Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.2 del 02/01/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. RAINONDI Guido – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – rel. Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 9383/2015 proposto da:

C.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA EMILIO DE’

CAVALIERI 11, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO FERRI, rappresentata e difesa dall’avvocato GIANFRANCO MASSA;

– ricorrente –

contro

RITRAS S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, in persona del Liquidatore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLA GIULIANA 101, presso lo studio dell’avvocato ANNA MARIA GALEAZZI, rappresentata e difeso dall’avvocato VITTORIO SCHINO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 579/2015 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 04/02/2015 R.G.N. 3526/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/07/2019 dal Consigliere Dott. DANIELA BLASUTTO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CIMMINO Alessandro, che ha concluso per il rigetto.

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di appello di Milano, con sentenza n. 579/15, confermava la pronuncia di primo grado che aveva rigettato la domanda proposta a titolo di risarcimento del danno extracontrattuale per perdita del rapporto parentale da C.L., quale madre e unica erede di F.A., dipendente della società Ritras in liquidazione dal 12 dicembre 2006, deceduto nell’espletamento del suo lavoro di autista di autotreni la notte del ***** a causa di un grave incidente stradale, verificatosi in corrispondenza di una deviazione della carreggiata quando il pesante mezzo a pieno carico urtava contro il guard-rail e dopo altre collisioni subiva il ribaltamento e causava il decesso del conducente.

2. Il Tribunale di Milano aveva respinto la domanda, sulla base dei seguenti argomenti:

– i capitoli della prova testimoniale erano in parte generici e in parte costituiti da valutazioni personali espresse a suo tempo dal F. e dalla persona che di quelle osservazioni era stata la destinataria e avrebbe dovuto deporre de relato;

– in ogni caso, i dati emergenti dal disco cronotachigrafo avevano evidenziato che il viaggio era iniziato oltre tredici ore prima dell’incidente e il conducente aveva tenuto un comportamento imprudente nell’effettuare solo brevi periodi di sosta e procedendo ad una velocità superiore (di 30 km orari) al limite di velocità imposto sul luogo, così contravvenendo a norme di comune prudenza da considerarsi patrimonio di ogni conducente, in particolare per i tempi di guida dei conducenti professionisti.

3. La Corte di appello rigettava l’impugnazione, incentrata sulla imputabilità alla società appellata di una responsabilità colposa per avere costretto il dipendente a guidare in condizione di grave affaticamento e velocità non prudenziale. In sintesi, osservava quanto segue:

– dai rilievi del rapporto della polizia stradale era emersa l’eccessiva velocità del mezzo in relazione all’orario notturno e allo stato dei luoghi e in relazione al presumibile stato di non perfetta vigilanza del conducente; non vi era prova che tale condotta fosse riconducibile a istruzioni o ordini impartiti circa la necessità di consegnare la merce a destinazione entro le ore 5,00 del mattino;

– la mancata ammissione delle istanze istruttorie era giustificata dalla genericità dei capitoli della prova testimoniale, in quanto l’unica circostanza specifica era diretta ad accertare che la notte stessa del sinistro, verso le ore 2,00, il F. avesse telefonato ad un’amica comunicandole che era molto stanco e che non poteva fermarsi a riposare perchè doveva condurre la merce trasportata a destinazione entro le ore 5,00 del mattino; tuttavia, tale circostanza costituiva una circostanza che, quand’anche confermata, sarebbe stata appresa de relato e come tale costituirebbe un mero elemento indiziario da comprovare a mezzo di altri elementi;

– sulla richiesta di ammissione della produzione della “carta del conducente” (documento da cui si sarebbero potuti accertare gli spostamenti e i turni di guida della vittima nei ventotto giorni precedenti il sinistro letale), occorreva considerare che il documento era già nella disponibilità dell’attrice fin dal momento in cui ricevette gli oggetti personali del figlio, per cui non era giustificabile il ritardo della sua produzione in giudizio, da cui l’inammissibilità della produzione stessa.

4. Per la cassazione di tale sentenza la C. ha proposto ricorso affidato a tre motivi. A seguito della notifica del ricorso per cassazione, la soc. Ritras in liquidazione ha notificato ritualmente il proprio controricorso in data 20 aprile 2015.

