Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.102 del 07/01/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere –

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – rel. Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16808/2018 proposto da:

O.B., rappresentato e difeso dall’avvocato Migliaccio Luigi per procura speciale allegata al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma Via Dei Portoghesi 12 presso l’Avvocatura Generale Dello Stato, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 984/2017 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI, depositata il 24/11/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 28/05/2019 dal Cons. Dott. PARISE CLOTILDE.

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza n. 984/2017 depositata il 24-11-2017, la Corte d’appello di Cagliari ha respinto l’appello di O.B., cittadino della Nigeria, avverso l’ordinanza emessa dal Tribunale di Cagliari con la quale era stata rigettata la domanda avente ad oggetto, in via gradata, il riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e di quella umanitaria. Il ricorrente, nel riferire la propria vicenda personale, aveva dichiarato di essere fuggito dalla Nigeria perchè accusato di aver ucciso una ragazza trovata accoltellata e perchè il capo villaggio aveva decretato la sua morte. La Corte territoriale ha rilevato che il ricorrente non aveva neppure censurato l’affermazione del primo giudice circa la non credibilità dei fatti narrati e che, quanto alla richiesta di protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), l’intero appello era fondato sulla situazione del Delta State, mentre il richiedente proveniva dall’Edo State, nel quale non vi erano allarmanti situazioni di conflitto armato interno e di instabilità politica, in base al report 2016 di Amnesty International e al sito della Farnesina. La Corte d’appello ha ritenuto che non dovesse considerarsi la situazione della Libia, paese di mero transito per il richiedente, e che neppure vi fossero i presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria, avendo il richiedente fatto solo riferimento alla sua giovane età, alle persecuzioni contro i cristiani, dedotte genericamente e per la prima volta nel giudizio d’appello, ed alla mancanza di una rete familiare, peraltro in contrasto con le sue precedenti dichiarazioni relative alla prolungata convivenza con una nonna.

2. Avverso il suddetto provvedimento, il ricorrente propone ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, nei confronti del Ministero dell’Interno, che resiste con controricorso. Il ricorrente ha fatto pervenire memoria illustrativa a mezzo posta in data 20/5/2019, ossia oltre il termine previsto dall’art. 380 bis 1 c.p.c..

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia ” error in judicando violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3; nonchè del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis e art. 737 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3". Lamenta che la Corte territoriale abbia omesso accertamenti istruttori, non abbia operato un esame congruo delle dichiarazioni del richiedente, non abbia tenuto conto della situazione individuale, in particolare della giovane età, della sua condizione sociale e del periodo trascorso in Libia, in gran parte -otto mesi – ristretto in carcere. Evidenzia, con diffusi richiami alla giurisprudenza di questa Corte, che eventuali lacune del racconto del richiedente avrebbero dovuto essere colmate mediante i poteri istruttori ufficiosi, soprattutto in relazione al grave rischio prospettato di condanna a morte per il reato di omicidio e tortura in carcere.

2. Con il secondo motivo lamenta “error in procedendo – violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”. Ad avviso del ricorrente la Corte territoriale ha omesso di pronunciarsi sui profili di rischio dedotti ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b). Deduce di aver dedotto in appello il danno grave per il rischio di condanna a morte previsto dal codice penale nigeriano per il reato di omicidio e di torture o trattamenti umani e degradanti se arrestato in patria.

3. I primi due motivi, da esaminarsi congiuntamente per la loro connessione, sono inammissibili.

La Corte territoriale ha rilevato che l’affermazione di non credibilità del racconto del richiedente espressa nell’ordinanza del Tribunale non era stata censurata in appello (pag. 5 sentenza) e che non è possibile l’esercizio dei poteri di collaborazione ufficiosi se le allegazioni sono generiche ed imprecise.

Il ricorrente non formula specifico motivo di gravame a tale riguardo e nella narrativa del ricorso espone di aver appellato l’ordinanza del Tribunale per difetto di motivazione consistita nella mancata attivazione dei poteri istruttori.

