” (Cass. n. 13083 del 2011; Cass. n. 23416 del 2009).

Ad analoghe conclusioni, deve giungersi, ad avviso del Collegio, anche con riferimento alla posizione dei cessionari di crediti ammessi nel passivo fallimentare, posto che la posizione del cessionario, identificandosi come successore a titolo particolare nel credito, è del tutto assimilabile all’erede del creditore. Pertanto, il diritto del cessionario al riconoscimento dell’indennizzo, decorre dalla comunicazione della cessione del credito al curatore ex art. 115, comma 2 L. Fall., dovendosi ritenere che il cessionario assume la qualità di parte processuale solo da quella data. Perciò, la decisione impugnata è corretta in diritto e va confermata.

2.= La ricorrente lamenta, ancora:

a) Con il secondo motivo, la violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, artt. 2 e 2bis nonchè dell’art. 1226 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. In particolare, la ricorrente lamenta che la Corte distrettuale non abbia effettuato la liquidazione, secondo ordinarie modalità di determinazione del danno previste dal Codice civile ed, essenzialmente, tenendo conto dell’entità della pretesa patrimoniale, indipendentemente dal prezzo versato per l’acquisto dei crediti concorsuali.

b) Con il terzo motivo, la violazione e falsa applicazione dell’art. 111 Cost., artt. 112 e 114 c.p.c., della L. n. 89 del 2001, artt. 2 e 2bis nonchè dell’art. 1226 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. In particolare, la ricorrente lamenta l’erroneità delle ragioni indicate dalla Corte distrettuale a giustificazione di una liquidazione determinata nel minimo di legge e, ad un tempo, la mancata considerazione dell’importo dei crediti ammessi al passivo fallimentare (complessivamente di Euro 3.440.474,00).

2.1.= Entrambi i motivi che, per la loro innegabile connessione vanno esaminati congiuntamente, sono infondati.

Va qui osservato che la Legge di Stabilità 2016, approvata con L. 28 dicembre 2015, n. 208 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 302 del 30 dicembre 2015, è intervenuta anche rispetto al quantum dell’indennizzo da riconoscere a titolo di equa riparazione. Mentre, precedentemente la Legge Pinto prevedeva che il Giudice liquidasse un indennizzo in misura non inferiore ad Euro 500 e non superiore ad Euro 1.500, con le nuove disposizioni si prevede che il Giudice liquidi, di regola, una somma di denaro non inferiore ad Euro 400 e non superiore a Euro 800, per ciascun anno o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine di ragionevole durata del processo. La somma liquidata può essere incrementata fino al 20% per gli anni successivi al terzo e fino al 40% per gli anni successivi al settimo. La somma può essere anche diminuita fino al 20%, quando le parti del processo sono più di dieci e fino al 40% quando sono più di cinquanta. Inoltre, la somma può essere diminuita fino a un terzo in caso di integrale rigetto delle richieste della parte ricorrente, nel procedimento cui la domanda di equa riparazione si riferisce.

2.2.= In modo costante, poi, questa Corte ha affermato che debba ritenersi congrua la quantificazione dell’indennizzo nella misura minima di legge, se giustificata dalle circostanze concrete della singola vicenda, motivate e non irragionevoli.

Ora, nel caso in esame la liquidazione effettuata, rientra nel range (tra il minimo ed il massimo) indicato dalla legge, e compiutamente la Corte distrettuale ha dato conto delle ragioni di tale scelta, razionalmente condivisibili, comunque, coerenti con gli elementi soggettivi ed oggettivi della realtà fattuale.

Come ha avuto modo di chiarire la Corte distrettuale l’indennizzo nel minimo di legge appare congruo dovendo tener conto: a) della mancata allegazione in ricorso di una particolare penosità dell’attesa, b) della circostanza che la ricorrente aveva provveduto alla cancellazione, nella documentazione depositata, del prezzo di cessione dei crediti iscritti al passivo fallimentare, c) del fatto che i predetti crediti erano stati ammessi al passivo in via chirografaria e la cessionaria era soggetto professionalmente operante in campo finanziario.

Si tratta, come è evidente, di una valutazione di merito che in quanto priva di vizi logici e giuridici non è soggetta ad un sindacato di legittimità.

In definitiva, il ricorso va rigettato e la ricorrente, in ragione del principio di soccombenza ex art. 91 c.p.c., condannata al pagamento delle spese del presente giudizio che vengono liquidate con il dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rimborsare a parte controricorrente le spese del presente giudizio che liquida in Euro 1.150,00, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Seconda Sezione Civile, il 4 dicembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 21 marzo 2019

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