5. In prossimità dell’udienza la ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c., corredata da visura camerale, da cui risulta che in data 6 marzo 2017 la società Ritras s.r.l. è stata cancellata dal registro delle imprese.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Preliminarmente, nel giudizio di cassazione, che è dominato dall’impulso di ufficio, non sono applicabili le comuni cause interruttive previste dalla legge in generale, sicchè la cancellazione dal registro delle imprese della società resistente, in data successiva alla proposizione del ricorso ed alla stessa costituzione in giudizio della società, non determina l’interruzione del processo. (ex plurimis, Cass. 3323 del 2014; v. pure Cass. 24635 del 2015). Anche recentemente è stato ribadito che l’avvenuta cancellazione dal registro delle imprese della società, dopo la proposizione del ricorso per cassazione, debitamente comunicata dal suo difensore, non è causa di interruzione del processo (Cass. n. 2625 del 2018).

1.1. Nel caso in esame, la cancellazione è avvenuta dopo la notifica del ricorso per cassazione e dopo la notifica del controricorso e precisamente in epoca compresa tra il deposito del controricorso della soc. Ritras in liquidazione e l’odierna udienza di discussione. Trova applicazione allora la regola dell’ultrattività del mandato alla lite. Per effetto del principio della cosiddetta perpetuatio dell’ufficio di difensore (di cui è espressione l’art. 85 c.p.c.), nessuna efficacia può dispiegare, nell’ambito del giudizio di cassazione (oltretutto caratterizzato da uno svolgimento per impulso d’ufficio), il sopravvenire del suddetto evento. Per il principio dell'”ultrattività del mandato”, il difensore a suo tempo regolarmente investito del mandato a difendere la società nel giudizio di cassazione continua a rappresentare la parte come se l’evento non si fosse verificato. Per lo stesso motivo, è rituale anche l’avviso di cancelleria relativo alla fissazione dell’udienza odierna comunicato allo stesso difensore.

2. Tanto premesso e venendo all’esame del ricorso, il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2724 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3) per essere stato negato l’ingresso alla prova testimoniale pur a fronte di una situazione in cui vi era stata una difficoltà di ricostruire, per via documentale, l’esatta dinamica del sinistro, così affidata ai soli elementi raccolti dalla polizia stradale, che si era limitata a rilevare la velocità del veicolo, lo stato dei luoghi e la non perfetta vigilanza del conducente (desunta dalla presenza nell’abitacolo di bevande contenenti un alto contenuto di caffeina). A fronte di tale incompleto quadro relativo alla ricostruzione dei fatti, i giudici di merito avrebbero dovuto ammettere la prova testimoniale su circostanze di evidente attinenza ai fatti di causa e tendenti a dimostrare il comportamento che la società pretendeva dal suo dipendente. Del pari, la ritenuta tardività della produzione della “carta del conducente”, dovuta al mancato pronto reperimento del documento tra gli effetti personali della vittima, ometteva di considerare le circostanze di grave turbamento e dolore in cui versava la ricorrente, così giungendo a trascurare un elemento documentale di grande rilievo per comprovare le modalità di espletamento della prestazione lavorativa negli ultimi giorni anteriori al sinistro.

3. Con il secondo motivo si denuncia violazione ed erronea valutazione dell’art. 230 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3) per avere la Corte territoriale disatteso anche l’istanza istruttoria formulata in primo grado e reiterata in appello vertente sul formale interrogatorio del legale rappresentante della società convenuta su tutte le circostanze sulle quali si era formulata la richiesta di prova testimoniale. L’interrogatorio, come mezzo tendente alla confessione della parte cui è deferito, è sempre ammissibile purchè sia concludente ed influente. Il mancato accoglimento dell’istanza istruttoria ha portato i giudici di merito a ritenere che l’incidente fosse stato determinato da esclusiva colpa del conducente, ma a tale conclusione si era giunti attraverso il rifiuto di qualsiasi indagine che avrebbe potuto fornire una visione diversa dei fatti di causa.