Le censure, che si basano, in buona sostanza, sulla gravità del rischio in caso di rimpatrio (condanna a morte o trattamenti inumani) sul presupposto, da accertare mediante i poteri ufficiosi, della veridicità della vicenda personale narrata dal ricorrente (accusa di omicidio), non colgono la ratio decidendi della sentenza impugnata nel senso precisato e sono pertanto inammissibili, avendo, si ribadisce, la Corte territoriale affermato, in conformità ai principi espressi da questa Corte Cass. (n. 3016/2019), che non è consentita l’attivazione dei poteri d’ufficio se le allegazioni sono scarsamente circostanziate e generiche.

4. Con il terzo motivo lamenta “error in judicando in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio e relativo ai presupposti per il riconoscimento di protezione umanitaria”. Ad avviso del ricorrente la motivazione della sentenza impugnata risulta meramente apparente perchè avrebbero dovuto valutarsi autonomamente le condizioni giustificative della misura della protezione umanitaria.

5.Con il quarto motivo lamenta “error in judicando – violazione e falsa applicazione di legge: D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3 e art. 5, comma 6, TUI, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3”. Afferma il ricorrente che era onere della Corte valutare il ricorrere di un’esigenza qualificabile come umanitaria, sia sotto il profilo del rispetto degli obblighi costituzionali dell’Italia, sia sotto il profilo degli obblighi di diritto internazionale e derivanti da altre Carte Internazionali dei diritti. Ribadisce di aver allegato quali profili di vulnerabilità la giovane età, le persecuzioni contro i cristiani, la mancanza di una rete familiare, l’instabilità e le violazioni dei diritti umani in Nigeria e in Libia.

6. I motivi terzo e quarto sono infondati.

In ordine al riconoscimento della protezione umanitaria, questa Corte ha precisato (Cass. ord. n. 16925/2018) che l’intrinseca inattendibilità del racconto del ricorrente, affermata dai giudici di merito, costituisce motivo sufficiente anche per negare la protezione di cui trattasi, che deve ovviamente poggiare su specifiche e plausibili ragioni di fatto (Cass. 27438/2016), legate alla situazione concreta e individuale del richiedente (Cass. 4455/2018, par. 7). Deve trattarsi di valutazione autonoma (Cass. n. 28990/2018), non potendo conseguire automaticamente dal rigetto delle altre domande di protezione internazionale, essendo necessario che l’accertamento da svolgersi sia fondato su uno scrutinio avente ad oggetto l’esistenza delle condizioni di vulnerabilità che ne integrano i requisiti. Tuttavia, anche ai fini della protezione umanitaria, la domanda non si sottrae all’applicazione del principio dispositivo, sicchè il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli d’ufficio nel giudizio o di utilizzare i poteri officiosi, se le allegazioni sulla condizione soggettiva di vulnerabilità non sono specifiche (Cass. n. 27336/2018).

Nel caso di specie il diniego è dipeso dall’accertamento dei fatti da parte del giudice di merito, che ha escluso l’esistenza di una situazione di particolare vulnerabilità del ricorrente con idonea motivazione, sorretta da un contenuto non inferiore al minimo costituzionale, come delineato dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. S.U. n. 8053/2014 e tra le tante da ultimo Cass. n. 22598/2018), e facendo applicazione dei principi di diritto suesposti.

L’allegazione da parte del richiedente che in un Paese di transito (nella specie la Libia) si consumi un’ampia violazione dei diritti umani, senza evidenziare quale connessione vi sia tra il transito attraverso quel Paese ed il contenuto della domanda, costituisce circostanza irrilevante ai fini della decisione, perchè l’indagine del rischio persecutorio o del danno grave in caso di rimpatrio va effettuata con riferimento al Paese di origine o alla dimora abituale ove si tratti di un apolide (Cass. n. 31676/2018).

7. Conclusivamente il ricorso deve essere rigettato e le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

8. Poichè il ricorrente è stato ammesso al patrocinio a spese dello Stato, non sussistono nella specie i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente stesso, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso per cassazione, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese processuali del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 2.100,00, a titolo di compensi, oltre eventuali spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 28 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 7 gennaio 2020

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