4. Con il terzo motivo si denuncia violazione e mancata applicazione dell’art. 2087 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3). L’imprenditore è da ritenere responsabile di incidenti che possano verificarsi al lavoratore non solo in conseguenza del mancato approntamento di idonee misure protettive, ma anche per il mancato utilizzo di quelle eventualmente già approntate, tenuto conto della possibile condotta il lavoratore (Cass. civ. 7328 del 2004). Anche la cassazione penale ha riconosciuto la penale responsabilità degli amministratori di ditta di autotrasporti per avere costretto un conducente, loro dipendente, a turni massacranti tali da provocare un pesante stress da lavoro correlato ad un conseguente crollo fisico (Cass. pen. 2180 del 2010),I giudici di merito sono altresì incorsi in una contraddizione logico-giuridica per avere affermato che il F. era in viaggio da dodici ore, così implicitamente riconoscendo il superamento del limite massimo di guida che, secondo l’art. 6, n. 1 e 2 del Regolamento CEE 3820/1985 è di nove ore giornaliere, limite che non può essere superato più di tre volte in una settimana. Si è in presenza di una condotta omissiva del datore di lavoro nella verifica delle condizioni psicofisiche del dipendente, nell’uso di mezzi e della loro efficienza, già di per sè prevedibile causa di sinistri stradali ed infortuni sul lavoro, e sussiste un nesso di causalità adeguata fra una condizione lavorativa stressante e l’infortunio lavorativo. Non è stato debitamente considerato che la responsabilità del datore di lavoro è esente solo quando sono presenti a carico del dipendente i caratteri della abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo, sì da costituire causa esclusiva dell’evento (Cass. n. 1159 del 2008).

5. Il ricorso non può trovare accoglimento.

6. In via generale, va osservato che la domanda di risarcimento dei danni proposta “iure proprio”, cioè, quali soggetti estranei al rapporto di lavoro, dai congiunti del lavoratore deceduto, anche se la morte del dipendente sia derivata da inadempimento contrattuale del datore di lavoro verso il dipendente ex art. 2087 c.c., trova la sua fonte esclusiva nella responsabilità extracontrattuale di cui all’art. 2043 c.c.. L’attuale ricorrente ha infatti agito per il ristoro dei danni da perdita del rapporto parentale, individuando i profili di colpa della società datrice di lavoro nella violazione dell’art. 2087 c.c., nei confronti del figlio. Il ricorso al catalogo della colpa di cui all’art. 2087 c.c., tuttavia, non esclude che la regola dell’onere probatorio inerente all’azione avviata dalla stessa C. (iure proprio) in questo giudizio debba comunque seguire il proprio ambito, a nulla rilevando che l’azione ex art. 2087 c.c., ha natura contrattuale ed è soggetta alla presunzione di colpa della parte datrice, cui spetta l’onere di dimostrare l’assenza di rimproverabilità soggettiva: in altre parole, la circostanza che l’azione aquiliana, oggetto di questo giudizio, individui il nucleo dell’elemento soggettivo del convenuto in una “porzione” di un’azione contrattuale, soggetta a regole probatorie differenti, non sposta il relativo onere, ex art. 2697 c.c. (cfr. Cass. n. 10578 del 2018, in motivazione).

7. La questione centrale del presente giudizio è costituita dalla mancata ammissione della prova testimoniale da parte del giudice di primo grado, con statuizione confermata in appello. La ricorrente ha addotto le ragioni che avrebbero dovuto indurre ad ammettere tale prova, individuando i punti salienti che con essa intendeva dimostrare e la decisività degli stessi. Assume infatti che la prova era intesa a dimostrare le modalità di organizzazione del lavoro imposte dalla parte datoriale al proprio dipendente, con i suoi riflessi sulle modalità di espletamento della prestazione lavorativa, di “autista di autotreni”, svolta dal congiunto. Ci si riferiva alla intensificazione dei ritmi di lavoro nel periodo precedente il sinistro, alla inosservanza di adeguati tempi di riposo in relazione all’orario di lavoro imposto dalle lunghe percorrenze, alle direttive da rispettare circa gli obblighi di consegna delle merci, alla condizione di stress lavorativo rappresentata dal F.. Si sostiene che da tali circostanze, ove provate, i giudici di merito ben avrebbero potuto desumere la colpa datoriale, di ordine omissivo o commissivo, per violazione delle tutele di cui all’art. 2087 c.c..

8. La censura, benchè ammissibile, non può trovare accoglimento.

8.1. Nel caso specifico, la Corte di appello, ancorchè con sintetica motivazione, ha condiviso il giudizio già espresso dal primo giudice circa il carattere generico delle circostanze oggetto dei capitoli di prova, mentre l’unico fatto compiutamente collocato nel tempo e nello spazio riguardava il capitolo vertente sulla audizione di una teste che avrebbe dovuto deporre circa l’avere appreso de relato dallo stesso F., telefonicamente, poche ore prima del sinistro, del suo stato di affaticamento e della necessità di consegnare la merce entro le ore 5 del mattino.

8.2. Circa il primo passaggio motivazionale, va ribadito il principio per cui le prove per interrogatorio formale e per testi, secondo quanto richiesto negli artt. 230 e 244 c.p.c., devono essere dedotte per articoli separati e specifici (Cass. n. 12292 del 2011). La richiesta di provare per testimoni un fatto esige non solo che questo sia dedotto in un capitolo specifico e determinato, ma anche che sia collocato univocamente nel tempo e nello spazio, al duplice scopo di consentire al giudice la valutazione della concludenza della prova ed alla controparte la preparazione di un’adeguata difesa (cfr., Cass. n. 9547 del 2009, n. 20997 del 2011, Cass. n. 1808 del 2015). Inoltre, il giudice può sempre rilevare d’ufficio l’inammissibilità della prova che verta su apprezzamenti e valutazioni del teste, piuttosto che su fatti specifici a conoscenza dello stesso, in quanto la prova sarebbe comunque inutilizzabile dal giudice, che non può legare il suo convincimento ai giudizi dei testimoni (Cass. n. 8620 del 1996).

8.3. In punto di diritto, non può ritenersi viziata la sentenza che nel rigettare l’istanza di ammissione della prova testimoniale fondi la stessa sul giudizio di genericità dei capitoli, in quanto privi dei requisiti circostanziali che ne avrebbero consentito una precisa collocazione nel tempo e nello spazio.

8.4. Quanto alla mancata ammissione della deposizione testimoniale de relato, come è noto, in tema di prova testimoniale, i testimoni de relato in genere (diversamente dai testimoni de relato actoris sono quelli che depongono su fatti e circostanze di cui sono stati informati dal soggetto che ha proposto il giudizio, così che la rilevanza del loro assunto è sostanzialmente nulla, in quanto vertente sul fatto della dichiarazione di una parte e non sul fatto oggetto dell’accertamento, fondamento storico della pretesa) depongono su circostanze che hanno appreso da persone estranee al giudizio, quindi sul fatto della dichiarazione di costoro, e la rilevanza delle loro deposizioni, pur attenuata perchè indiretta, è idonea ad assumere rilievo ai fini del convincimento del giudice, nel concorso di altri elementi oggettivi e concordanti che ne suffragano la credibilità (Cass. n. 569 del 2015). La Corte di appello non ha violato alcuna regola giuridica laddove ha ritenuto che la testimonianza de relato non potesse costituire, da sola, prova sufficiente a fondare la dimostrazione della colpa datoriale per le condizioni di stress lavorativo in cui il F. sarebbe stato costretto a lavorare nei tempi immediatamente precedenti il triste evento.

8.5. Circa la mancata ammissione di documento “carta del conducente”, la sentenza di appello ne ha ritenuto la tardività in quanto produzione soggetta alle preclusioni istruttorie poste dall’art. 183 c.p.c., comma 6. La censura sul punto è del tutto generica e non investe la regola processuale di cui la sentenza impugnata ha fatto applicazione.

9. Quanto al terzo motivo, esso involge la questione dell’assegnazione dei carichi di lavoro con riferimento agli effetti lesivi della integrità fisica e morale dei lavoratori che possano derivare dalla inadeguatezza del modello organizzativo adottato dall’imprenditore con le proprie direttive e disposizioni interne.

9.1. L’esame della questione resta assorbito nel presente giudizio di cassazione, in quanto precluso dalle ragioni di ordine processuale (per le regole di ammissione delle prove) e sostanziali (in ordine al riparto degli oneri probatori ex art. 2697 c.c., in relazione all’azione proposta ex art. 2043 c.c.) che precedono, di carattere pregiudiziale ed assorbente.

10. Il ricorso va dunque rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, art. 2.

11. Dagli atti prodotti dalla stessa ricorrente, risulta che è stata rigettata la sua richiesta di ammissione al gratuito patrocinio (documento depositato in cancelleria il 7 luglio 2015). Di tanto va dato atto ai fini del raddoppio del contributo unificato, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, che costituisce una obbligazione di importo predeterminato che sorge ex lege per effetto del rigetto dell’impugnazione, della dichiarazione di improcedibilità o di inammissibilità della stessa.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 3.500,00 per compensi professionali, oltre 15% per spese generali e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 9 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 2 gennaio 2020

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